Come fermeremo i terroristi islamici se non riusciamo neppure a tenerli in galera?

L’attacco terroristico islamico di Londra del 29 novembre conferma tutte le vulnerabilità della Gran Bretagna e più in generale dell’Europa di fronte a una minaccia che negli ultimi due anni è calata d’intensità ma senza esaurirsi. Le indagini riveleranno forse se gli attacchi al coltello al London Bridge e all’Aja e l’ordigno privo di esplosivo ritrovato alla Gare du Nord a Parigi possano indicare una nuova pesante offensiva terroristica contro l’Europa che potrebbe scatenarsi con l’avvicinarsi del periodo natalizio, ma già ora alcuni elementi si prestano a qualche valutazione.

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La decisione del ministero degli Interni britannico di ridurre il livello di allerta terrorismo ha scatenato forti polemiche ma può apparire giustificata dal costante calo degli attacchi islamisti registratosi negli ultimi due anni in seguito al tracollo dello Stato Islamico in Iraq e Siria.

Il livello di allerta-terrorismo è stato ridotto il 4 novembre da “grave” (severe) con rischi di attacchi “molto probabili” (il secondo gradino nella scala di pericolo del Joint Terrorism Analysis Centre) a “considerevole” (substantial) con rischi “probabili”, ossia il terzo e il più basso livello dal 2014, anno in cui a Mosul venne proclamato il Califfato.
Al tempo stesso il fenomeno degli accoltellamenti terroristici non era certo scomparso e lo scorso Capodanno un somalo 25enne aveva pugnalato tre persone, incluso un poliziotto, alla Victoria Station di Manchester.

Del resto i servizi d’intelligence evidenziano da tempo il rischio di una ripresa del terrorismo jihadista, soprattutto dopo l’uccisione del califfo Abu Bakr al-Baghdadi, paventando una serie di attacchi per vendicarne la morte.
Il fatto che il terrorista del London Bridge, il 28enne di origine pakistana Usman Khan, avesse già a suo carico una condanna per terrorismo risalente al 2012, ben evidenzia i limiti di un sistema giudiziario che non riesce a impedire neppure ai jihadisti condannati di rappresentare una minaccia per la società.

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Difficile combattere i terroristi islamici, incarcerare le cellule jihadiste e prevenirne gli attacchi se non si riesce a far restare in galera neppure chi è già stato condannato per terrorismo.

La “lezione” che viene da Londra dopo l’attacco al coltello al London Bridge non riguarda certo solo il Regno Unito ma tutta l’Europa. E’ ormai chiaro che il terrorismo islamico, soprattutto quello “fai da te” con l’uso di coltelli o veicoli non sia facile da prevenire specie in paesi dove tra le nutrite comunità islamiche spesso riottose a una reale integrazione il numero di estremisti e potenziali terroristi è sempre molto alto.

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In questo caso però siamo di fronte alla manifesta incapacità degli Stati di detenere in carcere terroristi conclamati e già condannati. Una incapacità “culturale” e non solo materiale che si abbina alla cieca iniziativa di molti stati europei di continuare a incrementare il numero di residenti e cittadini islamici o che prevede il reinserimento sociale per i “foreign fighters” macchiatisi di crimini orribili in Iraq e Siria.

In libertà vigilata con obbligo di braccialetto elettronico dopo essere stato scarcerato l’anno scorso con la condizionale, Khan era stato arrestato nel 2010 per aver partecipato alla pianificazione di attentati terroristici contro la Borsa di Londra, il Big Ben e l’abbazia di Westminster.

Né si può dire che Khan fosse una figura minore nella banda di 8 jihadisti di cui faceva parte: possedeva una lista di possibili bersagli che includeva l’attuale premier Boris Johnson, voleva realizzare un centro di addestramento per terroristi su un terreno di famiglia nel Kashmir e lo stesso giudice che lo condannò lo definì molto pericoloso raccomandando di non concedergli sconti di pena.

Previsioni non smentite: l’uomo ha ucciso due persone ferendone altre tre ma il bilancio del suo gesto sarebbe stato certo ben più grave se alcuni passanti non lo avessero coraggiosamente aggredito e bloccato nello stesso luogo in cui un attacco effettuato nel 2017 da 3 terroristi islamici aveva fatto 8 vittime con un furgone lanciato contro la folla e poi con un assalto a coltellate.

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Al danno si aggiunge pure per la beffa considerato che Khan, dopo il rilascio, aveva partecipato nei mesi scorsi a un programma governativo di de-radicalizzazione e riabilitazione di detenuti estremisti: un’ulteriore conferma del fallimento dei programmi di questo tipo varati in tutta Europa in base a teorie buoniste e politicamente corrette che hanno permesso solo di foraggiare con denaro pubblico terroristi, “foreign fighters” e fans del jihad.
L’ex capo dell’antiterrorismo britannico, Chris Phillips, ha accusato il sistema giudiziario di “giocare alla roulette russa” con la sicurezza dei cittadini. “Il nostro sistema giudiziario penale deve guardarsi dentro” e rivedere il modo in cui accordai benefici della libertà vigilata, ha commentato Phillips all’ agenzia Pa.

“Noi lasciamo uscire di prigione gente condannata per reati molto, ma molto gravi e li reinseriamo nella società quando sono ancora radicalizzati”. In queste condizioni, si è chiesto quindi polemico, “come accidenti possiamo chiedere alla polizia e ai servizi segreti di tenerci al sicuro?”.

Anche senza il ricorso a libertà condizionale e sconti di pena in tutta Europa e soprattutto in Francia e Gran Bretagna saranno centinaia i jihadisti a tornare in libertà dopo aver scontato condanne per la partecipazione o la complicità in atti terroristici.

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In Gran Bretagna aveva fatto scalpore nel maggio scorso la scarcerazione dell’imam del terrore Anjem Choudary, condannato nel 2016 a 5 anni e mezzo di carcere per avere pubblicamente elogiato l’Isis e minacciato di morte diversi capi di governo occidentali ma che poi ha goduto del regime di libertà vigilata.

Ai terroristi rimessi in libertà si aggiungono molti criminali comuni (solo in Francia sono un migliaio) radicalizzati in carcere dai detenuti jihadisti: un pericolo scongiurabile se nei paesi europei si provvedesse a istituire prigioni ad hoc per i terroristi separandoli così dai criminali comuni.

L’anno scorso l’82% dei 228 detenuti nel Regno Unito per terrorismo erano integralisti islamici e fin dall’agosto 2017 il coordinatore antiterrorismo dell’UE, Gilles de Kerchove, aveva reso noto che la Gran Bretagna detiene il record europeo di fans del jihad: ben 35.000 di cui 3.000 considerati pericolosi dai servizi di sicurezza (MI5) e 500 ritenuti pronti a compiere atti terroristici.

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Impossibile tenere sotto controllo costante un numero così elevato di persone, come ben sanno anche in Francia dove sono ormai 30mila gli estremisti islamici “bollati con la fiche “S” dagli organismi di sicurezza.

Anche l’Unione Europea ha le sue responsabilità nel favorire il radicalismo islamico e fu lo stesso De Kerchove a parlare per primo di programmi di reinserimento sociale per i “foreign fighters” che rientrano in Europa da Iraq e Siria poiché in molti casi le leggi vigenti non consentono di incarcerarli o di detenerli per lunghi periodi.

Su questo fronte la situazione potrebbe peggiorare con il possibile rientro o infiltrazione in Europa di parte delle centinaia di miliziani dell’Isis fuggiti dalle carceri curde nel nord della Siria durante l’attacco turco dell’ottobre scorso. Ankara e le autorità curde stanno espellendo molti “foreign fighters” prigionieri e i lori famigliari (inclusi gli orfani di guerra) verso i paesi di origine tra i quali il Regno Unito.

Va infine rilevato che in Gran Bretagna è in atto da anni un vero e proprio boom degli attacchi con armi bianche, per lo più coltelli e machete, concentrati soprattutto a Londra, Manchester e Brimingham, dove sono presenti le più nutrite comunità musulmane e dilaga il fenomeno delle gang giovanili. Nel 2018 è stato registrato il record di accoltellamenti con 285 omicidi mentre questo tipo di crimine è aumentato del 43 per cento negli ultimi tre anni.

@GianandreaGaian

Foto: BBC, Reuters e PA

 

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Giornalista bolognese, laureato in Storia Contemporanea, dal 1988 si occupa di analisi storico-strategiche, studio dei conflitti e reportage dai teatri di guerra. Dal 1991 al 2014 ha seguito sul campo i conflitti nei Balcani, Somalia, Iraq, Afghanistan, Sahara Occidentale, Mozambico e Sahel. Dal febbraio 2000 dirige Analisi Difesa. Ha collaborato o collabora con quotidiani e settimanali, università e istituti di formazione militari ed è opinionista per reti TV e radiofoniche. Ha scritto diversi libri tra cui "Iraq Afghanistan, guerre di pace italiane", “Immigrazione, la grande farsa umanitaria” e "L'ultima guerra contro l’Europa". Presso il Ministero dell’Interno ha ricoperto dal 2018 l’incarico di Consigliere per le politiche di sicurezza di due ministri e un sottosegretario.

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