Brevi riflessioni sullo stato di salute della Difesa italiana
Il 4 settembre è stata resa nota la composizione della nuova compagine governativa e, in tale contesto, l’arrivo del nuovo Ministro della Difesa. Lorenzo Guerini (nella foto sotto), costituisce l’occasione più opportuna anche per fare qualche rapida riflessione sullo stato di salute della Difesa Italiana.
Sono conscio che la Difesa non rappresenti la massima priorità della Nazione, specie in questo momento un po’ caotico, e che il “nuovo” Presidente del Consiglio abbia già dimostrato quanto poco la tenga in considerazione.
Del resto non si può certo dire che lo stato di salute attuale della nostra Difesa sia dei migliori. In effetti, non lo è mai stato dopo la caduta dell’impero romano, come scriveva anche Cesare Balbo ancora alla vigilia delle guerre d’indipendenza (“Una storia della milizia italiana nell’età moderna? Infelicissimo assunto! Dov’è forza andar razzolando qua e là ed esagerando sempre per far fare sulla carta una figura alla Patria nostra ch’ella non ha fatta mai in realtà”).
Peraltro, la gestione della ministra Elisabetta Trenta è forse riuscita persino a peggiorare le cose ed è positivo che il nuovo titolare del dicastero sia un politico di lungo corso, anziché qualcuno che si ritiene “esperto” in materia senza però esserlo.
È chiaro che non si può affrontare il discorso sulla Difesa senza affrontare il problema del contesto geo-politico in cui le F.A. dovrebbero operare, della nostra collocazione nell’ambito dei sistemi di alleanze di cui facciamo parte e delle organizzazioni sovranazionali nel cui ambito i nostri soldati sono chiamati a operare (nell’ “era Trump” potrebbe non essere possibile essere veramente sia europeisti che atlantisti), e molto altro ancora.
Si tratta, però, di aspetti che coinvolgono le competenze dell’intero governo e non solo dell’inquilino di Palazzo Baracchini.
Limitandoci a considerazioni generiche su due argomenti elementari, la cui competenza ricade prioritariamente sul solo dicastero della Difesa, cioè il personale e l’armamento (inteso in senso lato), occorre riconoscere che il dibattito sulle F.A. in Italia è sempre stato superficiale.
Più che curarsi delle loro reali capacità d’intervento militare in un eventuale conflitto (o della loro reale potenzialità deterrente per scongiurare tale conflitto) ci si è da decenni dilungati a vantarne i potenziali meriti nei campi “non bellici “più disparati.
Abbiamo impiegato per oltre un quarto di secolo soldati a fare da “spaventapasseri” (armati fino ai denti ma non autorizzati a usare tali armi) in supporto forze dell’ordine (che forse in questo quarto di secolo si sarebbero potute adeguatamente rinforzare)!
Ne abbiamo lodato fin troppe volte la generosità nell’intervenire per pubbliche calamità (forse anche per sorvolare su inefficienze di altri). Ne abbiamo evidenziato l’estrema duttilità nel tappare buche cittadine o sostituire servizi di nettezza urbana latitanti.
Indubbiamente, i soldati italiani sono “buoni”, sono “generosi” e sono sempre “disponibili” a farsi carico d’inefficienze (anche prolungate e tutt’altro che accidentali) di altri organi della pubblica amministrazione.
C’è da chiedersi, peraltro, se siano anche efficienti per fare ciò per cui le Forze Armate sono state concepite, in termini sia di risorse umane che di mezzi ed equipaggiamenti.
Incominciamo dall’argomento più semplice e facile da affrontare: quello di mezzi ed armamenti. Costoso, certo, ma relativamente più semplice!
Purtroppo, in Italia, quando si affrontano argomenti relativi a mezzi ed equipaggiamenti militari, l’efficienza dello strumento militare è, di norma, l’ultima delle preoccupazioni (già Mussolini nel 1930 chiedeva al Ministro della Guerra Gazzera “un programma di lavori … dico lavori, non armamenti o dotazioni, cioè strade, ponti, ferrovie, caserme, postazioni, eccetera, in modo da occupare una quantità notevole di mano d’opera. Si tratta di lavori pubblici militari”… dieci anni dopo ne abbiamo visti i risultati).
A puro titolo di esempio (ma ce ne sarebbero, purtroppo, infiniti altri), nell’ormai interminabile dibattito sugli F-35, non capita mai (a meno di articoli scritti da ex militari) di leggere valutazioni in merito a “perché ci servano” e “quanti ce ne servano” in base alle nostre esigenze operative.
Troppi politici si limitano a dire che se non acquistiamo il numero di velivoli originariamente concordato scontenteremmo Trump e l’amministrazione USA ce la farebbe pagare sia in termini di rapporti economici bilaterali sia emarginandoci in ambito NATO (messaggio agli elettori di destra?).
Poi, si ricorda, che verrebbero a mancare le commesse per lo stabilimento (FACO) fi Cameri e che dovremmo mettere centinaia di operai in cassa integrazione (messaggio all’elettorato di sinistra?).
Tutto verissimo, ma è come dire “noi saremmo pacifisti e di questi apparecchi portatori di morte non vorremmo neanche sentir parlare, ma sapete …. siamo obbligati ad andare avanti”. Mai che si dica “ci servono per le nostre future proiezioni di potenza per la salvaguardia dei nostri interessi nazionali” (come se avessimo il terrore di ammettere che potremmo avere interessi nazionali da difendere anche con l’uso delle armi).
Neppure ci viene mai detto esplicitamente che“non ci servono perché hanno potenzialità offensive che i politici italiani non autorizzeranno mai ad impiegare” (ricordiamoci lo spreco di denaro pubblico dei cacciabombardieri Tornado inviati in Afghanistan disarmati e solo con compiti di ricognizione). Il problema, cioè, è innanzitutto culturale.
Peraltro, i programmi di ammodernamento richiedono l’assunzione di decisioni a lungo termine e la disponibilità ad assumere impegni sia finanziari che politici pluriennali.
I programmi di ammodernamento pluriennali non possono essere ostaggio della diatriba politica giornaliera. Ci auguriamo sinceramente che il nuovo inquilino di Palazzo Baracchini vorrà affrontare con serietà le tante problematiche irrisolte relative, a puro titolo di esempio e senza alcun intendimento di essere esaustivo, a credibili capacità di contrasto delle minacce Cyber, ammodernamento di tutta la componente mobilità delle forze terrestri, a capacità di trasporto aereo tattico e strategico, FREMM, CAMM-ER, investimenti su droni al passo con i tempi, eccetera.
Tutto ciò, per una volta, senza considerare che le forze armate italiane debbano sobbarcarsi e acquistare tutti quei prodotti dell’industria nazionale che non sono apparsi appetibili sul mercato estero (dall’AR 76 della FIAT ai droni della Piaggio, gli esempi sarebbero numerosi).
Peraltro, ben più importante del fattore tecnologico resta il “fattore umano”, soprattutto in tutte le condizioni di conflittualità asimmetrica, ovvero quelle che stiamo sperimentando dalla fine del secondo conflitto mondiale in poi.
Fattore umano sul quale è molto difficile intervenire e dove gli effetti benefici di un intervento correttivo saranno visibili dopo tempi forse più lunghi di quelli dei programmi pluriennali cui facevo riferimento prima. Il punto è essenzialmente se i nostri soldati siano “fit to fight” (idonei a combattere).
La domanda potrebbe apparire oziosa e prettamente accademica, perché probabilmente si ritiene che, intanto, non ci sia una politica nazionale capace di individuare “interessi nazionali” la cui salvaguardia possa eventualmente richiedere il ricorso alla forza militare e che, anche ove ci fossero interessi nazionali evidentemente a rischio (pensiamo alla minaccia terroristica che potrebbe emanare da una Libia ulteriormente “balcanizzata”) noi non saremmo comunque disposti ad impegnarci più di tanto.
Peraltro, questa è una situazione che potrebbe cambiare velocemente. Il nostro Esercito (ovvero la forza armata dove il rapporto tra uomo e sistema d’arma è più sbilanciato a favore dell’uomo) è irrimediabilmente “vecchio”. L’età media dei volontari in servizio permanente è 37 anni, il 25% è sopra i 40 anni. Tra 10 anni, se non si interviene, saranno il 75%.
In una situazione in cui si debba intervenire in situazioni conflittuali ad alta intensità occorrono soldati che siano a un tempo addestrati, preparati, fisicamente idonei e motivati a combattere.
Nel pur inevitabile passaggio dall’esercito di leva a quello professionale, sono stati immessi sin dai primi anni ed in contemporanea troppi militari nei ruoli del servizio permanente, anziché scaglionare i reclutamenti negli anni, senza considerare che tale personale sarebbe anche invecchiato contemporaneamente. Non si è trattato di semplice miopia da parte dei vertici militari dell’epoca, ma di vera e propria svendita delle capacità operative per conseguire gli obiettivi occupazionali indicati dai “political masters” dell’epoca.
Si è sempre cercato di fare leva sul “posto fisso”, sulla sede “vicino alla mamma, alla fidanzata o alla moglie”, anziché sulla vicinanza di aree addestrative. Anzi, le aree addestrative le stiamo dismettendo perché fanno troppo “militaresco”.
Occorre, pertanto, riaprire gli arruolamenti in deroga alle limitazioni organiche attuali, ricercando giovani veramente motivati. Lo strumento militare non ha bisogno di tanti Checco Zalone in spasmodica ricerca del “posto fisso”. Servono persone disposte a una sfida per un numero limitato di anni, e poi pronte ad altro.
Ovviamente, nel contempo, occorre avviare una credibile politica di svecchiamento che non penalizzi coloro che sono stati arruolati in sovrannumero a suo tempo, per colpa dell’istituzione e non loro.
Occorre, in tale contesto, realizzare procedure che consentano credibilmente di reimpiegare gran parte dei militari meno giovani nelle forze dell’ordine e negli altri apparati dello Stato. Insomma, non si può trasporre sic et simpliciter il modello occupazionale civile nel mondo militare, con caporali che tra qualche anno potrebbero essere più vicini ai sessant’anni che ai cinquanta.
Ma ancora più pressante è l’esigenza di recuperare, anche culturalmente, la “specificità” della missione militare. Ovvero, avere il coraggio politico di affermare che il “soldato” è colui che può dover usare la forza letale per proteggere i suoi concittadini e per salvaguardare gli interessi nazionali.
Certo che potrà (e dovrà) intervenire in caso di pubbliche calamità, che saprà curare e aiutare le popolazioni delle zone dove interviene, ma la sua peculiarità deve rimanere l’uso della forza per garantire la sicurezza della Nazione.
Anche l’impiego in “Strade Sicure” o altre operazioni analoghe dai nomi fantasiosi dovrebbe essere rivisto. Dura da 27 anni, dall’allora giusta operazione Vespri Siciliani, dopo gli omicidi di Falcone e Borsellino.
Ma continuare a usare i militari per scopi diversi ci rende un’eccezione nel mondo occidentale. Si usano più militari per Strade Sicure che nei Teatri Operativi.
Nel solo Esercito, addirittura il doppio. Se serve incrementare le forze di polizia, si reclutino più poliziotti.
Altrimenti, è solo fumo negli occhi dell’opinione pubblica, per dare l’impressione che si è fatto il massimo: “ho inviato l’esercito, cosa potevo fare di più?”
Ma in questi 27 anni in cui i soldati hanno i “vice” poliziotti, non sono stati a “costo zero”! Vi è stata inevitabilmente una grave perdita di professionalità (soprattutto da parte degli Ufficiali più giovani) e di motivazione da parte di chi si è arruolato pieno di entusiasmo e poi si trova su un marciapiede a fare un’attività ripetitiva con limitata capacità di manovra.
Occorre pertanto affrontare urgentemente sia il problema anagrafico dei nostri militari sia quello culturale della specificità delle forze armate, anche a costo di una loro drastica cura dimagrante.
Questo potrà cozzare con una visione “civilistica” e “occupazionale” che si sta’ affermando da un po’ di anni. D’altronde, se lo strumento militare (come molti altri settori del “pubblico”) sono intese dalle autorità governative come “stipendifici” per ridistribuire ricchezza in aree dove c’è carenza di lavoro, è chiaro che ci si preoccupi poco del fatto che vengano mantenute in condizione di essere “eticamente” e “professionalmente” nelle migliori condizioni per assolvere le loro missioni prioritarie!
Vi è anche la sindacalizzazione dei militari che ritengo meriti attenzione. Non per negarne l’attuazione (cosa che, comunque, non sarebbe più possibile dopo la pronuncia della Corte Costituzionale).
Non c’è da essere entusiasti della sindacalizzazione del personale con le stellette, ma se si è giunti a questo punto è anche perché le catene gerarchiche e i comandati non sono stati capaci di farsi percepire dai propri soldati come i primi difensori dei loro diritti!
Un fallimento dei comandanti! Quindi si proceda pure con la sindacalizzazione, ma si eviti che i sindacati diventino palcoscenici per esprimere le proprie ambizioni personali e siano usati esclusivamente quale trampolino per entrare politica, anziché strumento per portare avanti le aspettative dei propri commilitoni. Ovvero, che non diventino come i COCER, utili solo ai propri membri.
Infine, alla Difesa serve una direzione politica di ampio respiro, che guardi lontano e sappia anche fare scelte dolorose per recuperare l’efficienza di uno strumento indispensabile per la sicurezza del Paese. Ai soldati italiani a Palazzo Baracchini serve uno statista che sappia, voglia e abbia il coraggio di affrontare i problemi profondi e a lungo trascurati della nostra Difesa, non una “mamma” premurosa che li coccoli (quella ce l’hanno già a casa loro) senza affrontare i problemi.
Foto Difesa.it e Alberto Scarpitta
Antonio Li GobbiVedi tutti gli articoli
Nato nel '54 a Milano da una famiglia di tradizioni militari, entra nel '69 alla "Nunziatella" a Napoli. Ufficiale del genio guastatori ha partecipato a missioni ONU in Siria e Israele e NATO in Bosnia, Kosovo e Afghanistan, in veste di sottocapo di Stato Maggiore Operativo di ISAF a Kabul. E' stato Capo Reparto Operazioni del Comando Operativo di Vertice Interforze (COI) e, in ambito NATO, Capo J3 (operazioni interforze) del Centro Operativo di SHAPE e Direttore delle Operazioni presso lo Stato Maggiore Internazionale della NATO a Bruxelles. Ha frequentato il Royal Military College of Science britannico e si è laureato con lode in Scienze Internazionali e Diplomatiche a Trieste.