Prove d’intesa tra USA e talebani dietro il ritiro dall’Afghanistan annunciato da Trump?

Non è ancora definitivo il bilancio dell’attacco talebano di lunedì contro la base della Direzione nazionale della sicurezza (NDS, l’intelligence di Kabul) nella provincia centrale di Maidan Wardak, compreso, a seconda delle fonti, tra i 65 e i 199 militari rimasti uccisi ma sono almeno 65 i militari rimasti uccisi.

Mohammad Sardar Bakhyari, vice capo del consiglio provinciale, che ha riferito di “65 corpi estratti dalle macerie” mentre un anonimo funzionario della sicurezza ha parlato di almeno 70 morti. e fonti del ministero della Difesa di 100 vittime.

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L’attacco suicida è stato effettuato da un commando talebano infiltratisi nella base dopo aver fatto deflagrare un’autobomba schiantatasi contro l’edificio mentre un’altra autobomba è stata fermata dal fuoco dei militari afghani.

Una tattica che ripete lo schema varato diversi anni or sono dalla Rete Haqqani e che vede attentatori suicidi a piedi o su veicoli imbottiti di esplosivo farsi esplodere agli accessi di basi militari o edifici governativi per spianare la strada a gruppi di fuoco comunque votati al “martirio” dopo aver provocato il massimo dei danni e delle vittime. Uno schema che ha ispirato le azioni di molti gruppi e milizie jihadisti in tutto il mondo.

Al di là del numero di vittime, è difficile attribuire all’attacco talebano contro la base dell’intelligence nella provincia di Maidan Wardak una valenza legata al recente annuncio della Casa Bianca relativo al dimezzamento delle forze statunitensi a Kabul.

Anzi, l’attacco potrebbe essere messo in relazione all’annuncio di ieri con cui i talebani hanno reso nota la ripresa dei negoziati di pace, a Doha (Qatar), con i funzionari americani per porre fine a 17 anni di guerra.

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“Dopo che gli americani hanno accettato di porre fine all’occupazione dell’Afghanistan e di impedire l’uso del Paese per operazioni future contro altri Stati, i colloqui con i rappresentanti statunitensi si sono svolti oggi a Doha, la capitale del Qatar”, ha dichiarato il portavoce dei talebani, Zabihullah Mujahid.

L’incontro, che arriva dopo il meeting del dicembre scorso negli Emirati Arabi Uniti non è stato confermato da Washington ma aggiunge un nuovo rilevante elemento di riflessione al dibattito sul ritiro parziale ordinato da Donald Trump

In base a quanto reso noto dai talebani la riduzione da 15mila a 7.500 militari del contingente americano potrebbe costituire un banco di prova per un accordo con gli insorti in cui gli USA (e inevitabilmente anche gli alleati europei e Nato) si ritirano gradualmente dal paese in cambio dell’impegno talebano a non “esportare” il jihad fuori dai confini afghani.

La strage a Maidan Wardak avrebbe quindi lo scopo di garantire ai talebani di negoziare da una posizione di forza dimostrando la capacità di colpire duramente le forze di sicurezza governative.

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Forze che sono sempre state nel mirino dei jihadisti che hanno colpito spesso scuole e centri di addestramento con il duplice obiettivo di scoraggiare i giovani afghani ad arrolarsi e di uccidere i consiglieri militari occidentali che li addestrano.

In questo contesto il Direttorato per la Sicurezza Nazionale, (NDS) che in più occasioni ha dimostrato di disporre di informatori e infiltrati tra le fila nemiche, costituisce da sempre un bersaglio di elevato valore per i jihadisti.

E’ quindi evidente che l’annunciato ritiro di circa metà dei 15mila militari statunitensi presenti oggi in Afghanistan galvanizzerà ulteriormente i talebani aumentando l’esposizione delle forze di Kabul. Come già accadde dopo il ritiro voluto da Barack Obama delle forze da combattimento Usa/Nato, tra il 2011 e il 2014, gli insorti puntano oggi a imprimere una spallata alle forze governative sempre più demotivate, prive di mezzi e armi pesanti e provate da perdite di centinaia di uomini uccisi o feriti ogni mese e dagli elevati tassi di diserzione.

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Già oggi i talebani hanno il controllo di poco più della metà del territorio nazionale, per lo più aree rurali mentre finora i tentativi di conquistare grandi centri urbani si sono risolti in pesanti sconfitte.

L’imminente ridimensionamento della presenza statunitense ridurrà ulteriormente le capacità di fornire supporto e consulenza ai reparti governativi ed è probabile che anche gli alleati europei, che oggi schierano 8.500 militari (il 10 per cento sono italiani), riducano presto a livelli poco più che simbolici i rispettivi contingenti.

Se l’obiettivo di Donald Trump è lasciare alle potenze regionali il compito di contrastare le forze jihadiste e far fronte alla crescente destabilizzazione, ai talebani viene offerta l’opportunità non solo di consolidare ed estendere le aree sotto il loro controllo ma anche di “esportare” il jihad oltre confine, come sta già accadendo in Turkmenistan, dove gli sconfinamenti talebani allarmano il governo locale e la Russia.

Elementi che contribuiscono ad abbafghan-war-isaf-patrol-10assare il morale alle forze di Kabul, sostenute dagli stanziamenti di oltre 4 miliardi di dollari che Usa e alleati (Roma mette a disposizione 120 milioni di euro all’anno) elargiscono ogni anno per retribuire, sfamare e armare le forze di sicurezza afghane.

Nonostante l’anno scorso sia stato registrato il record dei bombardamenti aerei americani, l’unica speranza per invertire il corso del conflitto, o quanto meno stabilizzarlo, è riposto nella possibilità di tornare a schierare sul terreno forze di combattimento Usa e Nato che affianchino i soldati di Kabul.

Da quattro anni ormai le truppe alleate si occupano quasi esclusivamente di addestramento e consulenza. Nessuno immagina di tornare a schierare in Afghanistan 140 mila militari come nel 2010 (forze che permisero di strappare agli insorti ampie aree del paese) ma l’Occidente e soprattutto gli Stati Uniti non sembrano intenzionati a mettere in campo neppure forze da combattimento limitate.

Costi finanziari e perdite risultano inaccettabili a Washington e ancora di più in un’Europa stanca dei continui “tira e molla” statunitensi che dal 2002, attraverso tre presidenti, hanno alternato in Afghanistan rafforzamenti militari e ritiri risultati inconcludenti.

La parvenza di un accordo con i talebani potrebbe costituire domani l’alibi cercato un po’ da tutti in Occidente per abbandonare l’Afghanistan al suo destino.

@GianandreaGaian

Foto: Khabar News 24, Reuters, ABC, US DoD e al-Jazeera

 

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Giornalista bolognese, laureato in Storia Contemporanea, dal 1988 si occupa di analisi storico-strategiche, studio dei conflitti e reportage dai teatri di guerra. Dal 1991 al 2014 ha seguito sul campo i conflitti nei Balcani, Somalia, Iraq, Afghanistan, Sahara Occidentale, Mozambico e Sahel. Dal febbraio 2000 dirige Analisi Difesa. Ha collaborato o collabora con quotidiani e settimanali, università e istituti di formazione militari ed è opinionista per reti TV e radiofoniche. Ha scritto diversi libri tra cui "Iraq Afghanistan, guerre di pace italiane", “Immigrazione, la grande farsa umanitaria” e "L'ultima guerra contro l’Europa". Presso il Ministero dell’Interno ha ricoperto dal 2018 l’incarico di Consigliere per le politiche di sicurezza di due ministri e un sottosegretario.

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