La crisi ucraina e il confronto Nato-Russia agitano le acque del Mar Nero

Il Mar Nero, bacino marittimo semichiuso e poco profondo, sul piano geo-strategico è stato per molto tempo assente dalla lista delle aree calde del pianeta. Eppure, nella visione strategica della NATO, rappresenta da sempre una regione di grande rilevanza polituca e militare.

Basti pensare che le coste e i porti bulgari e rumeni che si affacciano sulle sue acque, un tempo parte del Patto di Varsavia, costituiscono oggi il fianco sud-orientale dell’Alleanza.

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O che il Mar Nero separa direttamente l’Europa dall’Asia ed è teatro della sovrapposizione di interessi diversi e in contrasto con quelli euro-atlantici: in primis gli interessi della Russia per la quale il Mar Nero costituisce l’unica via di collegamento al Mar Mediterraneo.

Questa regione ha assunto per la NATO una rinnovata importanza a partire dal 2014 quando, dopo il rovesciamento del governo di Kiev, la Russia ha annesso la Crimea – riappropriandosi di quel territorio che Nikita Khrushov aveva regalato all’Ucraina nel 1954 – e quando il Donbass è diventato teatro di un conflitto tuttora irrisolto, dove le istanze separatiste in Ucraina Orientale hanno incontrato il sostegno politico-militare della Russia.

Una fase cui ha fatto seguito un relativo incremento della concentrazione militare russa in Crimea, dove attualmente è stanziata una forza di oltre 28.000 uomini con armamenti sofisticati e mezzi militari quali fregate e i sottomarini della Flotta russa del Mar Nero armati di missili da crociera “Kalibr”.

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Il clima di crescente instabilità provocato dalla crisi in Ucraina ha quindi spinto l’Alleanza a rivedere la sua strategia per il Mar Nero e nel 2016, durante il Summit di Varsavia, gli alleati si impegnarono a incrementare la loro presenza nella regione (TFP – Tailored Forward Presence) istituendo una componente militare aerea e una terrestre entrambe basate in Romania, rispettivamente 4 Typhoon britannici presso la base Mihail Kogalniceanu e una forza multinazionale su base brigata di stanza a Craiova.

La componente marittima consta invece di visite periodiche di navi alleate ai porti dei Paesi rivieraschi (principalmente Bulgaria e Romania), esercitazioni congiunte di unità navali di Paesi NATO per migliorarne l’interoperabilità, e un incremento degli addestramenti, senza prevedere alcuna configurazione navale permanente.

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Un ulteriore passo avanti è stato raggiunto l’anno successivo con la decisione di integrare nelle manovre militari nel Mar Nero i gruppi navali multinazionali permanenti della NATO, e in particolare il Secondo Gruppo Navale Permanente della Nato (SNMG2) e il Secondo Gruppo NATO di Contromisure Mine (SNMCMG2). Impiegati principalmente nel Mediterraneo, questi gruppi appartengono alla forza marittima di reazione rapida della NATO e hanno garantito una maggiore presenza e più frequenti pattugliamenti del Mar Nero.

Nel 2018 i gruppi navali hanno effettuato visite alla Romania e partecipato, tra le altre, ad esercitazioni Passex con unità navali della Marina romena e di quella ucraina, funzionali al miglioramento dell’interoperabilità e all’addestramento nella difesa aerea, nelle comunicazioni, nella neutralizzazione delle mine, attività che è stata oggetto anche della più recente esercitazione Poseidon nel Mar Nero.

War ships of the NATO Standing Maritime Group-2 take part in a military drill on the Black Sea, 60km from Constanta city March 16, 2015. NATO Standing Maritime Group-2 (SNMG-2) is one of four groups multinational naval NATO forces and is headed by US Admiral Brad Williamson. The group consists of four frigates from Canada, Turkey, Italy and Romania, a cruiser (US ship commander) and an auxiliary vessel from Germany. AFP PHOTO DANIEL MIHAILESCU (Photo by DANIEL MIHAILESCU / AFP)

Le evidenti difficoltà degli Alleati a rispondere in tempi brevi alla reazione di Mosca alala crisi ucraina e di esprimere pertanto una posizione comune e credibile per una regione strategica come quella del Mar Nero, può essere spiegata alla luce di una regione disomogenea dove gli orientamenti politici dei Paesi rivieraschi differiscono sostanzialmente. Mentre i Paesi Baltici, per esempio, sostengono in blocco la necessità di una maggiore presenza militare della NATO per tutelare eventuali minacce alla loro integrità territoriale, i Paesi del Mar Nero, ad eccezione della Romania, hanno promosso un’impronta più blanda dell’Alleanza nell’area.

Ancor prima dell’annessione della Crimea, Bucarest ha più volte ammonito gli alleati di non lasciare che Mosca trasformi il Mar Nero nel proprio “lago domestico”. Inoltre, benché fautrice della necessità di un dialogo con la Russia, la Romania ha promosso l’incremento delle forze NATO e statunitensi nella regione.

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In proposito, è utile ricordare che dal 2016 Bucarest ospita presso Deveselu il sistema di difesa contro missili balistici Aegis Ashore fornito dagli Stati Uniti, e che da allora costituisce un obiettivo sensibile per Mosca, nonostante la NATO abbia negato che la sua installazione abbia funzioni ostili nei confronti della Russia.

Al contrario, la Bulgaria che è ricordata come una delle più fedeli alleate dell’Unione sovietica, mantiene ancora oggi rimarchevoli legami culturali ed economici con la Russia, senza dimenticare che gran parte degli armamenti e dei mezzi militari ancora in dotazione alle Forze armate bulgare sono di stampo sovietico.

I militari russi conoscono bene, per esempio, i suoi vecchi sistemi di difesa aerea e con essi anche i loro problemi, vera spina nel fianco per la NATO.

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Per queste ragioni, non stupisce che la proposta rumena di creare una forza navale permanente della NATO nel Mar Nero (prevedendo un comando a rotazione tra i Paesi rivieraschi) sia stata respinta dalla Bulgaria con la giustificazione del premier Boyko Borisov di non voler “sentire tintinnare le armi nel Mar Nero, ma (…) vedere solo yacht, crociere e turisti. Siamo un mare di pace e non cerchiamo la guerra.”

Il fianco sud-orientale della NATO, a lungo trascurato, rappresenta pertanto il punto debole dell’Alleanza e questo assunto diventa ancor più evidente se si guarda alla Turchia. Da tempo infatti, Ankara lamenta che la scarsa affidabilità dell’Occidente, convinzione che trova conferma nelle riserve espresse dal Presidente statunitense Donald Trump che non solo ha posto fine alle agevolazioni commerciali concesse alla Turchia ma ha anche minacciato di distruggerne l’economia laddove Ankara avesse attaccato i curdi in Siria.

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Del resto anche la Turchia sembra aver realizzato che riguardo all’economia e alla politica della sicurezza il suo orizzonte futuro sia ad Est, con il progetto Turkish Stream e i l’acquisto dei sistemi di difesa aerea missilistica S-400. L

a scelta turca di dotarsi di un sistema d’arma russo ha provocato un’ulteriore grave rottura con gli Stati Uniti che non solo hanno bloccato la consegna dei cacciabombardieri F 35 ordinati da Ankara, ma hanno anche contribuito ad etichettare come poco fedele il secondo alleato (in termini di numero di militari in servizio) dell’Alleanza atlantica.

La Turchia e la Russia non appaiono certo oggi come potenziali avversari ma piuttosto come partner in determinati settori. Per questo la ulteriore militarizzazione della Crimea non sembra preoccupare Ankara che può ugualmente contare nel Mar Nero, seppure in funzione difensiva, su una flotta poderosa soprattutto in termini di unità sottomarine.

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In questo contesto dunque più che i Paesi rivieraschi della NATO a finire nel mirino russo è l’Ucraina. L’incidente avvenuto nello stretto di Kerch che nel novembre del 2018 ha provocato la cattura da parte russa di tre unità navali ucraine e del loro personale di bordo (ancora in stato di arresto) ha dato nuovo impulso al definitivo rafforzamento della presenza militare nel Mar Nero.

Il 3 e il 4 aprile scorsi nel corso di un vertice a latere delle celebrazioni per il settantesimo anniversario del Patto Atlantico a Washington, i ministri degli esteri dei 29 Paesi membri hanno incentrato le discussioni proprio sulle nuove sfide che la Russia pone alla sicurezza e alla stabilità di questa regione. E per sopire i timori di Kiev di finire in una morsa letale con il blocco del porto di Mariupol, nel Mare d’Azov, gli alleati hanno approvato una serie di misure per contrastare l’iniziativa russa.

Il “Black Sea Package” prevede un rafforzamento della ricognizione aerea per monitorare le attività russe, esercitazioni congiunte con un maggior coinvolgimento di Ucraina e Georgia, visite di navi militari nei porti dei due Paesi partner e scambio di informazioni strategiche.

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Nessun ulteriore dispiegamento di forze quindi ma una conferma degli impegni già assunti dalla NATO nel 2016 con una maggiore cooperazione con i partner più vulnerabili, come confermato dal ministro degli Esteri bulgaro Ekaterina Zaharieva.

Certo, un incremento della presenza militare della NATO è stato registrato tra il 2017 e il 2018 quando le unità navali dei Paesi alleati sono rimaste rispettivamente 80 e 120 giorni nelle acque del Mar Nero. Tuttavia, guardando i numeri delle risorse umane coinvolte e le dimensioni delle forze si giunge a un rafforzamento limitato che rischia di configurarlo come una semplice dichiarazione di intenti.

In questo senso, appare utile confrontare la più grande esercitazione militare della NATO nel Mar Nero che si sta svolgendo in questi giorni (5-13 aprile) con le sue edizioni precedenti. “Sea Shield 2019” a guida rumena impiega circa 2.200 uomini e 20 navi da guerra, di cui 14 navi rumene, 3 di Bulgaria, Grecia, Turchia, e altrettante di Spagna, Canada e Paesi Passi che insieme ad alcune navi della guardia costiera ucraina e georgiana si addestrano in missioni di combattimento congiunto.

Il 29 marzo l’ammiraglia olandese Evertsen e le fregate Toronto e Santa Maria, rispettivamente candese e spagnola, appartenenti al SNMG2 sono entrate nel Mar Nero per condurre operazioni di pattugliamento prima delle manovre congiunte “Sea Shield 2019”.

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Ad un primo confronto, si evidenzia infatti una riduzione seppur lieve nel dispiegamento di uomini (2.200 contro i 2300 del 2018 e addirittura 2.800 nel 2017) e mezzi, poiché nel 2018 vi parteciparono 21 navi contro le 20 di quest’anno.

Ma a colpire maggiormente è l’assenza degli Stati Uniti tra i partecipanti dell’esercitazione che sembra indicare la volontà di Washington di trasferire la responsabilità del supporto politico-militare alla nuova leadership di Kiev agli alleati minori in concomitanza con le elezioni in Ucraina.

Il cacciatorpediniere statunitense USS Donald Cook ha infatti partecipato ad esercitazioni con la guardia costiera georgiana a gennaio mentre a febbraio – prima di uscire dal Mar Nero – ha visitato il porto ucraino di Odessa dove il presidente uscente Petro Poroshenko è salito a bordo della nave in un incontro che ha definito simbolico perché manda “un forte segnale per la Russia che la Crimea è ucraina e che è garantita la libertà di navigazione nella regione”.

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La NATO sembra in definitiva evidenziare le sue contraddizioni interne circa la strategia da adottare nel Mar Nero con gli Stati Uniti che abbandonano la causa comune attraverso un progressivo disimpegno nelle manovre collettive a favore di iniziative bilaterali.

Ma le mere dichiarazioni di rivitalizzare la presenza militare della NATO nel Mar Nero se non accompagnate da un effettivo incremento della forza servono solo a rassicurare temporaneamente il governo di Kiev. Il fianco sud-orientale dell’Alleanza bagnato dal Mar Nero resta tuttora il tallone d’Achille della NATO e in mancanza di una maggiore coesione tra gli alleati, ciascun Paese rivierasco cerca di tutelare i propri interessi nazionali.

In prospettiva, bisogna anche sottolineare che qualunque ulteriore passo gli Alleati vogliano intraprendere per incrementare la forza NATO nel Mar Nero, questo dovrà sempre scontrarsi con i limiti imposti dalla Convenzione di Montreux del 1936. In tempo di pace infatti le navi militari dei Paesi non rivieraschi possono permanere nel bacino per un periodo non superiore ai 21 giorni e con una flotta che non superi le 40.000 tonnellate di dislocamento.

Foto: Sputnik, TASS. Mediafax, US Navy, AFP, Novosti e NATO

 

Nata a Kazanlak (Bulgaria), si è laureata con lode in Scienze Internazionali e Diplomatiche a Gorizia. Ha frequentato il Master in Peacekeeping and Security Studies a Roma Tre e ha conseguito il titolo di Consigliere qualificato per il diritto internazionale umanitario. Ha fatto parte del direttivo del Club Atlantico Giovanile del Friuli VG e nel 2013 è stata in Libano come giornalista embedded. Si occupa di analisi geopolitica e strategica dei Paesi della regione del "Grande Mar Nero" e dell'Europa Orientale e ha trattato gli aspetti politico-giuridici delle minoranze etniche e dei partiti etnici.

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