Da Roma ad Ankara a Berlino, quante liti intorno all’F-35

In Italia Marina e Aeronautica arrivano ai ferri corti per la distribuzione dei velivoli a decollo corto e atterraggio verticale della versione B, in Turchia il governo è infuriato con Washington per la decisione di sospendere le forniture (100 velivoli ordinati) come “rappresaglia” contro la decisione di Ankara di acquistare il sistema di difesa aerea a lungo raggio russo S-400.  Intanto tedeschi e statunitensi si confrontano aspramente sul tema delle spese militari.

 

Il “caso“ italiano

La lite scoppiata a Roma a inizio aprile è stata rivelata dall’agenzia Adnkronos il 5 aprile scorso. “Il casus belli l’assegnazione del secondo F-35B all’Aeronautica invece che alla Marina, che aveva già ricevuto il primo esemplare. Alla Difesa hanno cercato di smorzare i toni ma pare che il capo di Stato maggiore della Marina, ammiraglio Valter Girardelli abbia ottenuto che la decisione assunta dal capo di Stato maggiore della Difesa, il generale dell’Aeronautica Enzo Vecciarelli venisse ribaltata dal ministro della Difesa, Elisabetta Trenta.

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Della diatriba tra le due forze armate Analisi Difesa si è occupata in marzo con un ampio articolo di Silvio Lora Lamia ma è evidente che la lite, furibonda o educata che sia stata, è motivata dal timore che eventuali tagli alla commessa di F-35B (30 dei 90 F-35 che l’Italia dovrebbe acquistare appartengono a questa versione: 15 per la Marina e 15 per l’Aeronautica) finirebbero per penalizzare l’Aeronautica, già utilizzatore dei previsti 60 F-35A convenzionali.

La versione B è del resto sicuramente indispensabile per sostituire gli AV-8B Harrier della Marina a bordo della portaerei Cavour, il cui ponte non può accogliere aerei a decollo lungo, ma non lo è invece per l’Aeronautica che ufficialmente prevederebbe di schierarlo in aree poco asservite, in basi campali prive di piste lunghe con un’ipotesi d’impiego francamente improbabile, specie per uno Stato che ormai da anni impiega i suoi velivoli da combattimento disarmati.

I più malizisi ritengono invece che l’obiettivo reale dell’Aeronautica sia mettere i propri velivoli a decollo corto e atterraggio verticale a bordo del Cavour ma al di là delle valutazioni di parte è innegabile che in caso di tagli alla commessa italiana i B dell’Aeronautica sono i principali candidati alla decurtazione anche perché si otterrebbe un significativo risparmio di risorse riducendo la commessa degli F-35B da 30 a 15/20 assegnandoli tutti all’Aviazione di Marina.

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Più ragionevole sarebbe equipaggiare un reparto dell’Aeronautica con aerei leggeri da attacco, un sostituto dell’AMX certo più adatto di un F-35 o di un Typhoon, anche in base al rapporto costo-efficacia, a operare in contesti anti-insurrezionali dove il nemico non dispone né di forze aeree né di difese antiaeree sofisticate e non offre bersagli paganti che giustifichino l’impiego di velivoli stealth o ad altissime prestazioni.

Tra l’altro un velivolo del genere esiste già e lo produciamo pure tutto in Italia: si tratta dell’M-346FA, versione “combat” del noto addestratore avanzato T-346 già in dotazione alla nostra Aeronautica. Inoltre la sua adozione da parte delle nostre forze armate ne favorirebbe certo l’export.

La lite tra le forze armate italiane è resa infine ancor più paradossale dalla valutazione che con i fondi resi disponibili dagli attuali bilanci, soprattutto alla voce “Esercizio”, disporre di una linea di aerei da combattimento composta dai modelli più sofisticati e costosi, anche in termini di gestione, presenti su piazza (Typhoon ed F-35), significherà averne disponibili all’impiego un numero molto limitato.

 

Il caso turco

L’F-35 è al centro del dibattito anche nel contenzioso tra Stati Uniti e Turchia. Washington ha interrotto il trasferimento di attrezzature di supporto per gli F-35A che Ankara prevede di acquistare in 100 esemplari a causa della volontà turca di dotarsi del sistema di difesa aerea e antimissile russo S-400 le cui prime consegne sono previste in luglio.

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L’iniziativa di fermare la commessa turca, confermata dal Pentagono il 1° aprile scorso, è l’ultima di una serie di tentativi di Washington di dissuadere la Turchia dall’acquisire l’S-400, sistema non integrabile nella rete radar di difesa aerea NATO.

“In attesa di una decisione turca inequivocabile di rinuncia all’S-400, le consegne e le attività associate allo stand-up della capacità operativa F-35 della Turchia sono state sospese”, ha detto un portavoce del Pentagono.

Le forze aeree turche hanno ricevuto 2 F-35A, che rimangono nella Luke Air Force Base, negli Stati Uniti, come parte della flotta di addestramento internazionale ed è previsto il loro arrivo nella base operativa turca a Malatya-Erhac nel 2020.

La vicenda evidenzia molto bene come la scelta di adottare lì’F-35 consenta a Washington di condizionare ampiamente le scelte politiche, militari e strategiche dei paesi acquirenti mettendone in discussione la sovranità stessa.

 

Crisi di nervi in Germania

Berlino ha invece deciso di non acquisire gli F-35 per sostituire i suoi Tornado (non è un caso che “l’asse di ferro” della Difesa Ue riunisca oggi Germania e Francia, entrambi restii, per quanto possibile, ad acquisire prodotti militari statunitensi) e, almeno indirettamente, questa decisione potrebbe essere tra le cause del recente scontro tra il governo federale e l’ambasciatore statunitense a Berlino, il poco diplomatico ultra-trumpiano Richard Grenell.

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Il mese scorso l’ambasciatore ha accusato con toni pesanti la Germania di non rispettare l’impegno Nato ad aumentare le spese per la Difesa fino al 2% e ha minacciato lo stop alla collaborazione sul fronte dell’intelligence se Berlino decidesse di cooperare con la cinese Huawei nello sviluppo di reti 5G.

La critica di Grenell ha tratto spunto dal programma di bilancio presentato dal ministro delle Finanze, Olaf Scholz, che secondo l’ambasciatore allontana la Germania dall’obiettivo Nato del 2%del Pil da destinare alle spese per la difesa.

“I membri dell’Alleanza avevano concordato di avvicinarsi al 2% entro il 2024 e non di allontanarsene”, ha detto Grenell (nella foto sotto). “Che il governo federale pensi invece di ridurre il suo contributo, già di per se’ inaccettabile, all’efficienza operativa militare è un segnale preoccupante”. Nel budget previsto da Scholz, la quota di Pil destinata alla difesa cresce all’1,37% per poi tornare a contrarsi al1,25% entro il 2023.

Il vicepresidente del Bundestag, il liberale Wolfgang Kubicki, è arrivato a chiedere di far dichiarare il diplomatico americano “persona non grata” nel Paese, chiedendo al ministro degli Esteri Heiko Maas  di non permettere più “l’intromissione negli affari interni” della Germania.

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Scegliendo termini di straordinaria durezza, Kubicki ha detto che “chi, da diplomatico americano, si comporta come commissario di una potenza occupante deve sapere che la nostra tolleranza conosce anche dei limiti. Noi siamo un Paese sovrano e non dobbiamo dare l’impressione che gli ambasciatori di altri Paesi possano determinare la nostra politica interna”.

Anche la cancelliera Angela Merkel ha usato toni duri. “Il governo tedesco, pur non essendo ingenuo di fronte alla Cina, dove valgano tutt’altre norme rispetto all’Europa, ha deciso di porre in maniera molto chiara dei paletti in merito alla sicurezza”.

Circa le spese militari Merkel ha precisato che “la fetta di Pil destinata alla difesa negli ultimi 10 anni è sempre cresciuta e continuerà a crescere anche l’anno prossimo, all’1,37%. Ma la pianificazione finanziaria a medio termine non può essere presa come parametro. Decisiva è invece la spesa di anno in anno, e questa viene corretta ogni volta verso l’alto”.

Sia in termini assoluti che di percentuale sul PIL ci sono molti membri della NATO che spendono per la Difesa molto meno della Germania (l’Italia è uno di questi) eppure nessuno ha mai usato nei loro confronti toni simili a quelli di Grenell (nella foto so9tto con Angela Merkel).

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Probabile quindi che un così rude approccio sia motivato anche dall’aspro confronto che fin dai tempi di Obama vede Usa e Germania confrontarsi sui grandi temi economici e finanziari.

Nel settore della Difesa invece, l’impressione è che le dure critiche Usa dipendano non tanto da quanto spende Berlino ma dal fatto che non spenda per comprare prodotti “made in USA”.

Donald Trump non ha mai nascosto di considerare l’export militare (di cui l’F-35 è il campione più rappresentativo e costoso) strumento prioritario per riequilibrare la bilancia commerciale con molti Stati alleati degli Usa.

Nonostante in favore dell’aereo di Lockheed Martin si fosse espresso il capo di stato maggiore della Luftwaffe, Berlino ha deciso di rimpiazzare i Tornado con una nuova versione dell’Eurofighter Typhoon, prodotto europeo.

Non occorre molta malizia per scommettere che se la Germania avesse scelto l’F-35 il suo non formidabile incremento delle spese militari non avrebbe sollevato così aspre censure da parte dell’ambasciatore Grenell.

Foto: Difesa.it, Lockheed Martin, AP, IHS Markit  e Getty Images

 

Gianandrea GaianiVedi tutti gli articoli

Giornalista bolognese, laureato in Storia Contemporanea, dal 1988 si occupa di analisi storico-strategiche, studio dei conflitti e reportage dai teatri di guerra. Dal 1991 al 2014 ha seguito sul campo i conflitti nei Balcani, Somalia, Iraq, Afghanistan, Sahara Occidentale, Mozambico e Sahel. Dal febbraio 2000 dirige Analisi Difesa. Ha collaborato o collabora con quotidiani e settimanali, università e istituti di formazione militari ed è opinionista per reti TV e radiofoniche. Ha scritto diversi libri tra cui "Iraq Afghanistan, guerre di pace italiane", “Immigrazione, la grande farsa umanitaria” e "L'ultima guerra contro l’Europa". Presso il Ministero dell’Interno ha ricoperto dal 2018 l’incarico di Consigliere per le politiche di sicurezza di due ministri e un sottosegretario.

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