Da Berlino pochi progressi nella crisi in Libia
Al di là del pomposo documento in 7 punti e 55 articoli redatto alla conclusione dei lavori, l’unico risultato concreto raggiunto dalla conferenza di Berlino è la conferma del (traballante) cessate il fuoco tra le milizie del Governo di accordo Nazionale (GNA) di Fayez al-Sarraj e quelle dell’Esercito Nazionale Libico guidato dal feldmaresciallo Khalifa Haftar.
Un cessate il fuoco che a dire il vero era stato varato al summit di Mosca dove Haftar si era rifiutato di firmare una tregua che voleva imporre ai suoi militari di ritirarsi dalla periferia di Tripoli, conquistata a caro prezzo, ma nei fatti aveva rispettato lo stop ai combattimenti pur con qualche violazione.
L’ultimo caso di “ripresa dei combattimenti nelle zone meridionali di Tripoli” è stata segnalata dalla tv al-Arabiya nella tarda serata di domenica (appena conclusa la conferenza di Berlino) con scontri avvenuti “nei pressi del cimitero” di al-Hadba in seguito a un tentativo di avanzata delle milizie del generale Khalifa Haftar.
A Berlino erano presenti 15 Paesi e organizzazioni internazionali che hanno espresso consenso unanime su tre punti fondamentali: favorire il cessate il fuoco, rispettare l’embargo contro le armi ed eliminare le interferenze straniere in quella crisi.
Il rispetto dell’embargo ONU sulle armi risale al 2011 ed è stato sempre violato da tutti i molti sponsor (una dozzina secondo la missione delle Nazioni Unite in Libia) delle fazioni in campo. Violazioni plateali con immagini tv e articoli di giornale che mostravano armi, velivoli e veicoli giunti in Libia al GNA come all’LNA.
Forniture che la Ue non potrà mai impedire in parte perchè avvengono lungo le immense frontiere desertiche libiche o per via aerea mentre non è ipotizzabile che navi di flotte europee blocchino in mare cargo russi, turchi o di altra nazionalità diretti nei porti libici. Non a caso a Berlino non si è parlato di sanzioni per chi dovesse violare l’embargo.
Il terzo punto fa quasi sorridere per la sua ingenuità: i paesi che attuano “interferenze” sono in realtà i veri protagonisti (a discapito dell’Europa e dell’Italia) di questa crisi: Qatar e Turchia al fianco del GNA, Russia, Egitto, Emirati Arabi Uniti e Francia con l’LNA. Il loro ruolo è già decisivo in termini militari e lo sarà nel determinare se la crisi libica avrà una soluzione bellica o politica.
Anche nel secondo caso, questa emergerà eventualmente dall’impegno militare profuso sul campo da questi paesi a difesa dei propri alleati libici. Solo l’intervento turco, sia quello a minore visibilità dei mesi scorsi siae quello più muscolare degli ultimi giorni, ha impedito ad Haftar di prendere Tripoli così come i contractors russi o le armi e il denaro forniti dal Cairo e Abu Dhabi hanno permesso di alimentare l’offensiva dell’LNA che ha preso Sirte (costringendo alla difensiva le potenti milizie di Misurata) e raggiunto la periferia di Tripoli.
Il premier al-Sarraj, ha chiesto in un’intervista al quotidiano tedesco Die Welt il dispiegamento di “una forza internazionale di protezione della popolazione libica “posta “sotto gli auspici dell’Onu”: all’apparenza qualcosa di simile alla missione della NATO che nel 2011 rovesciò Gheddafi con la giustificazione di “proteggere il popolo libico”.
Una richiesta che mostra la criticità della situazione militare a Tripoli e, ancora una volta, che l’aspetto bellico resta fondamentale in questa crisi.
A Berlino al-Sarraj, e il generale Haftar non hanno voluto parlarsi e nemmeno stare nella stessa stanza ma basterebbero i punti enunciati per comprendere su quale castello di carte è stata imbastita e poi conclusa la conferenza a cui non è stata neppure invitata la Grecia, paese invece che ricopre un ruolo chiave in quella crisi da quando il memorandum tra Tripoli e Ankara del 26 novembre scorso mira a sottrare ad Atena il controllo di ampie aree marittime a favore della Turchia.
Pare che la il governo tedesco non abbia invitato i greci su richiesta della Turchia, un dettaglio la dice lunga sulla credibilità tedesca e della Ue nella crisi libica.
Alla vigilia del summit berlinese al-Sarraj aveva affermato che “l’Europa deve fare autocritica, gli europei sono arrivati troppo tardi. Ci saremmo aspettati che la Ue si schierasse in modo chiaro contro l’offensiva di Khalifa Haftar, e che aiutasse a risolvere la crisi attuale. L’Europa purtroppo ha avuto finora un ruolo molto modesto. Anche se alcuni Paesi hanno un rapporto speciale con la Libia e sono nostri vicini con molti interessi in comune”.
Anche Haftar ha snobbato gli europei preferendo un rapporto molto stretto con arabi e russi oltre ana relazione intensa ma a più basso profilo con gli Stati Uniti, interessati a tenere sotto controllo la crescente influenza di Mosca in Libia e a favorire intese che portino al disarmo delle milizie islamiste, incluse quelle della Fratellanza Musulmana.
Tutti gli altri punti del documento conclusivo di Berlino sono semplici auspici relativi al rispetto dei diritti umani e alla ripresa di negoziati politici. Appelli inconcludenti quasi quanto il ruolo dell’Italia ben rappresentato dalla patetica scena del premier Giuseppe Conte che cerca invano un posto in prima fila per la foto di rito del summit venendo respinto malamente in un angolo in seconda fila.
Del resto fu proprio Conte a cercare furbescamente di far incontrare al-Sarraj con Haftar a Roma senza aver infornato i due leader libici forse con l’obiettivo, fallito miseramente tra il pubblico dileggio, di strappare una foto a tre da rivendersi mediaticamente.
Sintetizzando il ruolo dell’Italia si potrebbe quindi liquidarlo con l’espressione “chi di photo-opportunity ferisce, di photo-opportunity perisce”, se non fosse per la reiterata proposta di schierare in Libia truppe europee e italiane in una forza di interposizione.
Una missione che al momento non esiste, non è all’ordine del giorno del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, viene giudicata prematura da molti paesi Ue ed ha, nel caso italiano, pretese ridicole.
Innanzitutto perchè i paesi che hanno una reale influenza militare e politica in Libia (Russia e Turchia in testa), cioè quelli che attuano le cosiddette “interferenze”, saranno anche quelli che avranno l’ultima parola sulla composizione di eventuali forze di interposizione. Inoltre un simile dispositivo militare verrebbe schierato nel momento in cui entrambi i contendenti accettassero una tregua stabile nell’ambito di una road-map negoziale precisa e condivisa con una fascia smilitarizzata che le forze internazionali dovrebbero presidiare o monitorare registrando eventuali violazioni del cessate il fuoco. Un’ipotesi al momento remota.
Diciamo piuttosto che la smania del governo italiano (unico vero sconfitto insieme alla Ue nel suo complesso dai recenti sviluppi libici) di avere una presenza militare in Libia nasconde l’aspirazione di utilizzare un pugno di militari per coprire il flop politico nella nostra ex colonia.
Un impiego dei militari come raffazzonata alternativa, non come strumento, di una politica estera che non siamo più in grado di esprimere.
Foto: Governo Tedesco
Gianandrea GaianiVedi tutti gli articoli
Giornalista bolognese, laureato in Storia Contemporanea, dal 1988 si occupa di analisi storico-strategiche, studio dei conflitti e reportage dai teatri di guerra. Dal 1991 al 2014 ha seguito sul campo i conflitti nei Balcani, Somalia, Iraq, Afghanistan, Sahara Occidentale, Mozambico e Sahel. Dal febbraio 2000 dirige Analisi Difesa. Ha collaborato o collabora con quotidiani e settimanali, università e istituti di formazione militari ed è opinionista per reti TV e radiofoniche. Ha scritto diversi libri tra cui "Iraq Afghanistan, guerre di pace italiane", “Immigrazione, la grande farsa umanitaria” e "L'ultima guerra contro l’Europa". Presso il Ministero dell’Interno ha ricoperto dal 2018 l’incarico di Consigliere per le politiche di sicurezza di due ministri e un sottosegretario.