Libia e dintorni: quale politica per l’Italia?
Le satrapie ed i gruppi di potere arabi non vedono l’ora di bastonarsi fra loro. Si tratta di un dato ricorrente nella storia del Medio Oriente e del Mediterraneo. Unico punto d’intesa che mette costoro d’accordo è l’avversione, esplicita o dissimulata, agli Stati Uniti ed alle nazioni europee. Tutto lascia presagire che la crisi libica corrisponda al modello consueto, con l’altissimo e gravissimo rischio che i professionisti del conflitto permanente possano replicare in Tripolitania il recente scenario siriano e prim’ancora iracheno, già palestre ideali per mandrie composte da numerosi tra i peggiori e più efferati terroristi.
Fedeli al canovaccio le cancellerie si barcamenano, quando non trescano, nell’area, alla ricerca di vantaggi esclusivi, effimeri perché quasi sempre instabili e momentanei, anche a danno di paesi pomposamente definiti alleati. In sostanza le politiche occidentali, a corto di orizzonti, finiscono per essere simmetriche alle divisioni nel campo arabo ed islamico ed alimentano incertezza e confusione, ovvero le condizioni più favorevoli per qualsiasi avventura.
Il rischio di una crisi a poca distanza dalle nostre coste diventa così plausibile e richiederebbe innanzi tutto la capacità di esprimere almeno una posizione univocamente riferibile all’Italia. Si agisce invece in ordine sparso.
Il premier Conte sostanzialmente continua ad appoggiare l’attuale governo di Tripoli a guida Al-Serraj sostenuto, oltre che da Ankara, anche dal Qatar, di cui il nostro primo ministro ha in questi giorno ricevuto un alto rappresentante. Qualcuno gli sussurri che l’infatuazione di un certo mondo imprenditoriale nostrano per il ricchissimo ma isolato Qatar, che trovò in Renzi un attento ascoltatore, deve essere comunque considerata anche alla luce dei rapporti di quell’emirato con la fratellanza musulmana. Dalla Farnesina nessuna notizia: se qualcuno parla, difetta di microfono.
Alla Difesa si appare invece più impegnati ad arginare le addotte ingerenze del Ministro dell’interno in tema di sicurezza nazionale, come se questi, in un tempo in cui i confini fisici sono in liquidazione e terroristi e criminali si muovono in una dimensione chiaramente transnazionale, dovesse occuparsi solo del pur grave fenomeno dei reati predatori.
In realtà gli unici risultati tangibili in materia di tutela del paese sono conseguenti ad un qualche rigore imposto da Salvini in tema di sbarchi, tanto che, a fronte di un’evoluzione che sulla sponda libica dovesse assumere tratti drammatici, potrebbe essere ora meglio indirizzata e gestita anche ogni operazione, sia di tipo umanitario sia di antiterrorismo, che si dovesse rendere necessaria.
In sostanza il presupposto essenziale perché si possa esprimere una politica univoca sarebbe la cancellazione dell’interesse nazionale dall’agenda elettorale, purtroppo ormai permanente. Non si può definire una linea ed assumere decisioni su argomenti epocali con i sondaggi in tasca.
In materia di immigrazione Minniti affrontò il problema in termini non troppo diversi dal suo successore al Viminale, magari con la pur non marginale differenza che Salvini è riuscito a rendere effettive le misure di contenimento. Ma il copione prevede che i due campi di riferimento continuino nel tentativo, possibilmente esiziale per la nostra democrazia, di screditarsi l’un l’altro.
È troppo pretendere che su problemi di tale portata il quadro politico sia meno belligerante e più aderente al sentimento della gran parte degli Italiani? Sarebbe l’ora che, non la critica costruttiva, ma le contestazioni pregiudiziali ed estreme fossero lasciate appannaggio dei centri sociali e del sempre più evanescente irenismo di taluni sagrestani.
Ma poi quali dovrebbero essere i tratti di una politica italiana che nell’area ed ovunque possa essere avvertita ed efficace? Non scandalizziamoci troppo: l’Italia non può litigare. Non tanto perché debole militarmente. Quanto per le caratteristiche del proprio sistema economico, in debito di risorse materiali pregiate e fondato su una capacità produttiva che sa esprimersi ad alto livello.
L’economia di trasformazione presuppone fornitori e clienti, mentre condizioni di pacifica o non conflittuale convivenza sono essenziali per la prosperità nazionale. Ogni possibile mestatore, anche interno, dovrebbe essere abilmente neutralizzato. Pur nella necessaria fermezza, alzare il livello dello scontro giova sicuramente a chi lo persegue, specie se chi vuole mostrare i muscoli non ne dispone.
Una volta stabilito che gli interessi nazionali principali sono l’approvvigionamento, in particolare energetico, e la possibilità di commercializzare al meglio la produzione, appare evidente che l’Italia ha necessità di alleati: non ha il fiato per reggere da sola sfide troppo rilevanti. La crescita del paese è stata difatti massima in momenti di coesione sovranazionale, ricordando NATO ed Europa unita in primis.
Tuttavia, con tutto il rispetto dell’Ungheria e della Finlandia, gli interlocutori di peso con cui intendersi sono altri. È vero che non si comprende come si possano stringere accordi strategici su Fincantieri e poi perseguire linee politiche opposte sugli scacchieri di comune interesse; oppure recedere unilateralmente da opere già concordate come la TAV. Ma la nuova classe politica, che ormai in Italia si avvia a cancellare i residui dell’agglomerato intellettuale/affaristico in cattedra nella seconda repubblica, ha un’occasione irripetibile: potrà elevarsi dai limiti, ora inevitabili, che la connotano anche affermando stabili linee di azione condivise con gli interlocutori europei più forti. In altri tempi De Gasperi ne fu capace e, tutto sommato, anche il Duce a Monaco fece la sua figura.
Di una nuova autorevolezza dell’Italia con ogni probabilità se ne gioverebbero anche Macron, se riesce a durare, ed i successori della Merkel. Ma soprattutto ne trarrebbero beneficio i cittadini europei, assai più vicini tra loro di quanto non lo siano coloro che li rappresentano.
Alle alleanze si è poi fedeli: quasi 70 anni di permanenza nella NATO, l’appartenenza al novero dei fondatori dell’Europa libera quando l’altra metà era sotto il comunismo, il costante contributo recato alla stabilizzazione internazionale dovrebbero essere elementi di distinzione da far pesare in ogni foro e circostanza, senza sindromi di sudditanza o da vittorie mutilate.
L’Italia repubblicana e democratica, anche quando i governi hanno cambiato radicalmente indirizzo, non ha mai posto in dubbio gli impegni assunti su scala internazionale. Fu addirittura con il governo D’Alema, avversario quando gli era dialetticamente possibile dell’alleanza atlantica, che partecipammo alle operazioni NATO nei Balcani con i bombardamenti sulla Serbia.
Allora parliamo con chiarezza! Trump è un presidente sui generis, ma guida ora un grande paese che l’ha voluto anche per accantonare la politica dei professoroni universitari e dei possidenti del pensiero, che lucrano su coloro che ogni giorno lavorano per produrre. Non piace ai palati fini del “New York Times” e de “la Repubblica”.
Ma interpreta un’America vera e, soprattutto la rappresenta tutta, come è lì consuetudine radicata. Qualcuno pensa, magari per fare passerella, di incamminarsi su strade diverse da quelle degli Stati Uniti, giustificando Maduro o, peggio, accarezzando una Cina spregiudicata, fortemente intrusiva e già nuova padrona dell’Africa? Coloro che hanno tali velleità si moderino: non sarebbero queste le vie per una nuova Vittorio Veneto o per un nuovo 25 aprile.
Foto: AFP , Reuters e AP
Carlo CorbinelliVedi tutti gli articoli
Nato a Tavarnelle Val di Pesa (FI) nel 1955, è laureato in Scienze Politiche presso la Facoltà "Cesare Alfieri" dell'Università di Firenze ed in Scienze della Sicurezza presso l'Ateneo di Tor Vergata. Ha conseguito vari diplomi post-universitari nel campo delle relazioni internazionali e della tecnica legislativa. Ha prestato per 36 anni servizio quale ufficiale dei Carabinieri, con incarichi in Italia e all'estero in tutti i settori di competenza dell'Arma. Da Colonnello ha retto la Segreteria del Sottosegretario alla Difesa, Il Comando Provinciale di Perugia ed il 2° Reggimento Allievi Marescialli di Firenze. Nella riserva dal marzo 2015, svolge attività di consulente in qualità di esperto di "Security". Collabora con il Centro di Studi Strategici Internazionali ed Imprenditoriali dell'Università di Firenze.