Navi ospedale per affrontare meglio l’epidemia di Coronavirus
L’emergenza Coronavirus è in questi giorni caratterizzata da alcuni elementi ormai evidenti. Il rischio di collasso degli ospedali a causa del bilancio di vittime e contagiati che necessitano di cure intensive, la ventilata possibilità di dover scegliere chi curare in base ad età e probabilità di sopravvivenza e le previsioni degli esperti di un picco epidemico atteso per metà aprile.
Per alleggerire la situazione nei reparti ospedalieri, in Italia è impensabile poter costruire nuovi ospedali in poche settimane come è stato fatto in Cina, ma una soluzione su cui poter ragionevolmente puntare è l’impiego di navi ospedale come quelle in dotazione alla Marina statunitense. Una sola grande nave ospedale (noleggiata dall’US Navy o ottenuta adattando grandi traghetti, transatlantici o navi da crociera) ormeggiata in porto consentirebbe di ricoverarvi i pazienti più o n meno gravi – a discrezione dei medici – garantendone l’isolamento e liberando così posti letto nei reparti di rianimazione e terapia intensiva degli ospedali.
Cenni storici sulle navi ospedale
Navi adibite al ruolo di ospedale esistono dalla notte dei tempi. Therapia ed Aescalapius – dio della medicina – erano i nomi di due navi, rispettivamente della marina ateniese e romana, che difficilmente lasciano immaginare un ruolo diverso.
Nel corso dei secoli una particolare attenzione allo sviluppo di nosocomi galleggianti è stata prestata dalla Gran Bretagna, da sempre orientata al dominio dei mari. La prima traccia oltremanica risale al 1608 con il vascello Goodwill, adibito ad imbarcare i malati delle altre unità della squadra navale a cui era in forza.
Per avere unità specificamente destinate a nave ospedale si dovrà attendere almeno la metà del diciassettesimo secolo con mercantili noleggiati o vecchie navi opportunamente riconvertite per ottenere più spazio ed una maggior ventilazione; ma soprattutto con i primi chirurghi ed equipe mediche a bordo.
A causa delle condizioni ancora rudimentali, queste strutture erano più destinate ad accogliere malati e persone in quarantena che non feriti. Non sono però mancate le eccezioni: l’evacuazione di Tangeri nel 1683 con 114 feriti imbarcati sulle navi Unity e Welcome (nell’immagine sopra).
Alla vigilia della guerra con la Francia del 1689 l’Inghilterra aveva due navi ospedale, aumentate poi a quattro nel 1691 e a sei nel 1696.
Con il passare del tempo sempre più navi sono state riconvertite in ospedali, così come sono aumentati i numeri del personale medico a bordo ed il livello degli standards sanitari. Dal 1742 al 1828 ospedali galleggianti – pulmonare – sono stati ancorati nei principali porti britannici, i cui equipaggi avevano anche il compito di vigilare su quelle navi poste in quarantena per proteggere il Paese da epidemie ed infezioni.
Ed è proprio alla febbre gialla portata da marinai stranieri che si deve la nascita del primo ospedale galleggiante d’America. Nel 1859, all’urgente richiesta di un posto dove curare i contagiati a cui era vietato l’accesso a strutture sulla terra ferma, il dottor William Adison, recentemente tornato dall’Inghilterra dove aveva studiato sull’ospedale galleggiante Caledonian, ha proposto tale soluzione.
Il 17 maggio 1866 è stata schierata la prima nave ospedale italiana. Il piroscafo Washington (nella foto sopra), trasformato in modo da accogliere 100 posti per ricovero, è stato affidato al comando del luogotenente di vascello Zicavo. Inserito nella squadra dell’ammiraglio Persano, il Washington ha avuto un importantissimo ruolo nella battaglia di Lissa.
L’unico ospedale britannico per le truppe di Sua Maestà impegnate nella Guerra di Crimea era a Scutari, vicino allo stretto dei Dardanelli. Durante l’assedio di Sebastopoli circa 15.000 feriti vi sono stati trasportati dal porto di Balaklava, attraverso uno squadrone di navi ospedale.
Durante le guerre mondiali le navi ospedale sono state utilizzate in maniera massiccia. La Royal Navy alla fine della Prima ne aveva 77 in servizio; durante la Campagna di Gallipoli hanno evacuato circa 100.000 feriti.
Nonostante la protezione riconosciuta alle navi ospedale dalla X Convenzione dell’Aia del 1907, il 1° febbraio 1917 la Germania ha dichiarato guerra totale a qualunque naviglio alleato o neutrale all’interno di una determinata area. Delle 11 navi ospedale britanniche (sotto la HMHS Mauretania) affondate durante la Prima guerra mondiale, cinque lo sono state dopo tale dichiarazione.
Per quanto riguarda la Seconda guerra mondiale sia la Marina che l’Esercito degli Stati Uniti hanno impiegato navi ospedale, ma con compiti diversi. Quelle della Marina erano veri e propri ospedali per feriti provenienti direttamente dai campi di battaglia e per fornire supporto logistico alle squadre mediche al fronte. Quelle dell’Esercito, invece erano equipaggiate principalmente per trasferire i feriti dagli ospedali in prima linea a strutture più arretrate o direttamente negli Stati Uniti.
Grazie alle proprie navi ospedale la Regia Marina italiana, durante il Secondo conflitto mondiale, ha portato a termine ben 596 missioni, 115 uscite per soccorso a naufraghi ed ha ospedalizzato e rimpatriato 250.000 tra feriti ed infermi. Su di una forza di 18 navi, 12 sono state affondate dal nemico.
L’ultimo royal yatch britannico, il HMY Britannia era stato dichiaratamente costruito in modo da esser facilmente riconvertito in nave ospedale in caso di guerra. In realtà il suo ruolo sarebbe stato quello di rifugio per Sua Maestà in caso di attacco nucleare; riparando tra i fiordi della Scozia occidentale.
Durante la guerra delle Falklands, la Royal Navy ha requisito la nave da crociera SS Uganda (nella foto sopra) per riconvertirla a nave ospedale assieme alle navi oceanografiche HMS Hydra, Hecla e Herald da utilizzarsi come ambulanze. La SS Uganda ha lasciato Gibilterra con 136 operatori medici a bordo, assumendo il nome in codice Mother Hen. I primi feriti imbarcati sono stati quelli dello HMS Sheffield. Durante tutta l’operazione militare, sulla nave sono stati medicati 730 feriti; 150 dei quali prigionieri argentini.
Attualmente, navi ospedale sono in servizio presso le marine militari di numerosi Paesi: Brasile, Cina (la “Arca della Pace” nella foto sopra), Russia, Stati Uniti, India, Perù e Vietnam.
Ma anchepresso altri organismi governativi come il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali spagnolo con le sue navi Esperanza del Mar e Juan de la Cosa per il supporto nelle zone di pesca d’altura oppure ONG come l’americana Mercy Ships con la sua MV Africa Mercy.(foto qui sotto), un ex traghetto.
Addirittura, fino a qualche anno fa anche la società di contractors Blackwater di Erik Prince era pronta ad offrire sul mercato la propria Mv MacArthur.
USNS Mercy e USNS Comfort
Le navi ospedale più grandi attualmente in servizio sono la USNS Mercy e la USNS Comfort della Marina degli Stati Uniti. Appartenenti alla classe Mercy, di cui l’omonima è appunto l’unità capoclasse, sono state concepite per prestare cure d’emergenza a forze combattenti e supportare operazioni umanitarie e di soccorso in caso di calamità naturali.
Identiche e nate come petroliere classe San Clemente nella prima metà degli anni 70, sono state riconvertite in navi ospedale ed entrate in servizio come tali tra il 1986 ed il 1987. Con una propulsione di 24.500 cavalli, un dislocamento di 69.360 tonnellate, 272 m di lunghezza e 33 m di larghezza sono approssimativamente grandi come una grande portaerei. L’equipaggio a pieno regime è di circa 71 civili e fino a 1200 tra personale medico e addetti alle comunicazioni.
Le due navi dispongono di 12 sale operatorie e 1.000 posti letto di cui 80 in terapia intensiva ciascuna. Sono dotate di pronto soccorso, radiologia, odontoiatria, farmacia, centrale di sterilizzazione, fisioterapia e reparto grandi ustionati, optometria ed oftalmologia, fotografia diagnostica, laboratori vari ed obitorio.
Sono equipaggiate, inoltre con due sistemi per la produzione di ossigeno ed impianti di dissalazione per ottenere acqua potabile – 1.100.000 litri al giorno. Un ampio ponte di volo consente, infine l’atterraggio di grandi elicotteri militari come i CH-47 CH-53D o UH 60.
Oltre al supporto durante operazioni militari come la guerra del Golfo, le due navi ospedale sono state impiegate nelle operazioni di soccorso dell’11 Settembre, degli uragani Katrina nel 2005 e Maria nel 2017, del terremoto di Haiti – tra il 19 gennaio e 28 febbraio 2010 lo staff medico ha curato 1.000 haitiani ed eseguito 850 operazioni chirurgiche – e tutta una serie di periodiche missioni umanitarie itineranti a sostegno di partner caraibici e dell’America Latina.
Una delle più recenti si è svolta tra il giungo e novembre 2019 supportando quei Paesi interessati dalla crisi dei profughi venezuelani in fuga dal loro Paese.
Nella fattispecie, decongestionando strutture sanitarie di Colombia, Costa Rica, Repubblica Dominicana, Ecuador, Grenada, Haiti, Jamaica, Panama, Perù, Santa Lucia, St. Kitts e Nevis e Trinidad e Tobago.
La USNS Comfort, di base sulla costa orientale degli Stati Uniti, a Norfolk è quella che farebbe al caso nostro (qualora il governo italiano decidesse di rivolgersi agli Stati Uniti per un supporto contro il Coronavirus) perché più vicina. La USNS Mercy, invece si trova sulla costa occidentale, a San Diego: troppo lontana.
Considerando che si trova attualmente in porto, che l’approntamento richiede 5 giorni, la distanza da percorrere e la velocità massima di 17,5 nodi – 32,4 km/h, la USNS Comfort potrebbe raggiungere le acque territoriali italiane nel giro di 20-25 giorni; un mese al massimo.
Questa potrebbe esser una soluzione valutabile, ottimale, considerando anche l’approssimarsi dell’esercitazione NATO, Defender Europe 20.
Una soluzione italiana?
Sebbene la Marina militare italiana non disponga di una vera e propria nave ospedale, diverse unità navali in servizio sono comunque dotate di strutture sanitarie ed ospedaliere a bordo. L’ammiraglia Cavour, ad esempio dispone di due sale operatorie, una sala terapia intensiva, una sala ustionati, tre sale per degenza, due ambulatori, una sala radiologica-Tac, un laboratorio odontoiatrico e una farmacia, per un totale di 32 posti letto.
Ancora, la nave da rifornimento Etna (nella foto sotto) dispone di un’unità di supporto sanitario, con un’area ospedaliera attrezzabile fino alla classificazione NATO di livello Role 2+, vale a dire la possibilità di effettuare visite mediche e terapie ambulatorie e d’emergenza, terapie odontoiatriche d’urgenza, esami radiologici e di laboratorio, interventi chirurgici salvavita e salva arti e terapia precoce delle ustioni.
Considerando che anche le corrispettive unità americane più grandi arrivano alla disponibilità di posti letto per un massimo di 50-60 degenti, siamo ben lontani dai 1.000 posti letto di specifiche navi ospedale come le USNS Comfort e Mercy.
In alternativa si potrebbe valutare il noleggio o la requisizione di una nave da crociera o di un grosso traghetto, proprio come hanno fatto i britannici con la SS Uganda in occasione del conflitto delle Falkland/Malvinas.
Procedendo immediatamente, con la collaborazione di personale ed attrezzatura della sanità militare, Croce Rossa Italiana, Protezione Civile e quelle organizzazioni non governative che manifestassero interesse a collaborare (Medici Senza Frontiere, Emergeny, ecc) in poche settimane si potrebbe allestire una nave ospedale. Una nave che, ormeggiata a Porto Marghera o nel porto una città ligure, potrebbe accogliere centinaia di malati alleggerendo gli ospedali del Nord.
Riducendo oltretutto al minimo le possibilità di contagio. Una parte delle cabine – la MSC Grandiosa ne ha 2.444 per un numero massimo di 5.714 passeggeri – potrebbe esser utilizzata anche per alloggiare medici infermieri e tutto il personale necessario.
Una soluzione navale consentirebbe, nella malaugurata eventualità che il contagio raggiungesse livelli critici in tutta Italia, di poter raggiungere con la massima flessibilità altre località lungo tutta la Penisola, compensando le carenze di infrastrutture sanitarie soprattutto nel Meridione.
L’importante è però muoversi in fretta per disporre al più presto di una reale capacità ospedaliera galleggiante puntando sul noleggio di navi ospedale straniere già esistenti o sul rapido refitting di navi italiane attualmente adibite ad altri compiti, coinvolgendo anche l’industria cantieristica nazionale.
Una soluzione d’emergenza resa necessaria non solo dal Coronavirus ma a che dalle drammatiche conseguenze delle politiche di austerity e spending review che in dieci anni hanno determinato tagli alla sanità pubblica per 37 miliardi, la perdita di 70.000 posti letto e la chiusura di 359 reparti.
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Pietro OrizioVedi tutti gli articoli
Nato nel 1983 a Brescia, ha conseguito la laurea specialistica con lode in Management Internazionale presso l'Università Cattolica effettuando un tirocinio alla Rappresentanza Italiana presso le Nazioni Unite in materia di terrorismo, crimine organizzato e traffico di droga. Giornalista, ha frequentato il Corso di Analista in Relazioni Internazionali presso ASERI e si occupa di tematiche storico-militari seguendo in modo particolare la realtà delle Private Military Companies.