Quale ruolo per i militari italiani nella Libia sotto l’egemonia di russi e turchi?
da Il Messaggero del 14 gennaio
Cosa faranno i militari italiani in Libia se e quando ne verrà riconfigurata la missione? La risposta dipende da molti fattori ma soprattutto dalla tenuta della tregua tra le milizie di Fayez al-Sarraj e Khalifa Haftar (quest’ultimo non ha firmato per ora l’accordo di tregua prendendosi 48 ore per valutare la proposta, ma rispetta il cessate il fuoco) e dal ruolo che Turchia e Russia concederanno a italiani ed europei, ormai estromessi dai ruoli chiave in Libia..
Lo stesso premier Giuseppe Conte ha definito prematuro parlare di modifica della Missione bilaterale di assistenza e supporto in Libia (MIASIT) mentre negli ambienti Ue viene definita “da non escludere ma al momento non realistica” una missione di peacekeeping europea in Libia.
Molto improbabile che subisca modifiche la missione della Marina (circa 80 militari) che dal porto tripolino di Abu Sitta coordina e assiste tecnicamente la Guardia costiera libica nel contrasto ai flussi migratori illegali. Potrebbe invece cambiare radicalmente il compito dei militari oggi schierati a Misurata (250 militari per lo più della brigata paracadutisti Folgore) per una missione sanitaria a favore della popolazione dal valore simbolico ma che non ha più alcun senso pratico.
Teoricamente sostituire il contingente attuale con un reparto (numericamente anche più robusto) di fanteria leggera (paracadutisti, alpini, fucilieri di Marina….) adibito a compiti di pattugliamento e monitoraggio del cessate il fuoco sarebbe possibile in tempi ristretti e con limitati costi aggiuntivi rispetto ai 35 milioni stanziati per la MIASIT nel 2019 ma non è detto vi siano le condizioni politiche e operative per farlo.
Il punto più critico di ogni tregua riguarda la separazione delle forze fedeli al Governo di accordo nazionale (GNA) dalle truppe dell’Esercito nazionale libico (LNA) di Haftar.
L’ipotesi più credibile è che, come è già accaduto in Siria dopo l’accordo tra russi e turchi, si costituisca una fascia smilitarizzata lungo l’attuale linea del fronte che va dalla costa a ovest di Tripoli alla periferia della capitale fino a est di Misurata, ai sobborghi di Sirte da pochi giorni occupata dalle truppe di Haftar.
Da quanto emerso l’accordo prevede il congelamento dell’intervento militare turco al fianco di Tripoli (5mila militari e 1.600 mercenari siriani), l’invio di militari russi per la supervisione dell’attuazione dell’accordo e di una forza di interposizione dell’ONU non armata.
In quest’ultimo dispositivo potrebbe quindi inserirsi il possibile impegno militare italiano ed europeo ma il presidente turco, Recep Tayyp Erdogan ha precisato che “la presenza Onu può essere opportuna in qualità di osservatori”. In tal caso quindi si richiederebbe una presenza limitata di militari non armati, se non in modo leggero per l’eventuale autodifesa.
Partecipare alla forza dell’ONU, specie se con un numero limitato di osservatori non richiederebbe all’Italia sforzi particolari né il ritiro di truppe da altri teatri operativi quali Kosovo, Libano, Afghanistan o Iraq.
Da valutare sono piuttosto i rischi nell’inviare truppe in ambito ONU “disarmate” in un’area infestata da milizie irregolari ma anche da terroristi. Roma potrebbe inoltre fornire alla forza dell’ONU alcuni elicotteri e un aereo cargo C-27J per il trasporto e l’evacuazione di feriti oltre al supporto delle navi dell’operazione Mare Sicuro e dei droni dell’Aeronautica.
Pare comunque evidente che saranno forze di Mosca, probabilmente reparti di polizia militare come quelli schierati lungo il confine tra Turchia e Siria, a ricoprire il ruolo più rilevante nel monitorare il cessate il fuoco mentre ulteriori incognite sono rappresentate dal gradimento delle truppe italiane da parte dei due contendenti libici (le forze di Haftar hanno abbattuto il 20 novembre scorso un drone Reaper italiano) e dal fatto che in ambito Onu solitamente si tende a evitare l’impiego di truppe provenienti dai paesi che storicamente esercitarono un controllo coloniale o comunque di occupazione sul teatro di operazioni.
Gianandrea GaianiVedi tutti gli articoli
Giornalista bolognese, laureato in Storia Contemporanea, dal 1988 si occupa di analisi storico-strategiche, studio dei conflitti e reportage dai teatri di guerra. Dal 1991 al 2014 ha seguito sul campo i conflitti nei Balcani, Somalia, Iraq, Afghanistan, Sahara Occidentale, Mozambico e Sahel. Dal febbraio 2000 dirige Analisi Difesa. Ha collaborato o collabora con quotidiani e settimanali, università e istituti di formazione militari ed è opinionista per reti TV e radiofoniche. Ha scritto diversi libri tra cui "Iraq Afghanistan, guerre di pace italiane", “Immigrazione, la grande farsa umanitaria” e "L'ultima guerra contro l’Europa". Presso il Ministero dell’Interno ha ricoperto dal 2018 l’incarico di Consigliere per le politiche di sicurezza di due ministri e un sottosegretario.