I ritiri di Trump e gli interessi di Washington
da Il Messaggero/Il Mattino del 22 dicembre
La decisione di Donald Trump di abbinare al ritiro dei 2mila militari schierati in Siria il dimezzamento dei 14 mila dislocati in Afghanistan risponde a una strategia che ha le sue radici nella precedente Amministrazione Obama.
Fu infatti il presidente democratico a varare i “grandi ritiri” da Iraq e Afghanistan che posero le basi per l’affermazione del Califfato in Iraq e Siria e la rivincita dei Talebani in Afghanistan, dove ormai gli insorti controllano oltre la metà del territorio.
Se Obama strizzava l’occhio a un elettorato stanco delle guerre post 11 settembre varate da George W. Bush, Trump oggi punta ad accontentare il suo elettorato in buona parte isolazionista e più propenso a vedere i soldati americani presidiare il “muro” al confine col Messico che a morire lontano da casa.
Obama fu costretto a inviare nuove forze, molto limitate, in Iraq per far fronte allo Stato Islamico in una guerra lasciata però combattere sul campo alle truppe locali e anche Trump, all’inizio del suo mandato, fu costretto a rimangiarsi l’impegno di riturare le truppe da Kabul, dove inviò poche migliaia di rinforzi che certo non hanno “fatto la differenza” in quel conflitto.
Se il ritiro americano dalla Siria alimenterà nuove tensioni tra curdi, turchi, siriani, iraniani e israeliani, il dimezzamento delle forze schierate in Afghanistan metterà in seria difficoltà le forze di Kabul e gli alleati europei che schierano nel paese asiatico circa 8.500 militari il 10 per cento dei quali italiani.
Paradossale, alla luce dei proclami di Trump, che gli ultimi due governi italiani abbiano dovuto far fronte alle lamentele di Washington per poter ritirare 200 dei 900 militari dislocati a Herat. Un ridimensionamento attuato in queste settimane ma solo dopo aver ottenuto da altri partner Nato la disponibilità a rimpiazzare con propri contingenti i nostri soldati.
Trump afferma da tempo, spesso con modi rudi, di volere un maggiore impegno militare dagli alleati Nato ma è evidente che nessun contingente europeo resterà in Afghanistan dopo il ritiro delle truppe americane così come nessuna cancelleria del Vecchio Continente pare intenzionata a impegnarsi militarmente su vasta scala in quel conflitto o in quello siriano.
In prospettiva il ritiro americano da Kabul potrebbe però rafforzare la linea dell’attuale governo italiano sia perché l’attenzione strategica di Roma è incentrata oggi sulla Libia e l’area Mediterranea e del Sahel, sia perché l’annoso impegno militare in Afghanistan è percepito da molti a Roma come uno sforzo inconcludente in termini operativi e finanziari.
Non si può escludere che Trump intenda rimpiazzare le truppe a Kabul con qualche migliaio di contractors: un progetto low-cost (rispetto alle spese richieste dalle forze militari) caldeggiato l’anno scorso da Erik Prince, amico del presidente e fondatore della discussa compagnia militare privata Blackwater. Sotto la pressione del Pentagono, Trump dovette rinunciare a quel progetto che potrebbe riprendere piede dopo l’uscita di scena di James Mattis.
Il capo del Pentagono, come tutti i vertici militari, teme che il disimpegno bellico di Trump (così come a suo tempo quello di Obama) ridimensioni il peso dell’apparato militare, lasci margini di espansione all’influenza dei rivali degli Usa e ponga le basi per un progressivo calo delle spese militari annuali, che oggi hanno raggiunto il record di 750 miliardi di dollari.
Di certo le forze Usa in Afghanistan, già oggi largamente insufficienti nonostante l’inasprimento dei raid aerei, una volta dimezzate potranno fare ben poco per sostenere e addestrare le deboli truppe afghane.
Kabul potrebbe chiedere aiuto a Mosca e accettare il concreto aiuto militare di Nuova Delhi, che trasformerebbe l’Afghanistan in un nuovo teatro di confronto tra indiani e pakistani: uno scenario che non gioverebbe alle speranze di stabilizzazione di quella regione.
Sul piano politico è evidente fin dall’insediamento di Obama alla Casa Bianca che gli Stati Uniti non sono più interessati a ricoprire il ruolo di gendarmi in alcune aree un tempo considerate prioritarie.
Non si tratta solo della disponibilità a pagare il prezzo in termini di vite e di costi finanziari: l’autosufficienza energetica raggiunta dagli Usa non rende più conveniente combattere e spendere per la sicurezza del greggio in Medio Oriente.
Anzi, oggi che Washington esporta più petrolio del Kuwait le crisi nelle aree energetiche potrebbero favorire la vendita del greggio americano. Del resto anche il sostegno all’Arabia Saudita e le sanzioni applicate all’Iran, nonostante rispettasse l’accordo sul programma nucleare, sembrano confermare la volontà di incrementare il rischio di conflitto regionale.
Una prolungata instabilità in Medio Oriente avrà riflessi minacciosi soprattutto per l’Europa e la Russia (che infatti si oppongono duramente alle iniziative degli Usa contro l’Iran), così come il ritiro americano dall’Afghanistan lascerà l’Asia Centrale alle prese con una ingigantita minaccia jihadista puntata soprattutto verso Cina e Russia.
Di fatto i ritiri voluti da Trump rispondono agli interessi di Washington ma determineranno un incremento potenziale della minaccia a cui dovranno far fronte tutti i competitor degli USA.
Foto US DoD, Op. Resolute Support e Difesa.it
Gianandrea GaianiVedi tutti gli articoli
Giornalista bolognese, laureato in Storia Contemporanea, dal 1988 si occupa di analisi storico-strategiche, studio dei conflitti e reportage dai teatri di guerra. Dal 1991 al 2014 ha seguito sul campo i conflitti nei Balcani, Somalia, Iraq, Afghanistan, Sahara Occidentale, Mozambico e Sahel. Dal febbraio 2000 dirige Analisi Difesa. Ha collaborato o collabora con quotidiani e settimanali, università e istituti di formazione militari ed è opinionista per reti TV e radiofoniche. Ha scritto diversi libri tra cui "Iraq Afghanistan, guerre di pace italiane", “Immigrazione, la grande farsa umanitaria” e "L'ultima guerra contro l’Europa". Presso il Ministero dell’Interno ha ricoperto dal 2018 l’incarico di Consigliere per le politiche di sicurezza di due ministri e un sottosegretario.