Quanti interessi contrapposti dietro il ritiro di Trump dalla Siria
da Il Messaggero/Il Mattino del 21 dicembre
Si scrive Isis ma si legge Russia (e Iran). L’annuncio del presidente Donald Trump che verranno presto ritirati i 2mila militari statunitensi schierati in Siria Orientale sta suscitando un vivace dibattito.
A cominciare proprio da Washington dove il Pentagono sta cercando di dissuadere il presidente poiché ritiene che la campagna militare contro i jihadisti richieda ancora sforzi militari ma soprattutto perché James Mattis, segretario alla Difesa, è consapevole che il ritiro consegnerebbe completamente la Siria in mano a Bashar Assad e all’influenza di Russia, Iran e Turchia.
Abbandonare gli alleati curdi delle Forze Democratiche Siriane (FDS) che operano a fianco delle truppe Usa minerebbe gli sforzi futuri degli Usa di conquistare la fiducia dei combattenti locali anche in altri fronti della guerra ai jihadisti.
Una valutazione ben motivata, soprattutto se si tiene conto che si tratterebbe del terzo “tradimento” attuato dagli Stati Uniti nei confronti della causa curda.
Nel 1991 Washington esortò i curdi a ribellarsi al regime di Baghdad e, di fronte alle dure rappresaglie del raìs iracheno, Usa e Nato dovettero intervenire creando una “zona protetta” nel nord dell’Iraq.
Nel conflitto al Califfato i curdi furono gli unici a reggere il fronte contro le milizie jihadiste ma a guerra finita né gli Usa né gli europei mossero un dito quando le forze di Baghdad strapparono ai curdi i territori liberati da Kirkuk al Sinjar, negando a Erbil la legittimità del referendum per l’indipendenza.
Anche in Siria i curdi della FDS rischiano di pagare il prezzo della loro ingenuità e di giochi strategici più grandi di loro.
Pressati tra le offensive di Ankara, che li considera terroristi, e dalla volontà di Bashar Assad di riprendere il controllo delle regioni orientali, scarsamente popolate ma ricche di gas e petrolio i cui proventi sarebbero oggi necessari alla ricostruzione post bellica del paese, i curdi hanno puntato tutto sulla protezione degli Stati Uniti.
Con la motivazione di combattere l’Isis hanno ampliato l’area sotto il loro controllo ad est del fiume Eufrate, ben oltre la regione abitata dall’etnia curda, irritando Damasco che si è vista respingere la proposta di concedere un’ampia autonomia ai curdi in cambio del ritiro delle loro milizie dalla provincia di Deir Ezzor.
Oggi che le FDS hanno sbaragliato il Califfato nella loro ultima roccaforte militare di Hajin e Trump parla apertamente di “riportare a casa” le truppe rifiutandosi di voler ricoprire il ruolo di “gendarme del Medio Oriente”, i curdi rischiano di trovarsi schiacciati da un’inaspettata convergenza di interessi tra Damasco e Ankara.
Tra l’incudine turca (Erdogan minaccia di attaccare Manbji e altri centri curdi lungo il confine) e il martello delle forze governative siriane appoggiate da russi e iraniani: comprensibile quindi che un portavoce curdo parli di “pugnalata alla schiena” da parte degli Usa.
Se Mosca e Damasco esprimono soddisfazione per l’annunciato ritiro dei militari a stelle e strisce (la cui presenza in Siria costituisce peraltro una violazione del diritto internazionale poichè il loro dispiegamento non è mai stato autorizzato dal governo legittimo siriano) gli europei mostrano preoccupazione.
Britannici, tedeschi e francesi (questi ultimi schierano truppe al fianco di statunitensi e curdi in territorio siriano) dicono ufficialmente di temere nuovi rigurgiti dell’Isis anche se il Califfato è già alle corde e non sembra in grado di portare la minaccia oltre il livello degli attacchi terroristici. Inoltre nel vicino Iraq restano forze Usa e della Coalizione.
Il vero motivo del disappunto europeo e di ampi apparati politici e militari statunitensi riguarderebbe invece la valutazione che il ritiro americano sancirà la vittoria definitiva nel lungo conflitto siriano (in cui l’Occidente ha sempre sostenuto i ribelli) di Assad e degli alleati russi e iraniani, aspetto quest’ultimo che preoccupa anche Israele.
Difficile al momento valutare se dietro all’annunciato ritiro dalla Siria vi sia un più ampio accordo tra Washington e Mosca le cui forze si sono confrontate in qualche scaramuccia lungo l’Eufrate. Non si può infatti escludere che in cambio del ritiro americano i russi si impegnino ad adottare un approccio più morbido nella crisi ucraina. Di certo la decisione di Trump, contraria alla volontà del cosiddetto “Deep State”, accentuerà le critiche di chi accusa il presidente di legami troppo stretti con Vladimir Putin.
Il ritiro potrebbe anche avere un significato politico, strizzando l’occhio all’elettorato “trumpiano” tradizionalmente ostile ai lunghi dispiegamenti di militari oltremare, anche se la guerra siriana non ha finora comportato perdite tali da avere un impatto politico negli USA.
Immagini: Limes, Anadiolu, AFP, Reuters e AP
Gianandrea GaianiVedi tutti gli articoli
Giornalista bolognese, laureato in Storia Contemporanea, dal 1988 si occupa di analisi storico-strategiche, studio dei conflitti e reportage dai teatri di guerra. Dal 1991 al 2014 ha seguito sul campo i conflitti nei Balcani, Somalia, Iraq, Afghanistan, Sahara Occidentale, Mozambico e Sahel. Dal febbraio 2000 dirige Analisi Difesa. Ha collaborato o collabora con quotidiani e settimanali, università e istituti di formazione militari ed è opinionista per reti TV e radiofoniche. Ha scritto diversi libri tra cui "Iraq Afghanistan, guerre di pace italiane", “Immigrazione, la grande farsa umanitaria” e "L'ultima guerra contro l’Europa". Presso il Ministero dell’Interno ha ricoperto dal 2018 l’incarico di Consigliere per le politiche di sicurezza di due ministri e un sottosegretario.