Da Doha al confine greco-turco la NATO scricchiola pericolosamente
Alcuni eventi degli ultimi giorni dovrebbero indurci a guardare con occhio critico a un’organizzazione di cui l’Italia è uno dei membri più fedeli: la NATO. Lo scorso 29 febbraio a Doha (Qatar) gli USA dopo una lunga trattativa hanno siglato il cosiddetto “Accordo per portare la Pace in Afghanistan” nientemeno che con “l’Emirato Islamico dell’Afghanistan”, ovvero con i Talebani. Da notare che l’accordo è stato negoziato solo tra USA e Talebani, ma vincola anche alcune parti non presenti al tavolo: il Governo Afghano (per il quale di fatto sembra decidere Washington) e gli Alleati (NATO e partners).
In questi giorni la Turchia sta conducendo azioni ostili spingendo profughi (o presunti tali), usati come scudi umani, a forzare i confini della Grecia. Si tratta in entrambi i casi solo dell’ultimo esempio, anche se eclatante, di comportamenti analoghi tenuti ripetutamente da parte di USA e Turchia nei confronti di alleati.
Il primo evento che ho citato mi pare estremamente grave per il futuro dell’Afghanistan, in quanto per avere una “medaglia” da appuntare sul petto di Trump in vista delle prossime presidenziali, il debole Governo di Kabul viene di fatto “venduto” ai Talebani.
È vero che il segretario di Stato USA, Mike Pompeo, ha sottolineato che il processo sarà “event driven” e che se i Talebani non si atterranno ai patti, il processo verrà interrotto.
Peraltro, sappiamo tutti troppo bene che i Talebani non rispetteranno gli impegni assunti. Così come sappiamo che per gli USA “l’accordo funzionerà” comunque, indipendentemente da ciò che potrà accadere realmente intorno all’Hindukush. Il punto, però, non riguarda solo il futuro dell’Afghanistan (che richiederebbe un’analisi approfondita) ma anche la coesione dell’Alleanza Atlantica.
Gli accordi, infatti, definiscono le tempistiche per il ritiro sia degli assetti USA che di quelli dei paesi NATO (“military forces of the United States, its allies, and Coalition partners”).
Certo nessuno degli alleati desidera restare in Afghanistan, ma modalità e tempistiche del ritiro incidono sulla sicurezza dello stesso. Almeno per questo motivo, paesi che per quasi due decenni hanno inviato contingenti militari in Afghanistan, vi hanno sofferto perdite umane importanti e speso risorse finanziarie ingenti (non solo per mantenere e ruotare i contingenti là, ma anche in progetti di ricostruzione del paese e di Security Sector Reform che rischiano di andare persi dopo il ritiro occidentale) avrebbero dovuto venire consultati in merito a quanto Washington decideva per tutti.
Soprattutto avrebbe dovuto essere coinvolta “formalmente” la NATO nella sua collegialità, visto che almeno “formalmente” Resolute Support è ancora un’operazione NATO. Nulla di ciò risulta essere avvenuto. È certamente vero che ancor più avrebbe dovuto essere coinvolto il legittimo governo di Kabul del presidente Ashraf Ghani (che infatti ha già obiettato in merito al rilascio di 5.000 talebani da lui detenuti, rilascio pattuito dagli USA sembra senza il suo accordo).
Il secondo caso riguarda l’atteggiamento decisamente ostile che la Turchia di Erdogan ha assunto nei confronti della Grecia, in primis, e di tutti i paesi UE (in gran parte anche membri della NATO) utilizzando masse di disperati come arma per violarne i confini.
La cosa ha vari motivi, tra loro interconnessi, tra cui:
- la radicata ostilità di Erdogan nei confronti di un UE che, per fortuna, gli sbarra le porte ufficiali, anche se continua a riempirlo di soldi cedendo sempre arrendevolmente ai suoi ricatti;
- l’esigenza di ottenere una facile vittoria contro una UE, che sa essere imbelle, per compensare, di fronte alla propria pubblica opinione, l’andamento ben poco entusiasmante delle operazioni in Siria, che stanno comportando livelli di perdite non preventivati;
- l’atavica inimicizia con la Grecia, corroborata dal fatto che la Grecia sia stata l’unica nazione a porre il veto ad una dichiarazione di supporto (morale) della NATO alla Turchia in relazione alla sua guerra coloniale in Siria (al riguardo, ci sarebbe da vergognarsi che sia stata solo la Grecia a porre il veto).
Peraltro, la politica neo-ottomana della Turchia di Erdogan rappresenta da tempo una seria minaccia agli interessi nazionali dell’Italia e di altri membri europei della NATO (caso SAIPEM, accordi con al-Sarraj in merito alla ridefinizione della ZEE turca, interventismo militare in Libia, ecc).
Inoltre, in Siria, la Turchia sta conducendo una campagna di occupazione territoriale di sapore neo-coloniale al fianco di movimenti islamisti come l’ex Fronte al-Nusra, emanazione locale di al-Qaeda, movimento considerato da tutti gli europei terroristico mentre gli USA considerano terroristi i qaedisti in Afghanistan ma paiono più tolleranti in Siria.
In questa situazione, ci si sarebbe aspettati sia un intervento dell’Alleanza quale foro negoziale tra la Turchia e i paesi NATO (Grecia e Bulgaria) verso i quali venivano spinti i migranti sia un intervento di Washington (che a Doha si è arrogato il diritto di parlare a nome dell’intera Alleanza) nei confronti di Ankara per indurla ad assumere posizioni meno aggressive nei confronti degli alleati.
Nessuno di tali interventi ha avuto luogo.
Gli USA usano la Turchia per disturbare l’espansione russa in Siria (e in Libia) e per questo paiono disposti a non dare alcuna importanza ai suoi attriti con altri alleati e a tollerarne comportamenti che da parte di altri paesi verrebbero severamente denunciati. Inoltre, tutto ciò che danneggi l’UE e la Germania sembra andare benissimo a Trump.
“Ci sono diversi passi diplomatici che abbiamo fatto e che potremmo fare, tra cui mobilitare gli europei” a sostegno della Turchia in Siria” ha detto l’inviato speciale Usa per la Siria James Jeffrey, parlando in una conferenza stampa al termine dei suoi colloqui in Turchia con le autorità di Ankara sull’escalation militare e la crisi migratoria a Idlib.
Secondo Jeffrey, è necessario uno “sforzo collettivo, non solo da parte della Turchia e degli Stati Uniti, ma anche dei nostri alleati della Nato, in particolare gli europei”, occorre “spingere gli europei a contribuire in maniera significativa”, con “azioni simili” all’impiego della batteria di missili Patriot spagnoli nella base di Incirlik.
Inevitabile che in una situazione del genere gli europei debbano guardare sempre di più a contesti diversi dalla “vecchia” NATO per la propria politica di sicurezza. È vero che l’alternativa UE non appassiona, stante lo scarso appeal delle istituzioni di Bruxelles al giorno d’oggi e l’affermarsi, dopo la Brexit, di una leadership militare esclusivamente francese.
Né pare che la Commissione von der Leyen possa invertire questo deficit di credibilità. La debolezza dell’UE fornisce qualche margine di tempo in più all’ormai 70enne Alleanza per “curarsi”:
- in primis tornando alla consultazione tra alleati, che è stata in passato la forza dell’Alleanza;
- operando per ridurre la crescente distanza tra le due coste dell’Atlantico (e contenere gli atteggiamenti “bullistici” dell’azionista di maggioranza nei confronti dei comunque indispensabili azionisti minori);
- avendo la forza di isolare chi è ormai divenuto più un pericolo per la comunità che una risorsa, come la Turchia di oggi.
Ne saranno capaci la NATO e i suoi Stati membri? Oggi troppi cittadini europei percepiscono i leader di alcuni paesi “alleati” come ostili e non solo in campo economico (Trump) o addirittura nemici (Erdogan), mentre considerano capace di gestire con serietà le crisi nelle regioni che si affacciano sul Mediterraneo un presunto “nemico” (Putin).
Se non se ne prende atto e si pone rimedio (e non sarà facile), la NATO resterà presto solo un ricordo, certamente glorioso, ma degno dei libri di storia.
Foto NATO, EPA, Governo Greco, ISAF
Antonio Li GobbiVedi tutti gli articoli
Nato nel '54 a Milano da una famiglia di tradizioni militari, entra nel '69 alla "Nunziatella" a Napoli. Ufficiale del genio guastatori ha partecipato a missioni ONU in Siria e Israele e NATO in Bosnia, Kosovo e Afghanistan, in veste di sottocapo di Stato Maggiore Operativo di ISAF a Kabul. E' stato Capo Reparto Operazioni del Comando Operativo di Vertice Interforze (COI) e, in ambito NATO, Capo J3 (operazioni interforze) del Centro Operativo di SHAPE e Direttore delle Operazioni presso lo Stato Maggiore Internazionale della NATO a Bruxelles. Ha frequentato il Royal Military College of Science britannico e si è laureato con lode in Scienze Internazionali e Diplomatiche a Trieste.