A Doha gli Stati Uniti regalano ai jihadisti la vittoria più grande

Con la firma sabato a Doha dell’accordo di pace tra talebani e Stati Uniti viene impressa una svolta forse decisiva al conflitto afghano a 19 anni dall’intervento statunitense (e successivamente della NATO) che fece seguito agli attentati a New York e Washington dell’11 settembre.

L’ intesa è stata firmata dopo una settimana di tregua parziale che ha portato a una “riduzione della violenza” in Afghanistan.

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La delegazione dei talebani era composta da 31 persone mentre quella statunitense era guidata dal segretario di Stato Mike Pompeo (qui il testo suo intervento) che però non ha firmato il documento, sottoscritto dall’inviato speciale per l’Afghanistan, Zalmay Khalilzad, e dal mullah Abdul Ghani Baradar, vice capo dei talebani ed esponente del governo rovesciato a fine 2001 dall’intervento militare statunitense.

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L’ accordo prevede di giungere a un cessate-il-fuoco permanente ed al ritiro delle truppe statunitensi: entro luglio verranno rimpatriati circa 5.000 dei 13 mila soldati presenti e gli altri 8mila in 14 mesi, anche se resterà un contingente per combattere i gruppi terroristici di Stato Islamico e al-Qaeda: una forza compresa tra i 2 e i 4 mila militari, per lo più forze speciali e aeree.

In questo contesto i talebani si impegneranno a contribuire nel contrasto del terrorismo con la curiosa novità di poter già oggi immaginare la cooperazione tra americani e talebani nel combattere lo Stato Islamico del Korashan, branca afghana del Califfato.

Uno sviluppo che sarebbe davvero paradossale tenuto conto che il movimento che ha compiuto in questi 19 anni la maggior parte delle azioni terroristiche in Afghanistan è proprio quello dei talebani, che al momento non hanno peraltro assunto nessun impegno con il governo di Kabul, ritenuto da sempre “fantoccio” degli infedeli.

U.S. Marines lower their flag during a handover ceremony, as the last U.S. Marines unit and British combat troops end their Afghan operations, in Helmand October 26, 2014. REUTERS/Omar Sobhani

Non a caso, mentre si svolgeva la cerimonia in Qatar, il segretario alla Difesa Mark Esper era a Kabul per una dichiarazione comune col governo afghano in cui gli Usa hanno ribadito il loro impegno a continuare a finanziare e sostenere le forze di sicurezza afghane avvertendo che che se i talebani non onoreranno i loro impegni “gli Stati Uniti non esiteranno ad annullare l’accordo” che in realtà più che un trattato costituisce una sorta di road map.

Molti analisti vedono nell’intesa coi talebani il trionfo di Donald Trump che a nove mesi dal voto presidenziale incassa un successo di politica estera che gli consentirà di riportare a casa oltre migliaia di militari prima delle elezioni di novembre.

Impossibile però non ricordare le conseguenze di iniziative simili assunte dai suoi predecessori, dagli accordi di Parigi del 1972 che consentirono a Richard Nixon di ritirare le truppe dal Vietnam ponendo le basi per la caduta di Saigon, tre anni più tardi al ritiro affrettato di Barack Obama dall’Iraq e dall’Afghanistan (con la fine delle operazioni di combattimento alleate) che spalancarono le porte rispettivamente al successo dello Stato Islamico e alla riscossa talebana.

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Se gli accordi di Doha costituiscono un indubbio successo politico per Trump non significa che lo siano anche per gli USA e l’Occidente dal momento che i talebani hanno conseguito la più grande vittoria militare, politica e propagandistica cui un movimento jihadista potesse aspirare.

Hanno sfidato gli USA ospitando al-Qaeda e dopo 20 anni non solo Washington rinuncia a combatterli riconoscedo di fatto di non riuscire a sconfiggerli, ma firma un’intesa in cui li sdogana come partner politici e per la sicurezza dell’Afghanistan.

Il successo talebano è ingigantito inoltre dall’assenza di condizioni ideologiche nell’accordo firmato a Doha. Non c’ è infatti alcun impegno dei talebani a difendere i diritti civili, a rispettare quelli  delle donne, ad applicare la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo o a rinunciare alla più brutale applicazione della sharia.

Un successo che incoraggerà ogni movimento islamico, inclusi quelli ormai ben radicati in Europa, a difendere con maggiore forza la pretesa di legittimare e applicare queste barbare prerogative.

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Gli Usa hanno promesso anche di liberare migliaia di prigionieri talebani, fino a ieri considerati terroristi, anche se il governo afghano non sembra essere d’accordo. “Non c’ è nessun impegno da parte del governo per liberare 5mila prigionieri talebani” ha detto il presidente afghano, Ashraf Ghani.

“Questo è il diritto e la volontà del popolo afgano. Potrebbe essere incluso nell’agenda dei colloqui intra-afgani, ma non può essere un prerequisito per le trattative”, ha aggiunto Ghani. Inutile aggiungere che una spaccatura tra USA e governo di Kabul favorirebbe ulteriormente i talebani e aprirebbe il dibattito sul diritto di Washington di fare accordi con gli insorti alle spalle del governo legittimo afghano.

Tema su cui si è espresso ieri anche l’Iran. “Gli Stati Uniti non hanno il diritto legale di firmare un accordo di pace o di decidere il futuro dell’Afghanistan”, ha reso noto un comunicato del ministero degli Esteri.

Non c’è quindi da stupirsi se già alla vigilia della cerimonia di Doha i talebani cantavano vittoria. “Da questo storico hotel sarà annunciata la sconfitta dell’arroganza della Casa Bianca di fronte al turbante bianco”, aveva twittato il capo della propaganda talebana sui social media postando una foto dello Sheraton.

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Pompeo li ha invitati a moderare i toni: “so che ci sarà la tentazione di dichiarare vittoria ma essa potrà essere raggiunta solo se gli afghani potranno vivere in pace e prosperità”.

Per gli USA l’imperativo è evidentemente chiudere il più lungo conflitto della storia americana costato 2mila miliardi di dollari, la vita di oltre 3.500 soldati della coalizione dei quali 2.400 americani e di almeno 150 mila afghani di cui quasi un terzo civili.

L’alternativa all’accordo era del resto continuare a sostenere un conflitto di logoramento, a bassa intensità, con un minimo impiego di forze militari: uno sforzo limitato in termini bellici ma a quanto pare ormai inaccettabile in termini politici e sociali per l’Occidente e per gli stessi Stati Uniti.

Inoltre, mantenere forze militari in Afghanistan, comporta costi umani, finanziari e politici ormai considerati inferiori ai benefici derivanti da tale presenza.

Le conseguenze dell’intesa di Doha, pur non garantendo “pace e prosperità” all’Afghanistan, potrebbero avere una vasta portata. Se nel breve termine questo accordo potrà favorire un nuovo mandato presidenziale per Trump, a medio termine potrebbe costituire il trampolino per riportare i talebani al potere a Kabul, specie oggi che le istituzioni afghane sono debolissime dopo che la rielezione di Ghani non è stata riconosciuta dai talebani ed è stata contestata duramente dal suo rivale di sempre, Abdullah Abdullah.

A lungo termine invece, l’accordo di Doha rischia di galvanizzare il jihadismo internazionale incoraggiandolo a colpire ancor più duramente l’Occidente e i suoi interessi.

@GianandreaGaian

Foto: US DoD e US Depattment of State

 

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Giornalista bolognese, laureato in Storia Contemporanea, dal 1988 si occupa di analisi storico-strategiche, studio dei conflitti e reportage dai teatri di guerra. Dal 1991 al 2014 ha seguito sul campo i conflitti nei Balcani, Somalia, Iraq, Afghanistan, Sahara Occidentale, Mozambico e Sahel. Dal febbraio 2000 dirige Analisi Difesa. Ha collaborato o collabora con quotidiani e settimanali, università e istituti di formazione militari ed è opinionista per reti TV e radiofoniche. Ha scritto diversi libri tra cui "Iraq Afghanistan, guerre di pace italiane", “Immigrazione, la grande farsa umanitaria” e "L'ultima guerra contro l’Europa". Presso il Ministero dell’Interno ha ricoperto dal 2018 l’incarico di Consigliere per le politiche di sicurezza di due ministri e un sottosegretario.

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