Il rafforzamento dell’influenza cinese in Asia centrale
L’Asia Centrale costituisce da sempre un crocevia strategico tra Russia, Cina, Iran e Afghanistan ma anche una regione su cui sta crescendo l’attenzione internazionale, dopo 28 anni dall’indipendenza dall’Unione Sovietica e numerosi anni di semi isolamento politico-diplomatico ed economico.
Insicurezza transfrontaliera, terrorismo e narcotraffico sono le minacce più urgenti in ambito securitario che l’area si trova ad affrontare. A ciò si aggiunge il separatismo etnico e religioso di alcune minoranze confinarie.
Nel corso degli ultimi anni la regione è diventata l’oggetto delle attenzioni cinesi tanto da non rientrare più in maniera totalizzante nella tradizionale orbita post-sovietica di Mosca nè dal punto di vista militare commerciale nè da quello militare. Gli Stati Uniti, dal canto loro, mantengono alto il loro interesse per la regione come dimostra la recente visita del segretario di Stato,m Mike Pompeo.
Pechino mira sempre di più alla stabilità ed alla sicurezza dell’Asia centrale nel contesto del progetto della Nuova Via della Seta (Belt and Road Initiative). Il dragone è interessato alle repubbliche centroasiatiche principalmente per motivi energetici, dal momento che il territorio risulta funzionale alla sua strategia di diversificazione delle rotte e degli approvvigionamenti.
Come nota Naser Al-Tamimi per ISPI, i progetti in campo energetico rappresentano oltre il 45% di tutti gli investimenti della Belt and Road Initiative. Il Kazakhstan è il tradizionale partner economico della Cina nell’Asia centrale, ruolo che ricopre grazie alla ricchezza dei suoi giacimenti petroliferi, mentre il Turkmenistan riveste il ruolo di partner energetico strategico in quanto fornitore di gas naturale (quasi la metà delle importazioni cinesi di gas provengono da li).
Pechino punta in questo modo alla riduzione della dipendenza dalle rotte d’approvvigionamento marittime. Allo stesso tempo, per diversi paesi – soprattutto Kazakistan e Turkmenistan – la partnership con Pechino rappresenta una parte centrale di un piano energetico multivettoriale che permette loro di ridurre almeno in parte la dipendenza dalle rotte d’esportazione controllate da Mosca e di acquisire maggiore potere decisionale.
Ma se gli interessi geostrategici assumono una valenza prioritaria nel settore energetico, gli investimenti legati alla Belt and Road Initiative hanno trasformato l’Asia centrale in un vero e proprio laboratorio geopolitico tanto da modificarne le dinamiche con i vicini più prossimi.
Fatto sta che Pechino ha superato Mosca anche in termini di volume di scambio commerciale con le repubbliche ex sovietiche della regione: in totale quasi 36 miliardi di dollari con cinesi contro i 23 moilrdi con i russi (dati 2017), come mostra uno studio di Pier Paolo Raimondi per la Fondazioni ENI Enrico Mattei.
Dal 2016 la Cina ha organizzato pattugliamenti autonomi delle proprie forze armate al confine tra Tagikistan e Afghanistan. Secondo quanto riportato dal Wall Strett Journal alcuni mesi fa, l’attività cinese lungo il confine sarebbe molto più massiccia di quanto prima si credesse.
Un accordo sarebbe stato firmato nel 2016 tra il comitato di sicurezza nazionale tagiko e le controparti cinesi per la costruzione di 11 avamposti e un centro di addestramento. Gli accordi segreti in pratica avrebbero legittimato Pechino a costruire da 30 a 40 posti di guardia dalla parte tagika del confine con l’Afghanistan. La cooperazione tra i due paesi in tema di sicurezza confinaria non è nuova ma se ne ignorava fino a poco tempo fa l’ampiezza in un paese che ospita forze aeree e terrestri russe.
La notizia della costruzione di un’installazione militare cinese vera e propria sul territorio tagiko, confermata dal Washington Post, non ha fatto particolare scalpore se non per il fatto che si suppone fosse già operativa da tre anni.
Mezzi militari cinesi MRAP VP-11 (foto sopra) e CS/VN3 Dajiang (foto sotto)
La base probabilmente non rimarrà l’unica, anche se non sono ancora giunte notizie di altri progetti in corso. Come afferma l’analista russo Dmitry Zhelobov, entro cinque anni probabilmente Pechino avrà un network ben consolidato di basi militari nella regione.
L’assertività cinese si manifesta anche nell’industria e nelle tecnologie a uso militare e le forniture di mezzi e armi alle forze armate delle repubbliche ex sovietiche si sono fatte sempre più numerose, anche se spesso sono etichettati come donazioni e raramente regolati dalla normativa interna cinese sull’esportazione di armi (quest’ultima risalente al 2002 dato che la Cina non si è conformata alla più recente normativa internazionale in materia).
Un commercio quindi per larga parte sotto traccia la cui ampiezza può essere ricostruita solo in maniera frammentaria anche se gli esempi di trasferimenti di armi ed equipaggiamenti sono comunque numerosi.
Poco più di un anno fa il Tajikistan ha acquistato i veicoli blindati protetti da mine (MRAP) VP-11 e blindati CS/VN3 Dajiang cinesi, al Kazakhistan è stato venduto un aereo da trasporto Shaanxi Y-8 e al Turkmenistan il sistema missilistico terra aria spalleggiabile a corto raggio QW-2 Vanguard mentre Turkmenistan e Uzbekistan hanno acquisito il sistema difensivo aereo a lungo raggio HQ-9, derivato dall’S-300 russo (nella foto sotto).
Il fiorente business militare ha subito uno stop l’anno scorso quando la Cina ha inserito Ashgabat in una black-list a causa del peggioramento delle relazioni a seguito dell’aumento del prezzo del gas turkmeno venduto ai cinesi. L’episodio conferma come dietro allo scambio di materiali militare tra Pechino e le repubbliche centroasiatiche vi siano spesso le negoziazioni sulle forniture energetiche.
I legami tra le repubbliche centroasiatiche e Pechino sono forti anche in altri ambiti legati al dossier sicurezza, in particolare la lotta al terrorismo il terrorismo. “Cooperazione-2019” è l’ultima serie di esercitazioni antiterrorismo che si sono tenute in Tajikistan nell’agosto 2019 con la partecipazione di circa 1.200 militari di cui 580 provenienti da diverse unità e servizi delle forze armate cinesi.
Questo tipo di cooperazione è stato intrapreso anche con l’Uzbekistan. A metà dell’anno scorso un’esercitazione antiterrorismo della durata di due settimane si è tenuto nella regione Jizzakh. La Cina coopera in tale ambito anche con le Guardie di confine del Kazakhistan.
L’Organizzazione della Cooperazione di Shanghai, creata da Russia e Cina nel 2001 per combattere i “tre diavoli” (terrorismo, separatismo etnico ed estremismo religioso) legittima le esercitazioni congiunte ma al di là di questo Pechino si è spinta molto oltre sviluppando la cooperazione con le repubbliche centroasiatiche in ambito securitario (e non) sul piano bilaterale.
Nel 2016 Pechino aveva creato con Tagikistan, Afghanistan e Pakistan un meccanismo quadrilaterale di cooperazione, prima organizzazione securitaria regionale che non prevede la partecipazione della Russia), per rafforzare la sicurezza regionale e per un impegno congiunto nella lotta contro il terrorismo.
Militari cinesi e tagiki (foto qui sopra e in apertura dell’articolo)
L’Asia Centrale sta diventando a tutti gli effetti banco di prova per le relazioni tra Cina e Russia senza però creare attriti rumorosi. Il Cremlino sembra esser arrivato alla conclusione che la penetrazione cinese in Asia centrale sia inevitabile, non solo a livello economico ed energetico-securitario ma anche militare.
Forse per questo Mosca non sta facendo molto per ostacolarla. Da un lato, il coinvolgimento con Pechino impedisce ad alcuni di questi paesi di cercare vie alternative di esportazione energetica verso l’Europa bypassando la Russia.
Finchè Pechino rimane formalmente entro i limiti dei comuni interessi, e a grandi linee entro i limiti dei trattati esistenti, Mosca non sembra voler intraprendere azioni forti. Del resto, la Cina può anche essere utile per salvaguardare i confini meridionali degli Stati centroasiatici da possibili minacce e infiltrazioni di gruppi radicali islamici.
Parte dell’interesse e dell’attivismo cinese in Asia centrale è infatti legato alla questione dell’Afghanistan; Pechino teme in particolare il contagio integralista verso lo Xinjiang, regione povera a maggioranza musulmana, e i possibili effetti di spillover sulla stabilità del Pakistan, anch’esso perno fondamentale della Nuova Via della Seta, nonchè da lì sull’intera area centroasiatica.
A testimonianza di questa preoccupazioni vi è il fatto che per esplicita volontà russa, tra i 128.000 militari che hanno preso parte all’esercitazione Tsentr 2019 lo scorso settembre vi sono state truppe cinesi (Mosca ha invitato anche India e Pakistan e quattro delle repubbliche centroasiatiche, escluso il Turkmenistan).
La componente cinese era costituita da unità meccanizzate di fanteria e forze aeree. Durante la precedente simile esercitazione, Vostok 2018, le unità meccanizzate cinesi avevano già operato con le formazioni russe.
Anche se le esercitazioni sono state classificate come anti-terrorismo, la volontà di approfondire i rapporti militari con la Cina coinvolgendo allo stesso tempo il centro Asia in chiave anti-occidentale risulta chiara. La Cina è vista sia come un amico che come un potenziale avversario degli interessi russi e tale dicotomia viene esasperata in quest’area di parziale vuoto strategico.
Mosca da parte sua ha una cospicua presenza militare in Asia centrale, ancora significativamente superiore a quella cinese. Dispone infatti di due basi militari in Kirghizistan e Tagikistan, oltre che di una presenza militare più diffusa in Kazakistan.
Le relazioni militari tra la Russia e repubbliche avvengono lungo due canali: su base bilaterale e attraverso le strutture dell’Organizzazione per il trattato della Sicurezza Collettiva, l’alleanza difensiva fondata nel 1992 che si compone oltre alla Russia di Armenia, Bielorussia, Kazakistan, Kirghizistan e Tagikistan.
L’anno scorso tra l’altro, durante la visita di Putin a Bishkek, è stato firmato un protocollo a integrazione dell’accordo del 2012 che prevede un ampliamento della base russa in Kirghizistan.
Gli Stati Uniti in questo contesto rimangono un outsider, dopo l’uso temporaneo di basi aeree in Uzbekistan e Kirghizistan per le operazioni in Afghanistan dopo l’11 settembre 2001.
Lo scorso gennaio il segretario di stato americano Mike Pompeo, dopo aver visitato Bielorussia e Ucraina, ha visitato l’Asia centrale dove ha incontrato i ministri degli Esteri di cinque repubbliche ex sovietiche e i presidenti del Kazakistan e dell’Uzbekistan, sottolineando “la necessità di un coordinamento regionale più forte e di progressi accelerati per far progredire la stabilità e la prosperità nella regione” ma facendo anche riferimento alla penetrazione russa e cinese.
Tra le altre cose ha anche esortato i paesi a offrire asilo politico alle minoranze etniche e religiose Uighur, kazake e musulmane maltrattate da Pechino nello Xinjiang. Il segretario di Stato ha cercato di persuadere le repubbliche a vedere Washington come ‘partner commerciale affidabile’ (Pompeo ha anche offerto al Kazakistan aiuto contro il coronavirus “proveniente dalla Cina”).
Cercando di presentarsi come partner affidabili in Asia centrale, a ridosso dei confini meridionali della Russia e a quelli occidentali della Cina, gli Stati Uniti rischiano però di incentivare le intese regionali tra Mosca e Pechino, favorendo così gli interessi cinesi nella regione.
Foto: Xinhua, Ministero della Difesa Tagiko, Ministero della Difesa Russo, Polygon e Eurasian Busimess Briefing
Sigrid LipottVedi tutti gli articoli
Classe 1983, Master in Relazioni Internazionali e Dottorato di Ricerca in Transborder Policies IUIES, ha maturato una rilevante esperienza presso varie organizzazioni occupandosi di protezione internazionale delle minoranze, politica estera della UE e sicurezza internazionale. Assistente alla cattedra di Storia delle Relazioni Internazionali e Politica Internazionale presso l'Università di Trieste, ricercatrice post-dottorato presso il Centro di Studi Europei presso l'Università Svizzera di Friburgo, e junior member presso la Divisione Politica Europea di Vicinato al Servizio Europeo per l'Azione Esterna. Lavora attualmente presso Small Arms Survey a Ginevra come Ricercatrice Associata.