Ci possiamo ancora fidare degli alleati statunitensi?

Yankee go home” urlavano una volta gli appartenenti a movimenti di sinistra di tutto il mondo. Tempi passati! Ora sono gli yankees che se ne vanno via, senza preavviso e lasciando spesso in balia di vendette coloro che (forse incautamente) si erano fidati di loro.

Il “We have defeated Isis in Syria” proclamato da Trump mi riporta alla mente il “Mission Accomplished” di un altro presidente USA, ricordato oggi quasi esclusivamente per le cantonate prese e le bugie dette in politica estera!

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Successivamente, The Donald ha dichiarato anche l’intendimento di dimezzare il già limitato contingente USA in Afghanistan (14 mila uomini).

“Mad Dog” Mattis , fortemente contrario a questi ripiegamenti di forze (come gran parte del dipartimento della Difesa e di quello di Stato), si è dimesso. Non aveva altra scelta onorevole.

Ritengo che i ritiri in Siria e in Afghanistan siano due casi diversi, sia per i motivi alla base delle relative decisioni, sia per gli interessi in gioco nei due teatri.

In entrambi i casi, però, si può leggere “loud and clear” un messaggio politico a chi, in situazioni di crisi internazionali potrebbe pensare di farsi sostenere dagli Stati Uniti: non importa cosa Washington abbia promesso ma in caso di prioritari interessi nazionali legati magari solo a scadenze elettorali, gli Stati Uniti si ritirano più o meno repentinamente lasciando nei guai popoli, fazioni e milizie alleati che si fidavano dell’America.

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In Siria il messaggio è stato indirizzato (in primis) ai Curdi, in Afghanistan alle autorità governative di Kabul.

Soprattutto in relazione al “tradimento” dei curdi, prima usati per combattere là dove non si voleva (e, in realtà, neanche si poteva) mandare a combattere i ragazzoni USA, si sono espressi molti noti commentatori.

In Afghanistan, la situazione è comunque simile. Chi ha creduto (e si è schierato) nella lotta contro Talebani e terrorismo islamista l’ha fatto convinto di poter contare sull’appoggio militare statunitense, almeno fino al raggiungimento dell’autosufficienza da parte delle autorità Governative nel settore della sicurezza (autosufficienza che, personalmente, non vedo all’orizzonte).

Queste decisioni statunitense mi fanno tornare alla mente le drammatiche immagini del decollo degli ultimi elicotteri dall’Ambasciata USA a Saigon, con una moltitudine di sudvietnamiti (cui forse era stata promessa la salvezza in Nord America) abbandonati a terra in attesa dell’inevitabile vendetta di vietcong e nordvietnamita.

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In anni a noi più vicini, quante morti in Afghanistan o in Iraq possono essere attribuite a dichiarazioni di Bush (junior) o di Obama. Dichiarazioni, ad esempio, di scadenze entro cui gli USA si sarebbero ritirati o avrebbero, comunque, ridotto drasticamente i loro contingenti? Dichiarazioni che apparivano avventate, se viste nell’ottica del successo (militare e politico) delle operazioni in cui i soldati USA erano impegnati, ma che erano frutto di puri calcoli elettorali domestici.

In un precedente articolo evidenziammo che l’iter che porta alla Casa Bianca non tenda a dare rilevanza all’expertise in politica estera. È un fatto, e lo era purtroppo anche prima di Trump, aspetto che non fa ben sperare per il futuro.

Tali ritiri di forze avranno sicuramente un peso sulla credibilità di Washington come alleato militare affidabile. Non tanto per l’entità delle truppe ritirate (9.000 uomini in tutto tra Siria e Afghanistan), ma per le motivazioni utilitaristiche alla loro base e per le modalità della loro comunicazione.

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In geopolitica, come in fisica, i vuoti lasciati vengono riempiti da altri. In Siria crescerà l’influenza di Turchia e Iran, si rafforzerà Assad e, soprattutto, si affermerà sempre più il ruolo della Russia.

In Afghanistan la situazione è più complessa, ma al fine di non far collassare il paese (ricco di risorse minerarie) ed evitare che torni al Medio Evo, non mi stupirei che altri attori subentrassero eventualmente con modalità diverse da quelle USA (Cina, Iran, forse non la Russia, ma chi lo sa?). Nel frattempo, o gli alleati NATO se ne vanno anche loro o l’Alleanza rischia di restare coinvolta chissà per quanto in un teatro operativo dove è intervenuta (direi quasi che è stata “trascinata”) su pressione USA e, essenzialmente, a salvaguardia d’interessi strategici prioritariamente statunitensi. Venendo a noi italiani ed europei, mi sembrano scaturire chiaramente alcune considerazioni che ci toccano da vicino.

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L’instabilità nel Mediterraneo Allargato e le sue conseguenze dirette e indirette (terrorismo, migrazioni, ecc) sono percepite da gran parte degli italiani e degli europei del Sud come il maggior rischio per la sicurezza.

È chiaro che non vi sia all’orizzonte né un intendimento né una reale capacità politica degli USA per un impegno protratto negli anni per la soluzione di crisi presenti o future in tale Regione.

Non essendo né l’UE (per il momento e nel prossimo futuro) né le maggiori nazioni europee in grado di imporsi come punti di riferimento nel contesto di tali crisi che ci toccano da vicino (neanche la Francia da sola), occorrerà tener conto della ormai incontrastata credibilità politico-militare russa e di quella economica cinese (che si sta mostrando sempre più presente ed aggressiva) in gran parte del Mediterraneo Allargato. Dovremmo tenerne conto soprattutto nel definire i nostri rapporti (politici, diplomatici e, perché no, economici) con Russia e Cina.

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L’atteggiamento statunitense adottato sino a oggi in relazione alla questione ucraina non fa certo pensare a un possibile sostanzioso impegno militare (boots on the ground)  in caso del concretizzarsi di una minaccia russa ai confini orientali di NATO ed UE . Per contro, in casi del genere, eventuali raid o lanci di missili quale pura dimostrazione di forza (come fatto da Trump in Siria) sarebbero solo pericolosi per la stabilità europea.

Indipendentemente dalle singole situazioni di crisi, nell’ottica delle minacce (reali o percepite che siano) sia da Sud che da Est, l’intero impianto organizzativo e decisionale della NATO, nonché i vincoli in termini di difesa collettiva dovrebbero essere al più presto riesaminati e rivisti nell’ottica di un ben diverso equilibrio tra il pilastro Europeo e quello Nordamericano dell’alleanza.

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In conclusione, gli Usa si sono ripetutamente dimostrati pronti ad abbandonare i propri alleati non soltanto in caso di gravi difficoltà operative, ma anche in relazione alle biennali esigenze elettorali interne.

La Russia di Putin si sta imponendo sempre di più come potenza di riferimento affidabile nelle zone di crisi (e non soltanto nel Mediterraneo Allargato).

Sicuramente noi (Italiani ed Europei) dovremmo essere più cauti nel supportare Washington. Per contro non possiamo ciecamente abbracciare Mosca, rischiando di divenirne il “servo sciocco”.

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Per non rischiare di restare “vasi di coccio tra vasi di ferro”, come il buon Don Abbondio, appare sempre più urgente giungere a una chiara definizione politica dei nostri interessi strategici (sia di quelli puramente nazionali sia di quelli comuni europei), indipendentemente dalle due superpotenze, senza farci trascinare in imprese d’interesse esclusivamente altrui per mal compreso senso di lealtà verso questa o quella potenza di riferimento (o peggio, restarvi con il cerino in mano anche quando gli altri se ne sono andati).

Ciò comporta l’esigenza di saper esprimere una politica di sicurezza autonoma di lungo periodo e la capacità diplomatica, economica e militare di sostenere tale politica.

Foto: White House, Op. Resolute Support, Difesa.it e Reuters

Antonio Li GobbiVedi tutti gli articoli

Nato nel '54 a Milano da una famiglia di tradizioni militari, entra nel '69 alla "Nunziatella" a Napoli. Ufficiale del genio guastatori ha partecipato a missioni ONU in Siria e Israele e NATO in Bosnia, Kosovo e Afghanistan, in veste di sottocapo di Stato Maggiore Operativo di ISAF a Kabul. E' stato Capo Reparto Operazioni del Comando Operativo di Vertice Interforze (COI) e, in ambito NATO, Capo J3 (operazioni interforze) del Centro Operativo di SHAPE e Direttore delle Operazioni presso lo Stato Maggiore Internazionale della NATO a Bruxelles. Ha frequentato il Royal Military College of Science britannico e si è laureato con lode in Scienze Internazionali e Diplomatiche a Trieste.

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