L’Esercito ha bisogno di una Riserva per far fronte a emergenze come il Coronavirus
In questi giorni concitati molti, a tutti i livelli, dal comune cittadino agli amministratori locali, invocano l’intervento delle Forze Armate (in particolare dell’Esercito) per far fronte a varie esigenze connesse con il contenimento dell’epidemia di Covid19.
Ciò evidenzia che, nel momento del bisogno, gli italiani percepiscono le “loro” F.A. come una struttura solida su cui possono fare sempre affidamento, anche per esigenze non belliche. Merito del prestigio che i soldati italiani si sono guadagnati in anni di attività seria e professionale, portata sempre a termine in silenzio e con estrema modestia. Anche in questi tristi giorni, come sempre in passato, le Forze Armate stanno rispondendo con grande dedizione e dispiegando le elevatissime qualità individuali del personale con le stellette.
Bene! Peraltro, questa grande sfida potrebbe essere l’occasione per pensare seriamente a che tipo di Forze Armate servano all’Italia per far fronte anche a gravi emergenze interne, oltre che alla difesa degli interessi nazionali esterni del Paese. In passato, ho già avuto modo di scrivere su Analisi Difesa che, stante l’esigenza di impiegare con regolarità le F.A. per far fronte a gravi calamità sul territorio nazionale, tali eventualità dovrebbero trovare più spazio nel configurare lo strumento militare, in modo da predisporre assetti finalizzati, dimensionati e dislocati appositamente anche per tali esigenze.
Chi chiede l’intervento dei “soldati” lo fa perché li considera credibili ed efficienti, gerarchicamente organizzate ed in grado di garantire sempre e comunque l’assolvimento del compito (in virtù sia della disciplina militare su cui si reggono sia della professionalità e del senso del dovere caratteristici del personale con le stellette) e soprattutto in grado di dispiegare in tempi brevi numeri consistenti di personale, organizzato, addestrato e autosufficiente.
Mentre condivido in pieno il primo punto, temo che il secondo sia in realtà un’eredità culturale del periodo della leva (quando si disponeva di consistenti masse di manovra) e di una situazione geo-politica stabile, precedente alla “caduta del muro di Berlino”. Situazione in cui le F.A. di massima garantivano deterrenza e si addestravano, ma non venivano impiegate in operazioni reali.
Oggi il contesto è sostanzialmente diverso. L’attuale strumento militare è molto più ridotto nei suoi numeri complessivi (165mila uomini e donne tra Esercito, Marina e Aeronautica, ma di fatto gran parte delle aspettative si riferisce all’Esercito e ai suoi 90mila uomini scarsi) ed è strutturato essenzialmente per operare nel quadro di interventi armati per la difesa degli interessi nazionali.
Attività questa che, nel contesto geo-strategico attuale, richiede soprattutto la capacità di credibili proiezioni di potenza all’estero. Ovvero, volumi di personale ridotti ma di elevata specializzazione e supportati da tecnologia bellica sofisticata. Personale che deve essere addestrato (tecnicamente, psicologicamente e fisicamente) ad assolvere contemporaneamente diverse funzioni in territorio ostile.
Mi spiego: il geniere che deve realizzare una Forward Operating Base (FOB) in Afghanistan deve essere anche in grado di combattere quando quella FOB viene attaccata, utilizzando sia l’armamento individuale sia tutta la serie di armi di reparto disponibili. Lo stesso discorso vale per l’infermiere, il meccanico di mezzi corazzati e così via.
Ciò non è quanto, invece, viene chiesto alle F.A. (e soprattutto all’Esercito, che è la forza armata più presente sul territorio) in casi di emergenza interna.
Per esempio, l’emergenza sanitaria che stiamo sperimentando o anche in caso di cataclismi naturali di dimensioni estese, ciò che ci si aspetta dalle F.A. è, di norma, la capacità di mobilitare e schierare sul terreno in tempi brevissimi numeri anche consistenti di militari per assolvere, ciascuno, funzioni specifiche e abbastanza ben definite. In tali contesti, non c’è bisogno che chi monta un ospedale da campo lo sappia anche difendere né che il soldato che effettua la “cinturazione” di una zona soggetta a quarantena sanitaria sia addestrato all’uso, ad esempio, di armi controcarro.
È ben chiaro che nell’immediato occorra attingere appieno alle risorse disponibili nei reparti operativi, anche a rischio di annichilirne temporaneamente tutte le attività, a parte quelle che assolutamente non possono essere interrotte (quali a puro titolo di esempio e senza voler essere esaustivo, la difesa dello spazio aereo nazionale, le operazioni militari in corso fuori dal territorio nazionale, ecc).
Peraltro, è davvero questo il modo più funzionale di affrontare strutturalmente il problema? Personalmente non credo. Mi concentrerò sull’Esercito, perché in occasione di tali emergenze Aeronautica e Marina continuano a fornire un contributo in linea con quella che è la loro attività operativa. Infatti, il trasporto di materiale sanitario o di personale malato sarà effettuato con vettori ad ala fissa o rotante (e relativi equipaggi) normalmente destinati a MEDEVAC o comunque al trasporto e non vi si impiegheranno gli F35 o i Mangusta. Ciò non per preservare tali assetti nel loro ruolo di combattimento ma semplicemente perché non sarebbero assolutamente idonei alla funzione. Così non è per il personale dell’Esercito.
Vi sono da fare considerazioni di natura sia quantitativa sia qualitativa dello strumento militare terrestre. Sappiamo che l’Esercito è stato drasticamente ridotto nei numeri. La legge 244 del 2012 prevede per l’Esercito un volume organico di 89.400 unità. Tali numeri sono adeguati anche a far fronte a un prolungato impiego per una grave crisi interna, conservando nel contempo le proprie capacità operative peculiari?
A puro titolo di esempio, se per assurdo e per un’emergenza sull’intero territorio nazionale si ipotizzasse di rinforzare anche con solo con 10 soldati ognuna delle oltre 4.500 stazione dei Carabinieri presenti sul territorio nazionale, per coadiuvare le forze di polizia nei controlli sulla popolazione (incremento che sarebbe comunque ben poco rilevante), ciò comporterebbe l’impiego di oltre il 50% del personale dell’Esercito e ne annullerebbe qualsiasi residua capacità operativa credibile.
Gli impegni operativi esterni della F.A. continueranno e richiederanno personale addestrato e adeguatamente supportato dalla madrepatria.
Se vi sono interessi nazionali seri (e cio sono) per mantenere contingenti in Afghanistan, Iraq, Kosovo, Libano, Libia, Mali, ecc… questi interessi andranno salvaguardati anche se in patria ci si deve confrontare con un’epidemia o con gravi cataclismi naturali. Anzi, tali interessi andranno salvaguardati persino con maggiore determinazione, stante la momentanea maggior vulnerabilità del Paese. Se invece in questi territori non avessimo interessi da salvaguardare (interessi che siano puramente nazionali o collettivi delle alleanze di cui l’Italia fa parte), forse non dovremmo essere là neanche oggi. Questo, però, è un altro discorso.
Occorre tener presente che molte unità sono ad alta specializzazione tecnologica (si pensi tra le altre alle unità di artiglieria contraerea SAMP-T, alle unità per la difesa NBC, ecc…) e non possono essere distolte da propri compiti per lunghi periodi senza che ciò si rifletta in una perdita di capacità operativa (e in una grave perdita di professionalità almeno dei comandanti di minore livello). Altri reparti sono caratterizzati da un’elevata valenza “combat” (si pensi a paracadutisti, lagunari, “advance combat reconnaissance teams” del genio, ecc.) e analogamente il prolungato impiego in attività di mero controllo del territorio inciderebbe sul mantenimento della loro peculiare capacità operativa.
Intendiamoci, mentre all’insorgere di una grave situazione di crisi è doveroso che (salvaguardate alcune attività già menzionate) l’intero strumento militare sia reso disponibile per far fronte all’emergenza, questa potrebbe non risultare la soluzione più funzionale se comportasse una sottrazione di personale a lungo termine.
Preso atto che oggi come oggi non ci sono alternative e dopo esserci congratulati con l’intero Dicastero della Difesa per come sta operando, in situazioni anche psicologiche estremamente difficili, occorre però riconoscere che l’attuale strumento militare italiano non è forse strutturato e dimensionato nel modo più idoneo per far fronte a situazioni di grave e prolungata emergenza interna, come quella con cui la Nazione si sta confrontando e con cui potrebbe doversi confrontare di nuovo in futuro.
Avendo (per molte valide ragioni) optato per Forze Arnate snelle, professionali e altamente specializzate per far fronte, prioritariamente, ad interventi esterni (modello “expeditionary force”), vengono oggi a mancare i grandi numeri che sarebbero utili per far fronte a gravi e prolungate crisi interne.
Mentre non avrebbe senso incrementare i volumi organici delle forze “regolari”, potrebbe essere opportuno costituire un serbatoio di “riservisti” che possano essere richiamati quando ve ne sia l’esigenza, sia per incrementare i volumi di personale prontamente schierabile sia per non congelare troppo a lungo forze a più elevata operatività, che dovranno continuare ad assolvere le proprie funzioni.
L’impiego di tali unità di “riservisti” potrebbe essere previsto per esigenze che possono manifestarsi sotto forma di grave crisi sanitaria (come ora), ataclismi naturali, eccetera, ma eventualmente anche per quella che una volta era chiamata “difesa interna del territorio”.
Oggi le forze operative terrestri hanno una connotazione fortemente orientata ad un conflitto, convenzionale o asimmetrico, con un modello incentrato sulla “Brigata”, ovvero su una task-force pluri-arma permanente.
Per contro, le esigenze in caso di emergenza sanitaria, calamità naturale anche difesa interna del territorio in caso di conflitto esterno possono richiedere tipologie di unità diverse, i cui componenti possono anche non essere “multi-tasking” ma “single-tasking”.
Guardando ai concorsi richiesti all’Esercito nel caso dell’epidemia di Covid19 o dei recenti casi di calamità naturali, si evince che l’esigenza sarebbe quella di poter disporre di diverse varietà di moduli capacitivi da attivare a seconda dell’esigenza. Senza alcuna presunzione di essere esaustivo, citerei a mero titolo di esempio:
- capacità di schierare, montare e gestire ospedali da campo in zone dove le normali strutture sanitarie non riescano a far fronte all’esigenza,
- realizzazione ed eventuale gestione di “accantonamenti” e accampamenti” per ospitare persone che in seguito all’emergenza hanno dovuto abbandonare le proprie case,
- trasporto e distribuzione di “materiali critici”, intendendo essenzialmente materiali che, stante la loro appetibilità possano dover essere protetti con l’uso delle armi (medicinali salva vita, o anche viveri in situazioni di scarsità degli stessi, ecc.)
- impiego di personale armato per “cinturare” aree da cui non si deve uscire o non si deve entrare,
- impiego di assetti specialistici per la bonifica (biologica o chimica) del territorio
- soccorso alle popolazioni colpite e rimozione macerie;
- ripristino della viabilità interrotta e messa in opera di ponti militari;
- vigilanza e sicurezza di infrastrutture ritenute strategiche in relazione alla tipologia di emergenza.
Operando all’interno del territorio nazionale in situazione certamente di “crisi”, ma non di “combattimento”, i singoli “moduli” potrebbero essere “mono – specialistici” e potrebbero essere attivati “à la carte” sulla base dell’evoluzione della situazione.
Una specie di grande “cassetta degli attrezzi”, da cui prendere solo ciò che serve e per il tempo che serve.
Ciò consentirebbe periodi addestrativi di base abbastanza contenuti seguiti da richiami addestrativi periodici e il costante mantenimento dei moduli (a rotazione) a livelli di prontezza predefiniti, in modo da poter contare in ogni momento sulla disponibilità di moduli pre-allertati per un eventuale impiego.
Il livello di prontezza dei singoli moduli potrebbe essere relativamente “rilassato” in quanto l’intervento immediato verrebbe portato a termine dalle unità in servizio permanente. Senza tentare di inventare l’acqua calda, qualche idea può essere presa dall’estero e in particolare da nazioni che storicamente hanno avuto forze armate professionali e un approccio “expeditionary”: USA e Regno Unito.
Il Regno Unito ha l’Army Reserve (quella che fino a non molti anni fa era chiamata molto efficacemente Territorial Army) e gli USA hanno la National Guard.
L’Army Reserve britannica fornisce circa il 25% dell’Esercito Britannico (27.200 riservisti a fronte di 79,300 “Regolari”, considerando per entrambe le categorie solo il personale già addestrato).
La US National Guard (450mila effettivi) anche se invia propri assetti nelle operazioni esterne viene di norma attivata per esigenze interne sul territorio nazionale o nei singoli Stati dell’Unione su disposizioni dei governatori.
È chiaro che sia l’Army Reserve britannica che la National Guard statunitense in caso di conflitto dovranno integrare le F.A. regolari in operazioni. Un’ esigenza che potrebbe emergere anche in Italia dove però oggi sarebbe più semplice, più veloce e meno costoso porre in essere (almeno come passo iniziale) forze di “riserva” finalizzate ai soli compiti interni.
Alle “unità della Riserva” potrebbero essere attribuiti prioritariamente compiti di protezione civile ma anche di supporto alle forze dell’ordine quando ciò non richieda particolari capacità “combat” (es: l’“operazione “Strade Sicure“ che vede impegnato l’Esercito con oltre 7mila effettivi in attività talvolta di mero di piantonamento, con innegabili riflessi negativi sulle capacità operative dei reparti impegnati).
Ovviamente il personale, che avrebbe una sua occupazione civile, dovrebbe essere adeguatamente garantito in termini sia stipendiale sia di mantenimento del posto di lavoro quando venisse convocato per esercitazioni o per esigenze reali. Cosa non facile, ma sicuramente fattibile anche in Italia.
Al riguardo, oltre agli esempi USA e UK, si può far riferimento anche alle legislazioni di numerosi paesi europei che hanno una tradizione di “milizie” (Svizzera, ovviamente, ma anche Austria, Finlandia e Svezia).
L’addestramento di base, l’inquadramento in unità “specialistiche”, il mantenimento e stoccaggio di attrezzature specifiche (ad esempio materiale per allestimento ospedali da campo o tendopoli), dei mezzi e degli eventuali armamenti sarebbero responsabilità dell’organizzazione territoriale della F.A. (che oggi ridotta al lumicino dovrebbe essere un po’ rinforzata per farvi fronte) e di unità operative “gemellate“ con quelle di “riservisti”. La dislocazione dovrebbe essere studiata in modo da garantire l’omogenea copertura areale dell’intero territorio nazionale.
I quadri potrebbero essere in parte riservisti essi stessi e in parte personale effettivo (in incarichi chiave: comandanti, aiutanti maggiori, consegnatari dei materiali, ecc).
Per l’intelaiatura dell’organizzazione si potrebbe attingere, per graduati e sottufficiali, dal personale ”meno giovane” attualmente presente nelle unità operative, che come sappiamo avrebbero urgente bisogno di una seria politica di svecchiamento e di ricambio generazionale di cui abbiamo già parlato su Analisi Difesa.
Per gli ufficiali si potrebbe individuare una policy che si ispiri a quella già adottata, sembrerebbe con successo, per la “Riserva Selezionata” .
Circa la “difesa interna del territorio”, fino all’inizio degli anni ’90 si dava importanza anche alle pianificazioni e alle forze destinate a garantire la sicurezza interna del territorio nazionale in caso di conflitto, poi l’esigenza è stata in un certo senso dimenticata. È chiaro che in caso di eventuale situazione conflittuale che si sviluppi anche esterno al territorio nazionale, quest’ultimo potrà essere oggetto di attacchi (convenzionali, non convenzionali, o terroristici).
Una parte delle forze che servirebbero per garantire la sicurezza interna in caso di conflitto esterno sarebbero in gran parte analoghe a quelle di “riservisti” che abbiamo ipotizzato per gli eventi calamitosi, ad esempio: moduli per la sicurezza degli assetti strategici, moduli sanitari, moduli per l’assistenza di eventuali profughi, moduli per il ripristino e il mantenimento degli assi di comunicazione.
Certo, ci sarebbero innumerevoli problemi da affrontare e non avrebbe senso qui tentare di delineare troppo nel dettaglio possibili soluzioni operative. Resta il fatto che in Italia quando c’è un’emergenza c’è regolarmente richiesta di militari e soprattutto dell’Esercito per far fronte con efficienza ai compiti più disparati. È un segno del prestigio di cui l’istituzione militare gode nel paese.
Fiducia dei cittadini che non può essere tradita mentre, d’altra parte, non si possono sottrarre metodicamente unità elevata prontezza al co battimento dai loro compiti senza che la loro efficienza ne risenta.
Last but not least, in un’epoca in cui non c’è più l’osmosi tra mondo militare e società civile che era a suo tempo garantita dal servizio di leva, questi riservisti potrebbero divenire lo strumento principale per garantire tale osmosi indispensabile sia per la società civile sia per uomini e donne con le stellette.
Foto Esercito Italiano
Antonio Li GobbiVedi tutti gli articoli
Nato nel '54 a Milano da una famiglia di tradizioni militari, entra nel '69 alla "Nunziatella" a Napoli. Ufficiale del genio guastatori ha partecipato a missioni ONU in Siria e Israele e NATO in Bosnia, Kosovo e Afghanistan, in veste di sottocapo di Stato Maggiore Operativo di ISAF a Kabul. E' stato Capo Reparto Operazioni del Comando Operativo di Vertice Interforze (COI) e, in ambito NATO, Capo J3 (operazioni interforze) del Centro Operativo di SHAPE e Direttore delle Operazioni presso lo Stato Maggiore Internazionale della NATO a Bruxelles. Ha frequentato il Royal Military College of Science britannico e si è laureato con lode in Scienze Internazionali e Diplomatiche a Trieste.