Spese per la difesa: in Italia il gioco degli specchi

 

di Michele Nones (Istituto Affari Internazionali)

Finalmente il DPP – Documento Programmatico Pluriennale 2019-2021 è stato presentato dal ministro della Difesa Elisabetta Ttrenta (con soli due mesi di ritardo rispetto ai termini di legge).

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Molti lo aspettavano sperando così di uscire dalla nebbia che da sempre avvolge le spese italiane per la difesa e che nell’ultimo anno è diventata ancora più fitta.

In realtà è stata un’altra amara sorpresa: il ‘Governo del cambiamento’ non è riuscito ad assicurare un po’ di chiarezza, ma solo una maggiore quantità di numeri.

Il documento è graficamente più accattivante e corposo (siamo passati dalle 191 pagine del 2013 alle 266 del 2019), ma è come una foresta, più è grande e fitta e più è difficile orientarsi.

 

Il miraggio del 2%
Basti vedere uno dei dati di base a cui si fa riferimento per valutare l’impegno di un Paese nel campo della difesa: la percentuale del Pil.

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Ovviamente non è l’unico parametro, ma sicuramente è importante ed è attualmente quello disponibile. Nel 2019 (dati di febbraio) si resta fermi all’1,15% e si prevede di salire all’1,17% nel 2020, forse dando per scontato che se il Pil non cresce, mentre cresce automaticamente la spesa del personale, la percentuale aumenta.

Ma, subito dopo, si precisa che a maggio “Il Defence Planning Capability Survey è stato aggiornato impiegando, con decorrenza 2018, il deflatore riferito al Pil (il valore utilizzato per depurare il dato dall’inflazione, ndr), a similitudine degli altri Paesi della Nato. Il rapporto spese Difesa/Pil previsionale, in termini percentuali, si attesterebbe all’1,17% per il 2019 e all’1,20 per il 2020”.

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A prescindere dal fatto che non si capisce perché in passato ci saremmo riferiti a un deflatore diverso dagli altri, la precisazione rischia di essere surreale visto che si riferisce all’obiettivo del 2% concordato nel Vertice Nato del 2014.

Anche ipotizzando un incremento dello 0,03% all’anno, partendo dallo 0,17% di quest’anno vi arriveremmo dopo il 2045, con venti anni di ritardo rispetto all’obiettivo del 2024 concordato con gli alleati!

Anche per questo l’Italia insiste da tempo per valutare lo sforzo a favore della difesa e sicurezza comune con i Paesi amici ed alleati, considerando anche la terza delle ‘tre C’ adottate come parametri in ambito Nato: Contributions, oltre che Capabilities e Cash.

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Nel 2019 le nostre Forze Armate partecipano a nove missioni Nato con quasi 2.100 uomini e alcune responsabilità di comando. Non è semplice ‘quantificare’ questo sforzo, ma è un aspetto che deve essere considerato.

Più semplice è, invece, il riferimento quantitativo alla seconda C (Capabilities), con il 20% della spesa complessiva per la difesa dedicata ad investimenti in equipaggiamenti e ricerca tecnologica, grazie soprattutto al contributo del ministero dello Sviluppo economico: anche qui, però, vi è poco ‘cambiamento’ e molti equipaggiamenti vengono acquistati su quel bilancio, aumentando la mancanza di trasparenza e allungando i tempi decisionali, oltre che riducendo l’autonomia delle Forze Armate.

 

La separazione fra difesa e sicurezza
Quanto alla prima C (Cash), cercare di arrampicarsi sugli specchi è un esercizio inutile e pericoloso perché rischia di minare la nostra credibilità nel sostenere il peso delle Contributions.

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Innanzi tutto, inserire nel calcolo delle spese militari altre voci non sposta il problema: a quel punto di dovrebbe alzare l’asticella per tutti i membri Nato e non cambierebbe nemmeno il nostro posizionamento rispetto agli altri Paesi.

In secondo luogo le proposte sono a dir poco fantasiose: “anche le risorse impiegate per il potenziamento della resilienza nazionale, con particolare riferimento al comparto cyber, alla energy security, alla sicurezza delle infrastrutture critiche …”. Si tratta di spese inerenti la ‘sicurezza’ a carico di altre Amministrazioni e/o di privati che, al di là della loro importanza, non rientrano nei criteri internazionali di individuazione delle spese militari, esattamente come quelle per i Carabinieri (se non limitatamente al loro uso nelle missioni all’estero).

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Difesa e sicurezza sono strettamente collegate, ma non possono essere confuse sul piano finanziario, altrimenti, spingendo il ragionamento all’estremo paradosso, tanto varrebbe fondere il Ministero della Difesa con quello dell’Interno (e magari a qualcuno potrebbe anche fare piacere).

In compenso ci siamo dimenticati le spese per la Military Mobility, ovvero l’iniziativa dell’Unione europea per adeguare le opere infrastrutturali in modo da favorire un più rapido spostamento delle Forze Armate nel territorio europeo, che, invece, dovrebbero essere incluse nel computo se il loro finanziamento fosse aggiuntivo rispetto ai bilanci ordinari dei Ministeri della Difesa.

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Formalmente corretta, ma irrilevante a livello nazionale è, invece, la proposta di considerare anche la quota parte delle spese sostenute dall’Unione europea per i programmi di ricerca e sviluppo militare: pesando il contributo italiano circa il 9% sulle entrate dell’Ue, nel 2019 la quota di competenza italiana dei nuovi investimenti comunitari nella difesa è di circa 25 milioni.

Quando, come si auspica, a partire dal 2021 il Fondo Europeo della Difesa avrà una dotazione di circa 1,8 miliardi l’anno, la quota attribuibile all’Italia sarebbe di circa 170 milioni l’anno, che contribuirebbe a far crescere il rapporto delle nostre spese sul Pil solo dello 0,01%. In questo caso all’obiettivo del 2% arriveremo verso il 2040 con soli quindici anni di ritardo!

 

Il rispetto degli impegni e la tutela della nostra sicurezza
Il calcolo delle spese italiane nella difesa resta certo un esercizio complesso e i risultati possono essere decisamente diversi, in quanto fra gli esperti si discute su quali voci debbano essere considerate e in che misura.

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Ma anche utilizzando la più favorevole metodologia (ed è obiettivamente quella del Ministero), si resta comunque molto lontani dal rispetto dell’impegno assunto dal nostro Paese cinque anni fa in ambito Nato e poi ripetutamente confermato.

Quel che è peggio è che non vi è alcun serio segnale che comunque stiamo lavorando in quella direzione. Una soluzione potrebbe essere quella di prevedere un extra-finanziamento italiano di programmi comuni europei che potrebbero far crescere la spesa militare favorendo il rafforzamento delle nostre capacità di difesa e, insieme, le capacità tecnologiche e industriali, migliorando al tempo stesso la performance italiana nel campo delle Capabilities.

Sarebbe anche un piccolo ma significativo contributo al rilancio della crescita economica del nostro Paese. E, non ultimo, sarebbe più facilmente difendibile sul piano del disavanzo pubblico nei confronti dell’Ue.

Foto Difesa.it

 

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