Baghuz è caduta: il Califfato perde il suo ultimo lembo di territorio
da Il Mattino del 24 marzo 2019
Sono cominciate subito dopo l’annuncio della caduta dell’ultima ridotta dei miliziani del Califfato le celebrazioni della “vittoria” contro l’Isis nel sud-est della Siria. La cerimonia nella base curda e delle forze della Coalizione (con contingenti statunitensi, francesi e britannici) allestita nel campo petrolifero di al-Omar conferma la volontà generale di dichiarare conclusa la guerra e aprire una nuova pagina pur se piena di incognite.
Certo la sconfitta militare dell’esercito del Califfato ha un significato importante e non solo sul piano simbolico dal momento che, a differenza di al-Qaeda, l’Isis è riuscito a costituire un vero e proprio Stato con amministrazione centrale e locale, sistemi di welfare, scolastico, sanitario, esercito e polizia.
Tuttavia, sul piano militare la battaglia di Baghuz ha dimostrato che i combattenti dell’Isis non hanno perso combattività, hanno inflitto severe perdite al nemico (dal 2014 solo i curdi hanno registrato per loro ammissione 11mila caduti e il doppio di feriti), hanno tenuto duro due mesi nell’ultima roccaforte contro forze soverchianti che avevano in più occasioni annunciato una vittoria sempre definita imminente ma acquisita (forse) solo ieri.
I dubbi sono quindi fondati, soprattutto tenendo conto che sia il comando americano della Coalizione che le Nazioni Unite valutano che l’Isis disponga ancora di molte migliaia di combattenti tra la Siria Orientale e l’Iraq settentrionale.
Milizie che con la caduta di Baghuz non hanno più il controllo effettivo di centri abitati e territori ma forze di quell’entità, disperse oggi per non costituire un bersaglio, potrebbero presto tornare a issare la bandiera nera in qualche zona remota dell’Iraq o più facilmente della Siria.
La frammentazione di quest’ultima continuerà infatti a rappresentare un terreno fertile non solo a causa del permanere delle rivendicazioni di parte della popolazione sunnita incarnate in questi anni dalla guerra contro Bashar Assad e quindi in parte anche dallo Stato Islamico, ma anche perché il territorio siriano è diviso oggi in zone controllate da forze diverse con ampie “terre di nessuno” e zone cuscinetto.
Il governo di Damasco controlla ormai stabilmente la Siria centrale e occidentale lungo i confini con Libano, Israele e Giordania ma non la regione di al-Tanf, tra le frontiere giordana e irachena, in mano a ribelli addestrati dagli statunitensi e protetti dalle forze americane basate nel regno hashemita. Nel nord ovest qaedisti dell’ex Fronte al-Nusra controllano ancora parte della provincia di Idlib, circondate dalle truppe di Assad e “protette” a nord da truppe turche in base a una fragile tregua garantita dalle intese tra Mosca e Ankara.
Nell’est il prossimo ritiro (o forse solo dimezzamento) dei 2mila militari americani schierati al fianco dei curdi obbligherà questi ultimi a fare i conti con la pretesa di Damasco di riprendere il controllo di quei territori scarsamente popolati ma ricchi di gas e petrolio, il cui sfruttamento è prioritario per Assad se vuole avviare la ricostruzione post bellica del paese.
Se a questo quadro di instabilità si aggiungono le frequenti incursioni aeree israeliane in Siria contro obiettivi iraniani o di Hezbollah appare chiaro che il territorio siriano si presta ancora a essere teatro di offensive e colpi di mano dell’Isis anche al di là della minaccia terroristica, destinata peraltro a restare ancora a lungo ben concreta in Medio Oriente come in Europa.
Del resto non vi sono prove che l’Isis abbia perso, con la guerra, anche tutti i suoi vertici e persino Abu Bakr al-Baghdadi dato più volte per morto o ferito, potrebbe essere ancora vivo benchè sul campo di battaglia di Baghuz restino centinaia di corpi ancora da identificare. Secondo l’intelligence di Baghdad, il Califfo si nasconderebbe nei tunnel scavati in zone desertiche lungo il confine siriano-iracheno.
Del resto una “resurrezione” dell’Isis nelle aree in mano ai curdi o ai governativi di Assad potrebbe rientrare negli interessi di alcune potenze regionali, arabi o turchi (che hanno già in passato finanziato e armato i jihadisti), pronti i primi a ostacolare il processo di pace varato da Damasco e i secondi a minare il progetto di autonomia dei curdi siriani, legati politicamente alle milizie del PKK attive in Turchia.
Come è già accaduto dopo gli affrettati ritiri statunitensi e degli alleati occidentali dall’Iraq e dall’Afghanistan voluti da Barack Obama, la volontà statunitense di disimpegnarsi dai conflitti a fini politici interni incarnata oggi da Donald Trump rischia di porre le basi per un prossimo ritorno di fiamma dell’insurrezione jihadista.
Al tempo stesso differenti interessi separano in modo sempre più evidente americani ed europei.
Per i primi la presenza militare in Siria e Iraq, pur se in fase di ridimensionamento, ha la funzione di impedire a Iran e Russia di esercitare pienamente la leadership conquistata sui campi di battaglia contro le forze jihadiste.
Per i secondi, sempre più incapaci di impiegare lo strumento militare in modo autonomo da Washington, è prioritaria la stabilizzazione dell’area mediterranea orientale e meridionale per assicurare gli approvvigionamenti energetici e scongiurare flussi migratori incontrollati.
Obiettivi conseguibili oggi pragmaticamente solo col robusto sostegno alla ricostruzione della Siria, propedeutica al rimpatrio dei tanti profughi di guerra, ma che di fatto significherebbe aiutare il governo di Assad, oggi stretto tra le influenze dominanti e in molti casi contrapposte di Russia e Iran.
Un netto posizionamento strategico, specie dopo che in questi anni l’Europa ha sostenuto le milizie ribelli, reso oggi improbabile dalla considerazione che aumenterebbe i già numerosi motivi di attrito tra le due sponde dell’Atlantico.
Con realismo occorre però ricordare che proprio ai servizi segreti di Assad gli europei devono molte delle informazioni acquisite sui “nostri” foreign fighters e che oggi più che mail le alternative all’attuale governo siriano non esistono, a meno che non si voglia destabilizzare nuovamente la Siria e l’intera regione.
Foto FDS, AFP, Stato Islamico e Twitter
Gianandrea GaianiVedi tutti gli articoli
Giornalista bolognese, laureato in Storia Contemporanea, dal 1988 si occupa di analisi storico-strategiche, studio dei conflitti e reportage dai teatri di guerra. Dal 1991 al 2014 ha seguito sul campo i conflitti nei Balcani, Somalia, Iraq, Afghanistan, Sahara Occidentale, Mozambico e Sahel. Dal febbraio 2000 dirige Analisi Difesa. Ha collaborato o collabora con quotidiani e settimanali, università e istituti di formazione militari ed è opinionista per reti TV e radiofoniche. Ha scritto diversi libri tra cui "Iraq Afghanistan, guerre di pace italiane", “Immigrazione, la grande farsa umanitaria” e "L'ultima guerra contro l’Europa". Presso il Ministero dell’Interno ha ricoperto dal 2018 l’incarico di Consigliere per le politiche di sicurezza di due ministri e un sottosegretario.