Chi ha accolto e chi ha fermato il 5G cinese di Huawei
Sono passati molti mesi ormai da quando il governo statunitense ha tenuto i primi colloqui con i rappresentanti dei Paesi alleati (in particolare Nato e Five Eyes e con una particolare attenzione nei riguardi delle nazioni che ospitano basi americane, come Italia, Giappone e Germania) chiedendo di escludere i colossi cinesi come Huawei e Zte – quest’ultima sotto il diretto controllo statale – dallo sviluppo delle proprie reti 5G.
Da allora le reazioni a questo dossier da parte delle nazioni vicine a Washington sono state diverse.
Paesi come Australia e Giappone hanno subito dato seguito all’allarme americano, escludendo il colosso di Shenzhen dalla partecipazione alla costruzione dell’infrastruttura a supporto della rete 5G.
Alcune nazioni stanno ancora cercando di elaborare il loro approccio nei confronti della telco, mentre altrettante – come Germania, Regno Unito e per certi versi l’Italia – nonostante la storica alleanza con Washington, hanno deciso (Londra ancora non ufficialmente, anche se qualche indiscrezione è trapelata) di non estromettere il colosso cinese ma di mettere in atto severi controlli.
Il tema è così sensibile, ha detto di recente il responsabile cyber del Dipartimento di Stato, Robert Strayer, non solo causa delle preoccupazioni che circondano l’influenza del governo di Pechino su Huawei (apparentemente supportate anche da report e indagini), ma anche perché la tecnologia 5G è sempre più vista come un’infrastruttura chiave, in grado di supportare la connettività di infrastrutture critiche come la rete idrica e elettrica, le comunicazioni e molti altri servizi del prossimo futuro legati all’Internet delle Cose.
Dopo anni di sospetti, gli Stati Uniti hanno iniziato ad intensificare le sue rimostranze nei confronti di Huawei nel 2012. In quell’anno, per la prima volta, la Commissione Intelligence della Camera pubblicò un rapporto in cui si affermava che le apparecchiature di Huawei e di Zte avrebbero potuto mettere a repentaglio “la sicurezza nazionale”.
Un anno fa, Washington – dopo aver accentuato le critiche e le azioni contro la compagnia – ha proibito l’acquisto di smartphone prodotti da aziende cinesi nelle basi militari e per tutto il personale, nonché la spesa di fonti federali per qualsiasi apparecchiatura prodotta dai colossi tecnologici della Repubblica Popolare.
Le risposte dei Paesi dell’Ue, come detto, sono state particolarmente diverse tra i singoli Stati membri, rendendo ardua la possibilità di elaborare una politica unificata. La Commissione europea ha pubblicato di recente delle raccomandazioni sulla sicurezza della rete 5G, tentando di mettere in atto un difficile approccio comune che implica una serie valutazioni circa il rischio informatico sulla rete nazionale, i cui risultati dovranno essere condivisi nel giro di un anno.
Sebbene non si tratti di indicazioni giuridicamente vincolanti, Bruxelles auspica che questa iniziativa porti a intraprendere un percorso condiviso. A livello interno, la Germania ha già deciso che non vieterà la partecipazione di Huawei, una scelta che dovrebbe essere mitigata da un accordo di “non-spionaggio” tra Angela Merkel e Xi Jinping, nonché da una serie di misure di controllo.
Neanche la Francia ha vietato a Huawei di vendere apparecchiature per la propria rete 5G. In questo caso, però, i parlamentari sono al lavoro per istituire alcuni test obbligatori per scoprire se le apparecchiature di rete di un venditore rappresentino o meno un rischio per la sicurezza. Mentre un disegno di legge presentato in Parlamento propone di conferire al primo ministro il potere di bloccare i produttori ritenuti soggetti a interferenze da parte di uno Stato che non sia membro dell’Ue.
Roma ha finora deciso di non escludere a priori le aziende della Repubblica popolare cinese (sospettate di potenziale spionaggio da parte di Washington, soprattutto a causa di un articolo della Legge nazionale sull’intelligence che le obbliga a collaborare con le autorità di Pechino).
Più di un mese fa, attraverso una nota del ministero dello Sviluppo economico, è stata smentita l’intenzione di precludere alle aziende cinesi lo sviluppo della nuova tecnologia in Italia.
Il governo ha proceduto nel frattempo all’istituzione di un nuovo Centro di valutazione e certificazione nazionale (Cvcn) presso l’Iscti del Mise, e all’estensione della Golden power – la normativa sulle prerogative ‘speciali’ che lo Stato può usare a difesa degli assetti societari nei settori della difesa e della sicurezza nazionale, nonché per le attività di rilevanza strategica in ambiti come l’energia, i trasporti e le comunicazioni – allargata alla stipula di contratti o accordi aventi ad oggetto l’acquisto di beni o servizi relativi alla progettazione, alla realizzazione, alla manutenzione e alla gestione delle reti inerenti i servizi” delle reti 5G, quando posti in essere con soggetti esterni all’Unione europea.
A Londra, il Consiglio di sicurezza nazionale presieduto dal premier britannico Theresa May avrebbe valutato pochi giorni fa, in una riunione riservata ma divenuta pubblica tra le polemiche, di consentire la partecipazione di Huawei al 5G nazionale (scelta comunque non ancora ufficiale). L’accesso di Huawei alla nuova rete ultraveloce sarebbe limitato ad elementi non core, ciononostante la decisione, di forte rilevanza simbolica ma anche di importanza tecnica, ha aperto un dibattito circa il futuro dell’alleanza di intelligence dei Five Eyes.
All’interno dello stesso gruppo, il Canada sembra non aver ancora preso una decisione definitiva sul 5G, ma ha certamente dato prova dell’unità di intenti che la accomuna a Washington nel momento in cui ha trattenuto Meng Wanzhou (la chief financial officer di Huawei accusata dagli Usa di aver avuto un ruolo nelle presunte violazioni delle sanzioni all’Iran da parte della compagnia).
L’Australia ha vietato alla telco di partecipare alle reti 5G del Paese. Una scelta, quella di Canberra, presa sotto il mandato dell’ex primo ministro Malcolm Turnbull. Mentre la Nuova Zelanda ha detto di prediligere una soluzione come quella britannica.
Per quanto riguarda gli alleati americani in Oriente, tra cui spiccano senza dubbio la Corea del Sud e il Giappone, la scelta è stata in entrambi i casi quella di sostenere Washington, anche se per ragioni diverse. Mentre la scelta di Seul deriva dal fatto che il Paese ha già lavorato al lancio di una rete 5G prima che emergessero tutti questi dettagli, la scelta del fornitore è stata lasciata ai singoli operatori. Kt e Sk Telecom, le due più importanti reti mobili della Corea del Sud, non utilizzano le apparecchiature Huawei per le loro reti 5G, mentre l’unica a farlo è la Lg Uplus. Il Giappone ha invece respinto la partecipazione della compagnia. Il governo di Tokyo, pur critico nei confronti dell’espansionismo di Pechino, non ha dato indicazioni ufficiali.
Ha lasciato la scelta ai singoli operatori di telefonia mobile (ovvero SoftBank Group, Ntt Docomo e Kddi), i quali hanno volontariamente scelto di non utilizzare apparecchiature cinesi per il 5G. Brasile e India, invece, nonostante gli avvertimenti americani non hanno ancora vietato né limitato la partecipazione di Huawei alla progettazione dell’infrastruttura di rete 5G, anche se entrambe sembra stiano cercando di giungere ad una soluzione che ne limiti la presenza senza isolarla del tutto.
Fonte: Cyber Affairs
Foto Ansa, AFP, La Stampa, Xinhua e Huawei
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