La penetrazione arabo-turca e le rivaltà nel Corno d’Africa
The Economist ha scritto recentemente della nuova scramble for Africa focalizzandosi soprattutto sull’espansione cinese nell’Africa sub-sahariana. Ma vi è un’altra espansione che interessa in particolar modo il Corno d’Africa la cui rinnovata valenza strategica è paradossalmente dovuta in larga parte a fenomeni destabilizzanti come terrorismo, pirateria internazionale e insurgency, che spingono molti a intraprendere azioni volte a salvaguardare interessi commerciali, energetici e politico-diplomatici da fattori di insicurezza crescente.
Le dinamiche attuali nel Corno d’Africa riflettono lo spill over della consolidata rivalità tra il fronte saudita-emiratino e turco-qatariota, esacerbando divisioni locali ed internazionali pre-esistenti e sollevando la questione di quanto gli stati coinvolti rappresentino una forza stabilizzatrice in questo pezzo d’Africa.
I paesi del Golfo considerano almeno dagli anni ’90 i territori africani del Mar Rosso come una retrovia strategico da consolidare ed i governi dei rispettivi Stati come potenziali alleati, legati da un’eredità storica e culturale almeno in parte condivisa ma motivati anche dall’opportunismo strategico.
Il doppio asse composto da Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti da un lato e da Turchia e Qatar dall’altro è il protagonista assoluto di questa inedita corsa al controllo dei porti e degli approdi. Comune a tutti gli attori è l’interesse a consolidare o rafforzare il controllo sullo stretto di Bab-el-Mandeb, via commerciale fondamentale che collega il Mar Rosso all’Oceano indiano e al Mar Arabico attraverso cui transita l’8 per cento del petrolio mondiale e dove le petroliere saudite vengono regolarmente attaccate da insorgenti houthi filoiraniani.
Nel Corno d’Africa e nel Mar Rosso, le potenze del Golfo esportano rivalità intraregionali in un contesto vulnerabile già caratterizzato da un connubio di dinamiche politico-energetico-securitarie ma anche climatico-umanitario-ambientali di rilevanza internazionale.
A dispute confinarie non del tutto risolte (Etiopia-Somalia e Sudan-Etiopia), conflitti interetnici e gruppi ribelli si somma la nascente competizione interna per le risorse energetiche tra la Somalia (la regione del Puntland possiede riserve petrolifere inesplorate), l’Etiopia (dove le prime estrazioni sono avvenute solo alcuni mesi fa nella regione dell’Ogaden, ricca anche di giacimenti di gas), ed il Sudan, tradizionale esportatore di petrolio nel Corno.
L’OCHA (Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari) stima che attualmente nella regione 27 milioni di persone si trovino in situazione di emergenza alimentare; 11 milioni sarebbero gli sfollati interni, una parte dei quali ha dovuto lasciare la propria abitazione a causa delle inondazioni che hanno colpito la regione nel corso del 2018, e 4,5 milioni i rifugiati. Secondo l’IOM solo nel 2018 sarebbero stati 400.000 i migranti partiti da Eritrea, Somalia e Gibuti verso l’Europa.
Il gioco a più livelli vede l’Arabia Saudita ed gli Emirati volti contenere l’Iran, e il Qatar con la Turchia contrastare con tutte le proprie forze l’influenza saudita e di riflesso quella emiratina.
Gli Stati del Golfo hanno nella regione interessi di sicurezza allargati, che comprendono sia la dimensione della sicurezza economica che quella militare. Lo confermano gli ingenti investimenti in infrastrutture logistiche e installazioni fatti allo scopo di proteggere gli interessi nazionali e sub-regionali da minacce esogene o endogene, ma anche di assicurarsi un avamposto privilegiato sulla guerra in Yemen.
Questo bisogno è diventato urgente a partire dal giugno 2017, quando le rivalità nella penisola araba hanno raggiunto il culmine nel momento in cui l’Arabia Saudita, l’Egitto, gli Emirati Arabi Uniti ed il Bahrain hanno interrotto i rapporti diplomatici e commerciali con il Qatar imponendo un embargo al paese, che a gennaio dell’anno scorso si è anche ritirato dall’Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio. Dallo scoppio della crisi, entrambe le fazioni hanno intensificato i loro rapporti con i paesi dell’Africa orientale tentando di stabilire alleanze con i rispettivi governi africani attraverso partnership economiche e accordi militari.
La competizione tra gli Stati del Golfo non si manifesta in una semplice esportazione delle tensioni ma si spinge fino a rimodellare le alleanze e la geopolitica della regione. Ciò avverrebbe allo stesso tempo attraverso un di mix di processi di pacificazione inter-statali nel Corno d’Africa, di cui gli stati mediorientali si farebbero promotori, e attraverso una penetrazione sempre piu’ aggressiva negli affari interni di alcuni stati che ha in alcuni casi esacerbato le tensioni interne pre-esistenti, ritenute secondarie rispetto all’interesse ad acquisire maggior influenza politico-diplomatica sulla regione del Mar Rosso.
Ad esempio, Arabia Saudita e Emirati Arabi Uniti hanno contribuito alla normalizzazione dei rapporti tra Eritrea ed Etiopia (l’accordo di pace è stato firmato in settembre a Jeddah), a promuovere il dialogo tra Eritrea e Gibuti riguardo all’annosa questione di Dumeira, e anche ad alleggerire le tensioni tra Etiopia ed Egitto per la costruzione della diga «del rinascimento etiope», mentre hanno creato una vera e propria guerra per procura in Somalia, dove le tensioni intra-arabe tra Emirati Arabi e Qatar hanno riacceso gli animi tra Mogadiscio e alcuni governi federali compreso quello dell’auto-dichiarato stato del Somaliland.
La distensione regionale nel Corno crea opportunità inedite per gli attori esterni che i paesi del Golfo – ma non solo – non intendono farsi sfuggire: dagli aiuti allo sviluppo, al bisogno di infrastrutture e al sostegno finanziario, il mercato non manca.
Nuove opportunità emergono anche dal mercato sotterraneo. Come nota un recente rapporto di EXX Africa, la normalizzazione dei rapporti tra Eritrea ed Etiopia potrebbe avere come effetto collaterale un riorientamento delle rotte del traffico illecito di armi tra la penisola arabica e il Corno d’Africa, dove le attvità legate a tale traffico sarebbero in aumento a Gibuti, il cui governo sostiene i gruppi armati del nord della Somalia. Materiale militare destinato alle forze non allineate al governo centrale e proveniente dagli Emirati era stato ritrovato in Somalia dal gruppo di esperti delle Nazioni Unite già nel 2015.
Concretamente, la spartizione dell’influenza avviene attraverso l’installazione di basi militari permanenti e la creazione di hub logistico portuali lungo tutta la costa del Mar Rosso. Sono ben 8 i paesi che hanno attualmente una base o installazione militare nel Corno d’Africa: Francia, Stati Uniti, Giappone, Italia, Emirati Arabi Uniti, Cina, Turchia e Qatar.
Come nota Giuseppe Dentice dell’ISPI, l’Arabia Saudita sta consolidando la sua presenza attraverso infrastrutture marittime «che mirano alla costruzione di una strategia volta a fidelizzare gli alleati attraverso partnership e accordi finanziariamente vantaggiosi».
I tasselli di tale strategia sono chiari. Nel 2016 il regno si era reimpossessato delle isolette di Sanafir e Tiran, il cui controllo offre accesso ai porti di Eilat in Israele e di Aqaba in Giordania, e quindi pieno accesso al Mar Rosso. Il progetto infrastrutturale di tipo civile NEOM, lanciato alla fine del 2017, prevede la creazione di una città futuristica altamente tecnologica nonchè prima zona franca al mondo che dovrebbe sorgere tra Arabia Saudita, Egitto e Giordania e mira all’affermazione della zona come un hub globale che collega Asia, Europa e Africa.
Il regno saudita è attualmente in trattative per la costruzione di una base a Gibuti, paese che ospita già installazioni militari di ben cinque paesi, tra cui anche una italiana, inaugurata nel 2013. Motivata soprattutto dalla necessità di contenere l’Iran e contrastare l’influenza del Qatar, nel Corno d’Africa l’Arabia Saudita ha investito particolarmente nel settore agricolo e manufatturiero. Le forze armate saudite, inoltre, sono già presenti ad Assab in Eritrea, dove nel 2016 è stata costruita una base militare emiratina per sostenere lo sforzo bellico in Yemen.
E sono proprio gli Emirati Arabi Uniti ad esser diventati i maggiori protagonisti nella sub-regione africana, considerata « il fianco occidentale del proprio fronte di sicurezza ». In Somaliland stanno costruendo una base navale che aprirà entro giugno, cosa che ha suscitato i fastidi di Mogadiscio.
A maggio dell’anno scorso, Abu Dhabi aveva anche deciso unilateralmente di schierare forze militari sull’isola di Socotra in Yemen (dove già aveva tentato di convincere gli abitanti a votare per un referendum per l’autodeterminazione), poi ritirate a causa delle proteste della popolazione locale contro il dispiegamento di 4 jet militari e di più di 100 truppe emiratine.
Gli Emirati sono presenti militarmente sia ad Assab che Berbera dal 2015 ed hanno fornito significativa assistenza alle forze di polizia marittima del Puntland per combattere la pirateria ed i gruppi islamisti. Nel Jubbaland starebbero discutendo lo sviluppo del porto di Kismayo, mentre nel Somaliland gli Emirati hanno anche in progetto di formare la guardia costiera.
La strategia attuata dagli Emirati è quella di “riempire lo spazio disponibile prima che lo facciano gli altri», come riporta International Crisis Group. Cio’ avviene anche attraverso la costruzione o l’ammodernamento di infrastrutture, in particolare energetiche: da qualche mese gli Emirati stanno costruendo un oleodotto che collegherebbe il porto di Assab con Addis Abeba in Etiopia.
A fine dicembre 2018, l’Arabia Saudita ha dichiarato di aver raggiunto un accordo per la creazione di un organismo di cooperazione con sei paesi del Mar Rosso e del Golfo di Aden, che includerebbe Egitto, Gibuti, Somalia, Sudan, Yemen e Giordania. Una sorta di forum del Mar Rosso “per la pace e la sicurezza” che garantirebbe innanzitutto la sicurezza delle rotte commerciali ma risponderebbe anche a tutti i temi piu’ pressanti sia a livello regionale che internazionale: migrazione, sicurezza alimentare, estremismo di matrice islamica, conflitti interni.
Questo primo tentativo di legare alcuni degli stati del Corno in un quadro di cooperazione formale vuole apparentemente porre gli stati del Corno d’Africa su un piede d’uguaglianza nella presa di decisioni chiave a livello macroregionale. In mancanza di un processo di integrazione regionale africano, che gli stati del Golfo non hanno certamente interesse a favorire – se non in misura ridotta come nel settore energetico e per motivi strumentali – l’organismo rischia di nascere come un’entità ibrida di cui solo il regno saudita assieme ai suoi fedeli Emirati ha il potere di controllare l’agenda.
La spartizione dell’influenza avviene attraverso relazioni ormai consolidate ma non cristallizzate. L’Eritrea è schierata senza esitazioni con il fronte saudita. L’Etiopia segue invece una politica di equidistanza fra i due assi contrapposti, ma guarda con favore alla politica di creazione di nuove infrastrutture portuali degli Emirati per rompere la dipendenza da Gibuti.
L‘equidistanza è stata mantenuta per un po’ anche dalla Somalia, ma a seguito dei sospetti riguardo alla simpatia – poi confermata – del governo centrale verso Qatar e Turchia, ad aprile dell’anno scorso la Somalia e gli Emirati Arabi hanno messo fine a quattro anni di cooperazione militare nel momento in cui Abu Dhabi ha smesso di pagare gli stipendi delle truppe di stanza a Mogadiscio. Alla fine del 2018, pero’, secondo fonti somale, il governo centrale ha iniziato ad attenuare l’opposizione ai progetti portuali e militari degli Emirati in Somaliland e Puntland dando avvio ad una moderata distensione.
Il riallineamento somalo è almeno in parte conseguenza dell’accordo firmato l’estate scorsa da Etiopia e Somalia per un’integrazione politica e militare che comprende lo sviluppo di 4 porti commerciali somali.
Il Sudan è entrato nell’orbita saudita senza opporre resistenza, tanto che oltre 10mila militari e 4 Mig (foto sopra) sono stati dispiegati da Karthoum in Yemen a sostegno della coalizione guidata da Riad. Una scelta che ha causato notevoli attriti interni dal momento che Karthoum ha legami storici con l’Iran ed anche col Qatar.
Gibuti in quanto nodo strategico per eccellenza è contesa un po’ da tutti, ma la disputa si gioca soprattutto tra Arabia Saudita e Qatar in particolare da luglio dell’anno scorso, quando il governo del piccolo stato africano ha inaugurato quella che diventerà la più grande zona franca del continente africano. Il progetto è stato finanziato dalla Cina, altro attore sempre piu’ aggressivo nel Corno, che mira a inserire Gibuti nella via della seta marittima cinese.
All’interventismo saudita ed emiratino fa da contrappeso il fronte turco-qatariota. Il Qatar ha concentrato le sue attenzioni su Sudan e Somalia, lasciata la buffer zone tra Gibuti ed Eritrea che Doha manteneva con 450 truppe dal 2010, in ruolo di mediatore della disputa tra i due paesi africani riguardo la regione di Dumeira.
In cooperazione con la Turchia, Doha è attiva soprattutto tra le aree del Mar Rosso e dell’Oceano Indiano occidentale.
In Somalia, il Qatar non è riuscito ad ottenere basi militari pur avendo tentato di sostenere finanziariamente il governo anche con forniture di mezzi militari (foto a lato) in ottica antisaudita. E’ pero’ in corso di sviluppo una base in Sudan, paese che riconosce in Doha un partner finanziario e politico affidabile.
C’è poi la Turchia, che l’anno scorso è riuscita ad ottenere l’affitto del porto di Suakin, un’isola nel Mar Rosso tra Sudan e Arabia Saudita. A novembre, Turchia e Sudan hanno firmato un accordo di cooperazione militare.
Anche la Turchia, come il Qatar, ha cospicui interessi in Somalia. Oltre ad aver aiutato il governo a modernizzare il porto di Mogadiscio e ad aver contribuito largamente allo sviluppo del paese con investimenti infrastrutturali, ha nella capitale somala la più grande base militare all’estero, attiva dal 2017. Nel Somaliland, fa concorrenza alla presenza emiratina.
Esistono altri attori mediorientali che hanno un ruolo non trascurabile nella ridefinizione dell’assetto geopolitico del Corno d’Africa. Tra questi vi è Israele, che ha accresciuto la sua influenza nella maggior parte dei paesi del Corno.
I sentimenti anti-israeliani sono ormai quasi ovunque un lontano ricordo, grazie al consolidamento degli storici legami con l’Etiopia e l’Eritrea, il ruolo sempre piu’ attivo in Sudan e sud Sudan, e relazioni sempre più aperte con gli Emirati, l’Arabia Saudita ed il Qatar.
Per l’Egitto, che pur mantiene il dossier energetico-securitario al primo posto nella sua agenda politica, la ricerca di influenza nella regione del Corno è giustificata principalmente da considerazioni di sicurezza commerciale. In quest’ottica va letto il partennariato strategico con il quale l’Egitto sta tentando di sedurre l’Eritrea, chiaramente in chiave anti turco-qatarina.
La componente militare è pur sempre presente: fonti non confermate a metà gennaio riportavano lo spiegamento di centinaia di truppe egiziane in Eritrea vicino al confine col Sudan, cosa che avrebbero allarmato Karthoum fino a far allertare le forze militari nell’area di Kassala al confine con l’Eritrea. Tentativi simili da parte del Cairo sono stati fatti anche con Gibuti in chiave di contrappeso all’asse rivale.
L’Iran, da parte sua, sta perdendo parte dell’influenza che aveva precedentemente guadagnato nel Corno e in particolare in Sudan ed Eritrea, i quali hanno preferito schierarsi a fianco del colosso saudita nell’offensiva contro gli insorgenti Houthi nel 2015 per poi entrare sotto l’ombrello protettivo di Riad. Se l’influenza iraniana rimane confinata alla parte yemenita del Mar Rosso, Teheran ha pur sempre un certo potere di veto sugli affari regionali, come dimostrano le minacce iraniane di chiusura degli stretti di Bab al-Mandeb tra Mar Rosso e Oceano Indiano e di Hormuz a seguito dell’imposizione da parte degli Stati Uniti di nuove sanzioni economiche lo scorso novembre.
Nonostante la pacificazione tra Addis Abeba ed Asmara, è più la competizione tra i paesi del Golfo che l’integrazione regionale a caratterizzare la geopolitica attuale nella regione del Corno d’Africa. Le rivalità intra arabe costringono i governi del Corno d’Africa a scegliere tra i due assi del Golfo rivali, aggiungendo un’ulteriore fonte di tensione regionale e intraislamica.
Foto: 2016 CNES/Astrium/GoogleEarth/IHS, Stratfor, Reuters, Anadolu, The Diplomat, Future Direction Int. e Southfront.org
Sigrid LipottVedi tutti gli articoli
Classe 1983, Master in Relazioni Internazionali e Dottorato di Ricerca in Transborder Policies IUIES, ha maturato una rilevante esperienza presso varie organizzazioni occupandosi di protezione internazionale delle minoranze, politica estera della UE e sicurezza internazionale. Assistente alla cattedra di Storia delle Relazioni Internazionali e Politica Internazionale presso l'Università di Trieste, ricercatrice post-dottorato presso il Centro di Studi Europei presso l'Università Svizzera di Friburgo, e junior member presso la Divisione Politica Europea di Vicinato al Servizio Europeo per l'Azione Esterna. Lavora attualmente presso Small Arms Survey a Ginevra come Ricercatrice Associata.