Libia: quale ruolo militare per l’Italia dopo Berlino?
Alla fine la Conferenza di Berlino ha avuto luogo riportando alla mente la più famosa conferenza di Berlino del 1884-85 con la quale le potenze europee si spartirono in logica coloniale l’Africa. Altri tempi! Questa volta non è andata così.
A parte l’attivismo della Merkel, i paesi europei non hanno avuto questa volta grande voce in capitolo. UE e Italia sono rimaste penosamente irrilevanti (peraltro, l’Italia non era uscita particolarmente bene neanche dalla Conferenza di Berlino di 135 anni fa).
L’ONU è riuscito invece a marcare un punto importante sia perchè il testo dell’accordo non fa che sottolinearne la centralità sia per il previsto follow-up della conferenza inter-libica a Ginevra (prevista per il 27 gennaio), a guida ONU, che potrebbe ridare smalto al ruolo oggi un po’ offuscato del Palazzo di Vetro.
Di fatto, però, appare probabile che il prosieguo della crisi libica sarà deciso nel contesto della spartizione del Mediterraneo in atto da tempo tra i due “grandi burattinai” (lo Zar ed il Sultano), che a Berlino hanno finto di restare in secondo piano.
A Berlino è stato firmato (da tutti, ma non dai protagonisti della crisi, Fayez al-Sarraj e Khalifa Haftar che, in un certo senso, si sono mantenuti le mani libere) un corposo documento conclusivo in 55 punti.
Ovviamente si tratta di un testo che non scontenta nessuno e, conseguentemente, non accontenta pienamente nessuno. Facilmente potrebbe rivelarsi l’ennesimo libro dei sogni, da mettere in un cassetto non appena chi voglia di più di quanto promessogli ritenga di avere la forza per ottenerlo. Inoltre, al fine di giungere a comunque all’approvazione del documento, si è utilizzato un linguaggio necessariamente vago che si presta a diverse interpretazioni. Ricetta evidente per problemi futuri.
Ci sono alcuni slogan che ritornano ripetutamente nel documento e nelle dichiarazioni ufficiali che sembrano denotare l’assoluta mancanza di realismo nel considerare la situazione libica. Qualche esempio.
“No a una soluzione militare”, ignorando il fatto che dopo quasi nove anni di guerra civile, a meno di forti imposizioni esterne che le inducano a scendere a compromessi, le parti saranno disponibili a farlo solo dopo che abbiano avuto la vera misura dei reciproci rapporti di forza militari
“Unità della Libia”, senza però sbilanciarsi su “quale” delle due fazioni dovrebbe prevalere sull’altra! Se si rifiuta che ci sia un “vincitore”, occorre accettare l’idea di una partizione del paese, che non dispiacerebbe né a Mosca né ad Ankara).
“Libyan led process”: processo guidato dai libici, ovvero, esattamente l’opposto di quanto sta capitando. “Supporto alle Nazioni Unite nel coordinare il sostegno della Comunità Internazionale” ovvero quel “comprehensive approach” che viene sempre evocato a parole e mai messo in pratica nei fatti.
Per arrivare alla condanna della “discriminazione, ostilità o violenza, condotta tramite i social media” (punto 44). Cosa forse sacrosanta, ma fuori contesto, se si considera che al momento in Libia ci si fa più male con i kalashnikov che con facebook!
In sintesi, si può parlare di un passo in avanti molto timido. L’ONU sembra riacquisire un qualche ruolo ma, nonostante le dichiarazioni ufficiali, una Libia unitaria appare ancora più lontana.
Il ruolo dell’Italia sempre più marginale, plasticamente raffigurabile dal Presidente del Consiglio alla disperata ricerca del suo posto al momento della foto ufficiale e unico capo di governo europeo in seconda fila.
Come giustamente rilevato da al-Sarraj, l’Italia in Libia ha perso troppo tempo e molte occasioni. Roma è rimasta colpevolmente passiva quando ancora avrebbe potuto intervenire concretamente esprimendo uno sforzo sinergico diplomatico, economico e militare in un momento in cui ancora non si erano affermati competitors forti sul terreno.
Per assurdo, proprio ora, che la situazione è totalmente sfuggita di mano all’Italia, siamo testimoni di un attivismo diplomatico frenetico di Roma, tale da far impallidire la famosa “shuttle diplomacy” di Henry Kissinger.
Attivismo purtroppo totalmente vano, anche perché l’Italia (ammesso e non concesso che lo sappia) non è stata sinora capace di dire cosa voglia per il futuro della Libia, a parte parlare con slogan generici e vuoti e vagheggiare inutili dispiegamenti di forze ONU.
E’ forse da un quarto di secolo che l’Italia tenta di surrogare la mancanza di una reale visione in politica estera inviando contingenti militari in varie aree di crisi. Cosa giustissima se rappresentasse un “passo iniziale” propedeutico a un intervento sinergico del “sistema paese” per facilitare il consolidarsi di soluzioni politiche durature congruenti con i nostri interessi nazionali. Questo secondo passo, se c’è stato, non viene percepito.
Comunque, non si intravvedono, al momento ruoli particolarmente rilevanti che le nostre forze armate potrebbero assolvere per compensare una politica estera per troppo tempo dormiente
Sotto il profilo militare, vi sono tre aspetti citati nell’ accordo che potrebbero, in teoria, richiedere il ricorso ad assetti militari:
- il monitoraggio del cessate il fuoco (si badi bene che si parla di “monitoraggio” e non di “imposizione”);
- l’embargo sulle armi;
- il “security sector reform” (ovvero la ristrutturazione del sistema di difesa e sicurezza nazionale).
Aspetti tutti più teorici che pratici, almeno allo stato attuale.
In merito al cessate il fuoco, l’accordo richiede il ritiro delle forze nelle proprie basi (poco realistico per il momento un ritiro di Haftar), il disarmo delle milizie e la lotta al terrorismo. Peraltro, senza mai ipotizzare “come” ciò debba essere realizzato, a parte sancire che la responsabilità di supervisionare questi processi viene attribuita al Rappresentante Speciale del Segretario Generale, Ghassan Salamé, e che UNSIMIL avrà la responsabilità di coordinare i comitati tecnici che monitorizzeranno il cessate il fuoco.
Non può sfuggire che il disarmo delle milizie, la loro smobilitazione e reinserimento nella vita civile comporta processi e costi che esulano dalle capacità della Libia.
In Afghanistan, nonostante lo sforzo della Comunità Internazionale e la quantità impressionante di fondi resi disponibili (anche dal Giappone oltre che da NATO e UE), il processo di disarmo, smobilitazione e reinserimento nella vita civile non è di fatto mai stato completato.
Comunque, nessuno dei 55 punti parla di forze multinazionali schierate sul terreno, nonostante la disponibilità fornita al riguardo da più paesi europei, Italia in primis. Ci sarà una ragione!
Né tantomeno si può ipotizzare un ruolo prioritario in questo campo dell’UE, che viene citata sempre e solo insieme alla Lega Araba e all’Unione Africana. Anzi, al punto 6 dell’accordo i firmatari si impegnano a non interferire con il conflitto armato in atto né con le questioni interne della Libia e chiedono “a tutti gli attori internazionali” di fare altrettanto!
Pertanto, ove si prevedesse una forza internazionale per il monitoraggio, tale forza sarebbe “sotto comando” ONU (ovvero non una forza UE che operi “su mandato” ONU). Inoltre, trattandosi di monitoraggio, sarebbe composta da osservatori verosimilmente disarmati (come chiede il presidente turco Recep Tayyp Erdogan)
Quindi, anche nel caso di una partecipazione italiana (che assolutamente non è detto che venga concessa, dato il nostro schieramento a favore di una delle due parti) potremmo avere nel paese una presenza decisamente limitata.
In merito all’embargo delle armi, l’accordo chiede il “rafforzamento degli attuali meccanismi di monitoraggio da parte delle Nazioni Unite e delle autorità nazionali e internazionali competenti,” “compreso il monitoraggio marittimo, aereo e terrestre,” rendendo disponibili anche immagini satellitari. Inutile dire che tale forma di monitoraggio è decisamente difficile da attuare “seriamente” in quanto i movimenti terrestri (soprattutto a favore di Haftar attraverso l’Egitto) sarebbero difficili da intercettare per forze esterne (non è ipotizzabile una forza internazionale che controlli i confini terrestri libici), mentre anche la verifica di eventuali trasporti via aerea o navale ha scarsa efficacia.
Ben diverso il ricorso a immagini satellitari (che non sarebbero fornite dall’Italia) mentre non si può escludere una missione navale UE che abbia anche il compito di imporre l’embargo: in ogni caso la nostra visibilità sarebbe comunque limitata.
Nel Security Sector Reform, il documento impegna a sostenere “l’istituzione di forze nazionali, di polizia e militari libiche riunite sotto l’autorità civile centrale, sulla base di quanto emerso nei “Colloqui del Cairo”.
La riorganizzazione delle forze armate e di polizia è un settore in cui NATO e UE hanno vasta esperienza e nel quale l’Italia si è ripetutamente dimostrata in grado di assolvere un ruolo importante. Peraltro, è stato sottolineato che si opererà sulla base delle risultanze dei Colloqui del Cairo del luglio scorso. In tale occasione, ottanta uomini politici libici si erano riuniti proprio per discutere di come contrastare le interferenze esterne in Libia. Un riferimento che, per il momento, sembra aprire poco spazio a una richiesta a forze militari esterne.
Pertanto, allo stato attuale, appare decisamente prematuro parlare di un’eventuale partecipazione italiana ad una forza internazionale “di pace”, come la chiamiamo noi italiani senza mai specificare se si tratti di “monitoraggio”, “mantenimento” o “imposizione” della pace, tre cose politicamente e militarmente ben diverse!
In conclusione, ove si giungesse allo schieramento di una Forza ONU in Libia, certamente l’Italia dovrebbe avervi un ruolo (se ci sarà concesso).
Assurdo però sovrastimarne i vantaggi. Tale partecipazione non potrà riscattare l’inerzia italiana nei riguardi della Libia soprattutto se diventasse l’unica espressione della nostra politica nei confronti della ex colonia o l’alibi per continuare a interessarcene solo marginalmente.
Foto: Governo Tedesco
Antonio Li GobbiVedi tutti gli articoli
Nato nel '54 a Milano da una famiglia di tradizioni militari, entra nel '69 alla "Nunziatella" a Napoli. Ufficiale del genio guastatori ha partecipato a missioni ONU in Siria e Israele e NATO in Bosnia, Kosovo e Afghanistan, in veste di sottocapo di Stato Maggiore Operativo di ISAF a Kabul. E' stato Capo Reparto Operazioni del Comando Operativo di Vertice Interforze (COI) e, in ambito NATO, Capo J3 (operazioni interforze) del Centro Operativo di SHAPE e Direttore delle Operazioni presso lo Stato Maggiore Internazionale della NATO a Bruxelles. Ha frequentato il Royal Military College of Science britannico e si è laureato con lode in Scienze Internazionali e Diplomatiche a Trieste.