Il rafforzamento della presenza militare giapponese nell’area del Golfo Persico
Il Giappone si conferma come nuovo attore di peso internazionale in Medio Oriente. All’inizio di febbraio Tokyo ha inviato una nave da guerra dalla base navale di Yokosuka verso il Golfo dell’Oman, il cacciatorpediniere Takanami con un elicotteri SH-60 e 250 militari di equipaggio.
L’operazione nella regione del Golfo Persico, per ora della durata di un anno, era iniziata il 20 gennaio con l’invio di 2 aerei di pattugliamento P-3C delle Forze di Autodifesa Marittima (provenienti dalla Naha Air Base nell’isola di Okinawa) con compiti di sorveglianza marittima e intelligence, rischierati con 260 militari sulla base giapponese istituita a Gibuti nel 2009 e che ha già ospitato in più occasioni gli Orion impegnati a sorvegliare gli spazi marittimi dell’Oceano Indiano in funzione anti-pirateria.
A prescindere dalla definizione, si tratta a tutti gli effetti di una missione militare che preannuncia una svolta epocale. Fa infatti parte di un piano di medio lungo termine volto a rafforzare il controllo strategico di una regione strategica che è divenuta fondamentale gli interessi economici, energetici e di difesa di Tokyo.
Il piano prevede l’opportunità di accrescere non solo la propria influenza nelle acque del Golfo e zone limitrofe ma anche di guadagnarsi la reputazione di credibile stabilizzatore nella regione.
Già da anni i nipponici hanno riscoperto una proiezione panasiatica e globale sostenuta da cospicui investimenti nel settore della difesa e sicurezza e dall’azione diplomatica su larga scala.
Per quest’anno il budget della Difesa di Tokyo dovrebbe attestarsi attorno ai 50 miliardi di dollari, dopo quasi un decennio di crescita costante. Alla fine del 2018 il premier giapponese Shinzo Abe aveva presentato un piano di riarmo senza precedenti in cui si prevedeva una spesa militare per 215 miliardi di euro per il quinquennio 2019- 2024.
Anche la vocazione globale del Sol Levante si era palesata a dicembre 2018, quando il ministero della Difesa giapponese aveva presentato nel quadro di ampie linee-guida le nuove priorità strategiche. Il Medio Oriente era emerso come una delle aree chiave in cui la nuova politica estera di Tokyo auspicava di espandersi. Oltre a definire le aree geografiche di primario interesse, il documento delineava anche un rafforzamento delle capacità difensive giapponesi in senso “multidimensionale”.
L’attuale missione ha come obiettivo primario e dichiarato quello di proteggere le proprie navi mercantili nipponiche in Medio Oriente garantendone il passaggio sicuro attraverso il Golfo dell’Oman. In caso di emergenza, il ministro della difesa giapponese potrà emettere un ordine speciale per consentire alle forze militari di utilizzare le armi per proteggere eventuali navi in pericolo nella regione.
La missione potrebbe alimentare il già fervente dibattito rispetto ai limiti dell’impiego delle forze militari del Giappone ed alla sua legittimità considerando che la Costituzione del dopoguerra impegna infatti Tokyo ad avere capacità strettamente difensive, mentre il premier Shinzo Abe già da tempo si batte per allargare gli spazi di operatività della Forze di Autodifesa (jieitai) e per una revisione dell’articolo 9.
Alla vigilia della partenza della nave da guerra Abe ha tenuto un discorso all’equipaggio nel quale ha dichiarato: “Assicurare l’incolumità delle nostre imbarcazioni è un compito importante per il governo”. Gli aerei di pattugliamento P-3C servono essenzialmente per scopi di intelligence, ossia per la raccolta di informazioni necessarie a preservare il passaggio attraverso il Golfo. I velivoli tra l’altro sono gli stessi che erano stati utilizzati nel 2009 sopra il Golfo di Aden nell’ambito della missione anti-pirateria nelle acque davanti alla Somalia, a conferma del fatto che l’impegno nipponico nel Mare Arabico non è certo una novità.
Dietro alla decisione giapponese vi sono naturalmente le tensioni tra Iran e Stati Uniti, mentre sullo sfondo rimane la strategia di penetrazione cinese che USA e il Giappone hanno interesse a contrastare.
Le operazioni giapponesi sono affiancate da uno sforzo diplomatico multidirezionale imponente. Il premier giapponese aveva già informato il presidente iraniano Hassan Rouhani riguardo al piano di Tokyo di inviare forze navali nel Golfo dell’Oman durante la visita di Stato a Tokyo del 20 dicembre, prima che il documento governativo fosse reso pubblico il 27 dicembre.
L’anno scorso, la visita del primo ministro giapponese a Teheran (la prima di un leader del governo nipponico in 40 anni) era stata l’occasione per discutere i rapporti bilaterali e la questione del nucleare con il leader supremo, Khamenei, e lo stesso Rouhani. Ne era emersa la volontà di Shinzo Abe di incrementare l’influenza del Giappone nello scenario internazionale ponendosi come mediatore tra i due principali contendenti, Stati Uniti e Iran.
Pur se alleato degli USA, il Giappone ha deciso di mantenere legami amichevoli con l’Iran, per questo la missione navale nipponica va letta come espressione della volontà di Tokyo di perseguire una politica estera nel Golfo e nell’intera regione sempre più indipendente e svincolata dai dettami di Washington.
Le attività di pattugliamento giapponesi interessano il Golfo di Oman, il Mare Arabico settentrionale e il Golfo di Aden, ma non (almeno per il momento) lo Stretto di Hormuz, attraverso il quale passa gran parte del commercio petrolifero globale, secondo quanto si desume dal documento governativo di dicembre e precedentemente dichiarato dal segretario di Gabinetto Suga.
Con l’arrivo della nave militare nipponica, le acque in quella regione si fanno ancora più affollate. Solo pochi giorni prima dell’invio del cacciatorpediniere è stata avviata un’operazione multinazionale a guida francese per la sorveglianza dello stretto di Hormuz, la European Maritime Awareness in the Strait of Hormuz (EMASOH).
Gli obiettivi di EMASOH comprendono una valutazione indipendente della situazione nell’area, il monitoraggio dell’attività marittima e la garanzia della libertà di navigazione (finora hanno aderito all’operazione anche i governi di Belgio, Danimarca, Germania, Grecia, Olanda, Portogallo e Italia).
L’operazione di mantenimento della sicurezza marittima nell’area del Golfo si affianca a quella già attiva a guida USA, Operation Sentinel, che coinvolge lo stretto di Hormuz, il Golfo di Oman e lo Stretto di Bab el Mandeb e si pone come un’operazione internazionale per garantire una navigazione libera e sicura lungo le principali rotte marittime del Medio Oriente (gli Stati Uniti hanno finora raccolto i consensi di Australia, Bahrain, Arabia Saudita, Emirati Arabi, Albania e Regno Unito).
E’ singolare che Tokyo abbia deciso di avviare una propria operazione piuttosto che unirsi a una missione già esistente come quella guidata dagli USA per proteggere i propri interessi marittimi. I segnali c’erano tutti. Il Giappone non aveva risposto all’invito statunitense della scorsa estate per una missione congiunta di pattugliamento internazionale nello stretto di Hormuz ed ha invece preferito continuare a mantenere un atteggiamento di neutralità ma pur sempre di presenza, anche per non inasprire i rapporti potenzialmente difficili con Teheran.
Il Golfo è stato per tutto il 2019 teatro della rivalità tra Teheran e Washington. Ma è proprio Hormuz a esser diventato crocevia di complesse intersezioni. Lo scorso giugno si era sfiorato il conflitto nello stretto, a seguito di un abbattimento di un drone americano e dell’annuncio di una rappresaglia americana, poi fermata da Donald Trump poco prima del lancio dell’operazione. Il 27 dicembre, giorno in cui il documento governativo di Tokyo diveniva pubblico, lo Stretto ospitava operazioni militari congiunte di Iran, Russia e Cina.
A conferma dell’attivismo nipponico anche diplomatico in Medio Oriente vi è il viaggio che a metà del mese di gennaio Shinzo Abe ha intrapreso in Arabia Saudita, Oman ed Emirati Arabi. Nemmeno l’uccisione del generale Qassem Soleimani è riuscita a fermarlo: anzi, il premier ha confermato il viaggio con l’obiettivo di contribuire agli sforzi di de-escalation nella regione. A dimostrazione del fatto che Tokyo continua a giocare su più tavoli vi è il contemporaneo viaggio del ministro della Difesa e il ministro degli Esteri negli Stati Uniti, ricevuti rispettivamente al Pentagono dal segretario della Difesa e nella Silicon Valley.
Anche se le visite sono avvenute in occasione dei 60 anni dell’accordo tra Washington e Tokyo sulla mutua cooperazione nei temi della sicurezza, i nuovi sviluppi aggiungono scenari prima inesplorati o rimasti sotto traccia.
L’incontro al Pentagono ha costituito l’occasione per ribadire la convergenza di interessi attorno a numerosi dossier, compreso il contrasto all’aggressività di Pechino nel Mar cinese meridionale ed il comune auspicio per la stabilizzazione della questione della Corea del Nord, ma anche l’occasione per confermare lo spiegamento delle forze nipponiche in Medio Oriente.
Se per il Giappone gli interessi primari sono di tipo economico ed energetico, visto che dalla regione del Golfo proviene circa il 90% dell’import di petrolio greggio, come confermato dal portavoce del governo, questi passano necessariamente attraverso l’interesse verso la stabilità del Golfo, anche a fronte di minacciose avvisaglie: nel giugno dell’anno scorso una nave-cisterna giapponese fu tra quelle colpite nella spirale di escalation nel Golfo Persico.
Washington ha accolto di buon grado le decisioni dell’alleato nipponico che arrivano dopo più di un biennio di progressivo approfondimento dei rapporti e delle convergenze bilaterali. Del resto, Trump ha più volte espresso il suo sostegno ad un Giappone ‘militarizzato’ nella regione, chiaramente in funzione anticinese.
La partnership strategica non sembra quindi esser messa a repentaglio dagli ultimi sviluppi. Gli Stati Uniti non hanno di certo dubbi sull’affidabilità dell’alleato, che solo sei mesi fa ha confermato l’intenzione di acquistare altri 105 velivoli F-35 rispetto alla quarantina già in programma. L’annuncio non è mai stato ritirato. Cio’ si aggiunge all’acquisto da parte di Tokyo di due sistemi americani di difesa missilistica Aegis Ashore.
Niente ombre quindi sulla relazione tra Tokyo e Washington, per quanto la decisione unilaterale del Giappone di voler tutelare interessi nazionali piuttosto che comuni nel Golfo e di continuare ad acquistare petrolio iraniano a dispetto delle sanzioni americane, come ribadito proprio dal presidente iraniano dopo aver incontrato il premier nipponico, rimangano dei bocconi che Washington ingoia in nome di più alti interessi strategici in Asia. Gli equilibri potrebbero cambiare però nel momento in cui Tokyo decidesse di estendere la missione militare a tutto lo Stretto di Hormuz.
Il Giappone si muove con sempre maggior scioltezza per mari e terre mediorientali e potrebbe voler ampliare la sua balanced policy nella regione, accolta con favore dagli stessi paesi arabi. Qualche mese fa, studio di YouGov riportato da Arab News mostrava come il Giappone venga percepito e considerato dagli arabi come il paese che può rappresentare il miglior conciliatore per le crisi mediorientali, inclusa quella israelo-palestinese.
Foto: Ministero Difesa Giapponese, Governo Giapponese e Kyodo
Sigrid LipottVedi tutti gli articoli
Classe 1983, Master in Relazioni Internazionali e Dottorato di Ricerca in Transborder Policies IUIES, ha maturato una rilevante esperienza presso varie organizzazioni occupandosi di protezione internazionale delle minoranze, politica estera della UE e sicurezza internazionale. Assistente alla cattedra di Storia delle Relazioni Internazionali e Politica Internazionale presso l'Università di Trieste, ricercatrice post-dottorato presso il Centro di Studi Europei presso l'Università Svizzera di Friburgo, e junior member presso la Divisione Politica Europea di Vicinato al Servizio Europeo per l'Azione Esterna. Lavora attualmente presso Small Arms Survey a Ginevra come Ricercatrice Associata.