Hamza e gli altri: quando il terrorismo è un “affare di famiglia”
A fine luglio è stata comunicata la – presunta – morte di Hamza bin Laden, figlio di Osama e leader predestinato di al-Qaeda. Bin Laden jr sarebbe stato ucciso nei primi due anni dell’amministrazione Trump (2017-2019), durante un’operazione di cui non sarebbe stato il bersaglio principale; bensì, solo fortuito.
Nonostante la notizia sia stata nuovamente confermata dalla Casa Bianca a metà settembre, sulla vicenda rimangono molti lati oscuri – il ruolo di Washington, la reticenza di Trump nel celebrare un tale successo nella Guerra al terrore o di al-Qaeda nell’esaltarne il martirio, l’offerta di una taglia da 1 milione di dollari a febbraio e la permanenza tra i Most Wanted dell’FBI.
Lasciando che di essi si occupino altri analisti e dietrologi, ciò che emerge è la crescente importanza dei legami parentali nell’attività terroristica. Dall’11 Settembre al Bataclan, da Charlie Hebdo alle stragi in Sri Lanka, dalla Maratona di Boston all’Indonesia, IRA, ETA, PKK e Brigate Rosse, il terrorismo si rivela sempre più affar di famiglia.
Terrorismo di Famiglia
Il terrorismo familiare o kin(ship) terrorism consiste nel coinvolgimento di due o più membri dello stessa famiglia nella minaccia, organizzazione e/o compimento di attacchi terroristici. Nei casi più estremi – Indonesia e Sri Lanka, ad esempio – vi è stata addirittura la partecipazione di più nuclei familiari.
Può essere di tipo religioso, di liberazione nazionale, internazionale o domestico, animalista, ambientalista o di qualunque altra matrice. Così come possiamo trovarvi organizzazioni a direzione o sponsorizzazione statale, oppure indipendenti.
A differenza del terrorismo tradizionale, contraddistinto dalla presenza di fattori individuali ed ideologici, quello famigliare risulta qualitativamente differente, con elementi più personali e psicologici.
Si caratterizza per una maggior facilità di radicalizzazione grazie al preesistente clima di fiducia e credibilità di cui altri gruppi non possono beneficiare. In famiglia, infatti sono più semplici e continuative le esposizioni ideologiche, il reclutamento, il finanziamento, l’addestramento e le opportunità operative.
E’ naturale, ad esempio condividere nuove ideologie – anche se estremistiche – con i familiari, così come è più semplice trascinarli ed autoconvincerli in blocco – bloc recruitment.
Avvisaglie di radicalizzazione traspaiono, praticamente solo ad uno stadio già avanzato oppure ad attentato ormai compiuto. L’ambito famigliare tende, infatti a scoraggiare maggiormente disimpegni dall’azione terroristica o delazioni. Oltre al tradimento della causa, vengono messi a repentaglio anche l’incolumità e l’onore dei propri congiunti e questo crea una forte barriera psicologica.
Reclutando tra i membri della famiglia, inoltre si riducono potenziali infiltrazioni; aspetto a cui i terroristi dedicano tanto tempo quanto quello per l’organizzazione di attentati.
Il reclutamento parentale ha molto in comune con quello “vecchio stile”: un’ampia gamma di strategie di reclutamento, radicalizzazione e socializzazione con agenti radicalizzanti che escludono completamente affiliazioni online, propaganda virtuale e, più generalmente, l’uso di comunicazioni computerizzate. Esso, infatti si basa su interazioni faccia-faccia, relazioni preesistenti e contesti sociali condivisi.
Nel terrorismo famigliare esiste un grado variabile di flessibilità, nonché una strutturazione gerarchica dei ruoli: alcuni membri sono leader, altri operativi o addetti a logistica e supporto. Una particolare relazione nel terrorismo famigliare è quella padre/figlio.
I genitori giocano spesso un ruolo fondamentale, non solo nella radicalizzazione dei figli, ma anche nel loro coinvolgimento diretto in operazioni suicide.
Giovani ed adolescenti, soprattutto in società patriarcali e collettiviste come quella indonesiana, sono più vulnerabili all’influenza di famigliari e/o gruppi estremistici carismatici, diventandone vere e proprie pedine. Alcuni dei ragazzini degli attentati di Surabaya avevano ricevuto un’educazione domestica per evitare influenze e corruzioni esterne ed obbligati a guardare filmati di violenze jihadiste in Iraq e Siria.
I gruppi di fratelli, invece si caratterizzano per un ruolo di trascinatori svolto dai maggiori e da un’estrema dedizione alla causa dai minori; per dimostrare di esser all’altezza. I fratelli vengono impiegati solitamente nella stessa operazione, seppur con differenti obiettivi.
Si pensi ai fratelli El Bakraoui (foto sopra), in Belgio, nel 2016 – uno suicida nella metro, l’altro all’aeroporto, oppure alle sorelle cecene, Nagayeva in Russia, nel 2004: Amanta si è fatta esplodere sul volo Mosca-Volgograd – 43 morti, la sorella Rosa fuori dalla metropolitana di Mosca – 10 vittime.
O ancora, ai 124 fratelli detenuti per jihadismo in Spagna tra il 2013-2016. Provenienti principalmente da famiglie destrutturate in cui, spesso, l’assenza del padre ha rafforzato i loro legami e favorito la radicalizzazione.
Ai fini della strategia terroristica risulta importante anche il matrimonio; sia volontario che forzato. In questo modo i jihadisti consolidano i legami tra i gruppi, secondo una vecchia e radicata tradizione tribale. Hamza bin Laden avrebbe spostato la figlia di Abu Mohammed al-Masri, luogotenente di al-Qaeda nel 2007 e nel 2018 quella di Mohammed Atta, capo dei dirottatori dell’11 Settembre.
Mohammed bin Laden, altro figlio dello sceicco del terrore avrebbe sposato, invece la figlia di Mohammed Atef al-Masri, grande confidente di Osama.
Dean C. Alexander, professore della Western Illinois University ed esperto di terrorismo, nel libro Family Terror Networks recentemente pubblicato, ha riportato i risultati di anni di ricerca sull’argomento.
Dopo aver analizzato 118 casi di famiglie collegate al terrorismo di diversa matrice, ha rilevato la presenza di 138 vincoli parentali con una distribuzione sostanzialmente omogena: mariti/mogli (31%; 43 su 138), fratelli (26%; 36 su 138), padri/figli (15 casi su 138 o 10,87%), cugini (11 casi su 138 o 7,97%). Per quanto riguarda le ideologie, il jihadismo rappresenta l’84,75%, seguito da Sovereign citizens (4,24%), Suprematisti bianchi (1,69%) ed Identità Cristiana, anti-abortisti ed anti-LGBTQ al 0,85%.
La partecipazione predominante è quella di individui di sesso maschile. Alexander ha inoltre elaborato un modello predittivo sulla formazione di network terroristici famigliari articolato su sei fasi:
- 1) Un membro della famiglia – F1 – è esposto all’ideologia radicale e supporta un movimento associato a tale principio.
- 2) F1 approccia uno – F2 – o altri membri della famiglia – F3, F4 – circa la possibilità di abbracciare ideologie estremiste.
- 3) Uno o più membri della famiglia – F3, F4 – accettano, accettano con riserva o rifiutano il principio estremista.
- 4) Diverse opzioni possibili: F1 assume un ruolo attivo nel movimento / F1 o F1 e F2 compiono un attacco / F1 e F2 lasciano l’estremismo.
- 5) Ipotizzando che F2 abbandoni il radicalismo, potrebbe cercare di convincere F1 a far altrettanto.
- 6) F1 può decidere di: lasciare/cessare i contatti con F2/portare avanti altre azioni. Alternativamente, F2 può decidere di seguire lo stesso percorso citato in questo punto.
Aggiustando il tiro all’attualità del pericolo returnees, uno studio di New America ha individuato per almeno 1/3 di 474 foreign fighters provenienti da 25 Paesi occidentali “connessioni familiari alla jihad attraverso parenti attualmente in Siria o Iraq, matrimoni o altri legami da precedenti conflitti o attacchi.”
L’intelligence tedesca ha rivelato, invece che 69 dei propri 378 foreign fighters hanno viaggiato con membri della famiglia. Tale percentuale, appena superiore al 18%, risulta più elevata di quella rilevata da un altro esperto americano, Marc Sageman più di un decennio fa. Allora, su di un campione di 172 jihadisti, si raggiungeva solamente il 14%.
La presenza di vincoli parentali nei gruppi terroristici è storicamente dimostrata anche da uno studio di Donatella della Porta del 1995: 298 su 1214 militanti – poco meno del 25% – delle Brigate Rosse durante gli anni 70 e 80 “avevano avuto almeno un parente, solitamente marito o moglie, fratello o sorella” nell’organizzazione.
Basti pensare a due dei fondatori delle Brigate Rosse, Renato Curcio e Margherita Cagol che erano marito e moglie. Allo stesso modo, IRA e ETA avevano una forte componente famigliare rispetto ad altri gruppi con legami maggiormente amicali o camerateschi. Tra le tattiche di reclutamento del PKK in Turchia e Medioriente troviamo legami famigliari e matrimoni.
Casistica
Il terrorismo famigliare si è verificato praticamente in tutto il mondo. Dall’Asia al Medioriente, dall’America all’Europa: Francia, Gran Bretagna, Belgio, Spagna e persino Italia.
A Surabaya, Indonesia nel maggio 2018 abbiamo assistito per la prima volta al coinvolgimento di intere famiglie in attacchi terroristi di matrice jihadista. Tre famiglie con circa una decina tra bambini e ragazzi dai 7 ai 18 anni hanno attaccato chiese ed una stazione di polizia. Bilancio: 28 vittime fra cui 13 attentatori.
Tra gli uomini di Jemaah Islamiyah, responsabili dell’attentato di Bali del 2002, in cui hanno perso la vita più di 200 persone, vi erano tre fratelli. Il gruppo è stato considerevolmente indebolito da arresti ed altre misure. Tuttavia, è riuscito a sopravvivere e a tornare a colpire grazie ad un intricato sistema di parentele.
Negli attentati di Pasqua in Sri Lanka, costati la vita ad oltre 250 persone, assieme a Zharan Hashim (foto a lato), capo degli attentatori si sono immolati anche una quindicina di suoi famigliari; tra cui il padre, due fratelli e 6 bambini. Tra gli altri attentatori suicidi anche una coppia di fratelli, la moglie di uno loro con i due figli ed uno non ancora nato.
Sei dei diciannove dirottatori dell’11 Settembre 2001 erano fratelli. Fratelli erano anche Tamerlan e Dzhokhar Tsarnaev (nella foto sotto), attentatori della maratona di Boston. Syed Rizwan Farook e Tashfeen Malik che hanno ucciso 14 persone a San Bernardino, California erano, invece marito e moglie. Marito e moglie erano anche Jerad e Amanda Miller: antigovernativi che nel giugno 2014 hanno ucciso due poliziotti ed un civile a Las Vegas.
L’attacco al giornale satirico Charlie Hebdo, nel 2015 è stato compiuto dai fratelli Said e Chérif Kouachi.
Negli attacchi di Parigi del 13-14 novembre 2015 sono stati coinvolti i fratelli Abdeslam (nell’ultima foto in fondo all’articolo): Brahim si è fatto esplodere in una caffetteria, mentre Salah è riuscito a fuggire in Belgio, dove verrà catturato nel quartiere di Molenbeek. Abdelhamid Abaaoud, una delle menti degli attacchi, ha reclutato il fratello tredicenne, Younes per raggiungerlo in Siria e la cugina, Hasna Aitboulahcen per aiutarlo a tenere l’appartamento di Saint-Denis, in cui sono stati uccisi entrambi dalla polizia.
Ibrahim e Khaled El Bakraoui, sono i fratelli che hanno attaccato l’aeroporto e la metro di Brussels il 22 marzo 2016, uccidendo 34 persone. E ancora, negli attacchi di Barcellona del 2017 – l’esplosione di Alcanar, l’attacco alla Rambla ed a Cambrils, 9 dei 12 terroristi coinvolti erano fratelli.
La famiglia Sergio
Oltre ad entrare a far parte di un gruppo terroristico, alcuni membri od un’intera famiglia potevano esser convinti a popolare il Califfato. E’ questo il caso dei Sergio; primo esempio di conversione e radicalizzazione di un intero nucleo famigliare in Italia.
Nel settembre 2014 Maria Giulia Sergio – ribattezzata Fatima (foto a lato), insieme al marito albanese, Aldo Kobuzi ha lasciato la provincia di Milano per recarsi in Siria.
Dallo Stato Islamico, Fatima ha continuato a chiedere ai propri cari di raggiungerla e di servire e combattere per il Califfato. Il padre Sergio, la madre Assunta e la sorella Marianna sono stati arrestati dalla Digos nel luglio 2015, poco prima di partire.
Nell’operazione “Martese” che ha portato all’esecuzione di dieci ordinanze emesse dalla Procura di Milano, sono stati arrestati anche lo zio di Aldo Kobuzi e la moglie. Oltre a Fatima, in Siria vi erano anche Donika e Serjola, rispettivamente madre e sorella di Aldo.
Da fine 2018 Maria Giulia Sergio, condannata in contumacia a 9 anni di carcere per terrorismo internazionale, è stata cancellata dall’anagrafe per irreperibilità. Secondo la sorella, che sta scontando 5 anni e 4 mesi di carcere, Fatima sarebbe morta di malattia nel Califfato.
I bin Laden
Varie fonti sostengono che Osama bin Laden abbia avuto un numero di figli compreso tra 12 e 26. Egli, infatti voleva quanti più figli da destinare al Jihad. Fin da piccoli, i maschi venivano immortalati armi in pugno o portati a visitare teatri di battaglie. Le figlie, invece date in sposa all’inizio della pubertà a mujaheddin del doppio della loro età, per espandere i legami e la sfera di influenza di al-Qaeda.
Pur ritenendo che anche altri dei suoi figli abbiano effettivamente ricoperto ruoli in ambito terroristico – Mohammed e Ahmed, la certezza ci sarebbe solamente per Saad, Khalid e Hamza.
Saad Bin Laden, ai vertici della rete di al-Qaeda nell’immediato post-11 Settembre, anche se “non così importante” avrebbe avuto un ruolo nel coordinamento in una serie di attentati a Casablanca, Riad e alla moschea di Ghriba, in Tunisia Saad è stato ucciso nel 2009 da un drone della CIA nella regione tribale tra Pakistan e Afghanistan.
Khalid bin Laden è stato ucciso insieme al padre, dai Navy Seal americani, durante il raid di Abottabad nel 2011.
Ed infine, Hamza sul cui ruolo ed effettiva pericolosità rimangono molti dubbi. Nel 2005 Hamza è apparso in un video di talebani ed al-Qaeda dal titolo “The Mujahideen of Waziristan” mentre partecipava ad un attacco contro dei soldati pakistani.
Nel 2007 sarebbe stato implicato nell’assassinio del primo ministro pakistano, Benazir Bhutto; accusa alquanto improbabile visto che Hamza è stato ai domiciliari in Iran almeno fino al 2010. Pertanto, oltre ad esser apparso in una decina di registrazioni audio e video incitando a vendicare la morte del padre non sarebbe andato; pur designato come successore del padre, al posto di un poco carismatico al Zawahiri.
Qualche considerazione
I gruppi terroristici hanno sempre mostrato interesse verso membri uniti da legami parentali, tuttavia, con l’ISIS abbiamo assistito ad un progressivo e considerevole aumento. In particolare, al reclutamento di interi nuclei famigliari e, soprattutto, alla loro partecipazione diretta agli attacchi.
Questo trend è stato incentivato dalla maggior attenzione posta dai servizi di sicurezza ad estremisti e loro tradizionali ambienti di reclutamento – istituzioni educative e religiose, centri culturali, librerie, luoghi di culto e lavoro, associazioni sportive e caritatevoli, carceri ecc. I jihadisti si stanno perciò rivolgendo sempre più a network famigliari per ispirare homegrown terrorists e reclutare foreign fighters.
Quello famigliare risulta molto più insidioso delle altre tipologie di terrorismo perché è ancora più difficile da individuare, monitorare e disinnescare. Esso va nettamente in controtendenza con la politica antiterroristica americana – e non solo – che ha sempre ed ampiamente ritenuto le famiglie come punto di forza nella lotta alla radicalizzazione e al reclutamento di giovani.
Ciò, dando per scontato che i genitori avrebbero avvisato le autorità; senza contemplare lo scenario opposto: genitori che radicalizzano i figli. Le famiglie, infatti dovrebbero esser considerate in modo più neutrale: un network che può impedire, ma anche facilitare la diffusione dell’estremismo violento.
Esempi e schemi riportati dal professor Alexander, ben lungi dall’essere una scienza esatta, forniscono una casistica generale dei comportamenti più ricorrenti.
Devono, pertanto esser considerati come un mero strumento introduttivo all’analisi dei network terroristici famigliari. Da parte delle autorità è, infatti fondamentale la comprensione della loro natura e caratteristiche per poterne prevedere ed anticipare formazione e mosse.
Gli esperti, inoltre raccomandano un maggior supporto e rafforzamento del ruolo delle donne – in particolare, madri, ma anche padri e figure maschili autorevoli della comunità al fine di evitare la radicalizzazione dei membri della famiglia, aver accesso a sotto-comunità chiuse, elaborare una contro-narrativa, politiche ed iniziative specifiche orientate alle famiglie.
Allo stesso tempo serve un maggior coordinamento tra le autorità, ONG, comunità e semplici cittadini per consentire una miglior community intelligence che consenta di individuare quelle tracce – di terroristi o complotti imminenti – sempre più deboli. Una particolare attenzione deve esser prestata ai returnees che una determinante influenza hanno avuto sulle famiglie attentatrici degli ultimi casi.
Questo soprattutto se, oltre alla fortunatamente scarna situazione interna, consideriamo il fiorente fenomeno di radicalizzazione dei nostri vicini: nei Balcani – Albania e Macedonia soprattutto, i reclutatori trovano terreno fertile in quei nuclei famigliari poveri, pronti a ricevere finanziamenti ed insegnamenti radicali da generosi donatori del Golfo.
ll fenomeno del terrorismo famigliare è sempre più diffuso e destinato a rimanere preminente nel prossimo futuro.
Pietro OrizioVedi tutti gli articoli
Nato nel 1983 a Brescia, ha conseguito la laurea specialistica con lode in Management Internazionale presso l'Università Cattolica effettuando un tirocinio alla Rappresentanza Italiana presso le Nazioni Unite in materia di terrorismo, crimine organizzato e traffico di droga. Giornalista, ha frequentato il Corso di Analista in Relazioni Internazionali presso ASERI e si occupa di tematiche storico-militari seguendo in modo particolare la realtà delle Private Military Companies.