Il virus non ferma le guerre ma ridurrà le spese militari. E non è una buona notizia
(aggiornato alle ore 16,20)
Nella messe di analisi sulle conseguenze del coronavirus spiccano le valutazioni di analisti e osservatori circa gli effetti della pandemia sui conflitti e in molti valutano che il timore del contagio abbia interrotto le guerre in corso mentre l’autorevole Foreign Affairs si chiede se il virus promuoverà la pace nel mondo.
Più che immaginare una pace diffusa, l’ipotesi avanzata è che la condizione di debolezza economica e sociale delle potenze scaturita dall’epidemia possa rendere la classe politica, soprattutto in Occidente, meno incline a privilegiare gli interessi oltre confine è più disposta a risolvere le controversie con negoziati invece che utilizzando politiche muscolari.
L’idea che il virus abbia fermato i conflitti resta però una vana speranza, come si evince prendendo in esame anche solo le guerre più sanguinose e note.
In Siria lo stop ai combattenti nella provincia nord occidentale di Idlib è in vigore dal 5 marzo in base alla tregua sancita dagli accordi tra russi e turchi, non a causa del virus.
Anzi, gli Emirati Arabi Uniti sono pronti a pagare 3 miliardi di dollari a Damasco per indurre Assad a riprendere l’offensiva a Idlib contro le milizie jihadiste sostenute dalla Turchia. Assad non intende entrare in collisione con la Russia, suo grande protettore, ma in queste valutazioni politiche e strategiche il Covid-19 non c’entra nulla.
In Afghanistan i talebani hanno respinto l’offerta di un cessate il fuoco durante il Ramadan avanzata dal presidente Ashraf Ghani. “Mentre la vita di migliaia di prigionieri è messa in pericolo dal coronavirus, chiedere un cessate il fuoco non è né razionale né convincente”, ha affermato Suhail Shaheen, uno dei portavoce degli insorti, accusando il governo di “ostacolare il processo di pace”.
La tensione è alta da settimane tra Kabul e i ribelli, con i talebani che continuano l’offensiva contro le forze afghane in tutto il paese pretendendo la liberazione di tutti i loro compagni prigionieri, prevista dal processo di pace avviato con l’accordo tra USA e Talebani in Qatar. A Kabul quindi il virus è solo un ulteriore pretesto che consente agli insorti di chiedere la scarcerazione di terroristi e miliziani.
Nello Yemen il cessate il fuoco dichiarato dai governativi (appoggiati dall’Arabia Saudita) proprio per far fronte all’epidemia non solo non è stato riconosciuto nè rispettato dai ribelli Houthi ma dopo la dichiarazione d’indipendenza dei secessionisti meridionali che controllano Aden (sostenuti dagli Emirati Arabi Uniti) la guerra rischia di registrare una recrudescenza trasformandosi in un “tutti contro tutti”.
In Libia il conflitto a noi più vicino imperversa con una violenza senza precedenti. Il governo di Tripoli, spalleggiato da turchi e milizie siriane arruolate da Ankara, è al contrattacco su tutti i fronti: ha riconquistato l’ovest della Tripolitania e punta ora a riprendersi i territori a sud di Tripoli.
Insomma, il virus non porta pace, né ci sono indizi che possa ridurre la conflittualità globale. Anzi, considerando che il crollo delle economie mondiali che si prefigura vedrà aumentare la povertà è facile ipotizzare una escalation della lotta per le risorse. Questa significa maggiore rischio di conflitti tra Stati ma anche di insurrezioni, secessioni, rivolte etniche e disordini popolari.
Quello che invece sembra essere certo e ineluttabile è che la necessità di dedicare risorse finanziarie al rilancio dell’economia e della produttività, oltre che ad assistere i ceti più colpiti dalla crisi determinata dal coronavirus, indurrà molti paesi a ridurre molte spese previste nei bilanci degli Stati, incluse quelle militari.
Il primo esempio ufficiale giunge dalla Corea del Sud che ha annunciato tagli al bilancio della difesa per il 2020 dovuti alle conseguenze economiche del Covid-19.
Seul prevede un calo del PIL limitato 1,48% mentre i consumi privati sono crollati del 6,4%, l’export si è contratto del 2% e l’import del 4,1% ma il governo ha stanziato un fondo costituito con risorse prelevate dai diversi ministeri tra i quali 738 milioni di dollari americani tagliati alla Difesa, per il 79% relativi all’acquisto di armi ed equipaggiamenti mentre per il 21% alle spese di gestione e mantenimento.
Il taglio ammonta all’1,75% del bilancio per la difesa del 2020 che era stato aumentato quest’anno del 7,4% rispetto al 2019 raggiungendo i 42 miliardi di dollari USA.
Il Ministero della Difesa nazionale della Corea del Sud (MND) ha minimizzato l’entità dei tagli, affermando che l’impatto di Covid-19 aveva già provocato una riduzione delle attività militari e ritardi nei programmi di acquisizione di armamenti, navi da guerra, elicotteri, caccia F-35 e i nuovi KFX prodotti localmente.
Provvedimenti simili a quelli assunti da Seul, ma molto più consistenti in termini percentuali e di importi, riguarderanno con ogni probabilità molti altri Stati colpiti ben più pesantemente della Corea del Sud dal Covid-19 in termini economici e di crollo del PIL.
Le stime del Fondo monetario internazionale prevedono quest’anno in Europa riduzioni del Pil tra il -7,5% e il -12% e la società di consulenza Avascent, specializzata nel settore Aerospazio e Difesa, ha stimato tagli complessivi ai budget della Difesa europei compresi tra i 21 e i 56 miliardi di euro.
Di fatto si tratterrebbe di tagli tra 2 e 5 volte maggiori di quelli che si registrarono agli stanziamenti militari europei in seguito alla crisi finanziaria del 2008 e non è difficile immaginare che le decurtazioni maggiori si registreranno nei paesi più colpiti dall’epidemia, Italia in testa.
Tagliare le spese militari, specie quelle legate all’acquisto di nuovi mezzi, equipaggiamenti e armamenti o di manutenzioni delle dotazioni già in servizio potrebbe rivelarsi un boomerang soprattutto per quegli Stati che hanno un’importante industria del settore Aerospazio e Difesa, come è il caso dell’Italia e delle maggiori potenze economiche.
Tagliare le commesse delle forze armate significa quindi compromettere migliaia di posti di lavoro che richiederebbero interventi pubblici quali cassa integrazione o indennità di disoccupazione con costi certo superiori ai fondi recuperati tagliando risorse alle forze armate.
La recente richiesta di 50 senatori di M5S di sospendere per un anno il programma F-35 per destinare un miliardo alla Sanità rappresenta un ulteriore esempio di come speculazioni ideologiche puntino a far leva sull’impatto del virus per conseguire l’obiettivo di sempre: demolire l’industria della Difesa e le capacità militari nazionali.
Non occorre essere fans sfegatati del cacciabombardiere statunitense (e questo web-magazine e chi scrive queste righe di certo non lo sono mai stati) per comprendere che fermare per un anno un programma che ha già accumulato ritardi e marcia da tempo a rilento significa sopportare i costi di cassa integrazione per migliaia di persone tra quanti lavorano a Cameri e nell’indotto, incluse le aziende produttrici di componenti del velivolo che rischierebbero di venire estromesse dalla catena delle forniture in favore di altre società che operano in paesi più rispettosi degli impegni internazionali assunti. Nel complesso il danno sarebbe ben maggiore del miliardo di euro risparmiato quest’anno.
Proposte come quella dei senatori pentastellati evidenziano purtroppo il livello di immaturità e di scarsa conoscenza delle tematiche su cui dovrebbero legiferare espresso dal primo partito italiano per rappresentanza parlamentare.
Più ragionevole invece la seconda proposta contenuta nell’interrogazione dei senatori di M5S, che chiede di tagliare 35 dei 90 F-35 previsti sostituendoli con “programmi aeronautici nazionali ed europei molto più economici, affidabili, e rispondenti alle reali esigenze operative della Difesa”.
Acquisire ulteriori Typhoon Tranche 3 o i caccia leggeri M-346FA di Leonardo (per sostituire gli AMX) rinunciando prima di tutto ai 15 F-35B destinati all’Aeronautica comporterebbe vantaggi per l’industria nazionale anche in termini occupazionali più volte sottolineati anche da Analisi Difesa ma richiederebbe oggi decisioni rapide, che tengano conto anche di valutazioni geopolitiche e, per una volta, definitive.
E’ infatti certo che un taglio al programma F-35 ridurrebbe compensazioni industriali statunitensi e il carico di lavoro per lo stabilimento FACO di Cameri e le aziende italiane coinvolte e inoltre comporterebbe ulteriori difficoltà nel dialogo con gli Stati Uniti di cui oggi, anche a causa della deriva filo-cinese del governo italiano, non si sente certo il bisogno.
La questione non investe solo aspetti politici ma anche valutazioni relative alle commesse militari. Per intenderci (solo a titolo di esempio), sarebbe difficile premere su Washington affinchè l’US Navy scelga le Fremm di Fincantieri per il suo nuovo programma da 20 fregate dopo aver decurtato nuovamente gli F-35, già scesi nel 2012 (col governo Monti) da 131 a 90 unità.
Del resto appare ben chiaro che la crisi determinata dal Covid-19 sta devastando tutto il settore turistico e dei trasporti, incluse crociere e compagnie aeree, e avrà ripercussioni fortissime e prolungate anche sull’industria aeronautica e cantieristica.
Facile quindi prevedere che nei prossimi anni non assisteremo a un boom di ordini di navi da crociera o traghetti né aerei di linea, ragion per cui il mantenimento dei posti di lavoro in aziende di grandi dimensioni quali Fincantieri e Leonardo, con tutto il vasto indotto di piccole e medie imprese (fornitori e subfornitori), dipenderà in larga misura dalle commesse militari acquisite dalle forze armate nazionali e da clienti stranieri, inclusi di navi da guerra, elicotteri, aerei da combattimento, addestramento e trasporto.
Una tendenza inevitabile, in barba ai pasdaran della “riconversione dell’industria bellica” che animano il pacifismo da oratorio e da casa del popolo.
Per questa ragione il recente ordine tedesco per 93 nuovi cacciabombardieri Typhoon costituirà una importante boccata d’ossigeno per tutte le aziende coinvolte nel consorzio Eurofighter, in Italia soprattutto Leonardo ed Elettronica ma anche molte PMI.
Per la stessa ragione sarebbe il caso che il governo si desse una mossa autorizzando la cessione all’Egitto di due fregate FREMM già in servizio nella nostra Marina. Un contratto che Il Cairo sollecita da tempo, che aprirebbe la strada a ulteriori commesse navali e militari egiziane e che attribuirebbe a Fincantieri anche i lavori per realizzare ulteriori nuove unità di rimpiazzo per la Marina Militare dopo il via libera alla realizzazione di due nuovi sottomarini.
Meglio però che governo e Farnesina si affrettino a fornire le necessarie autorizzazioni per il contratto egiziano poiché se Il Cairo ha fretta di dotarsi di nuove navi (la richiesta era di poter ricevere le due fregate italiane per fine aprile) certo non mancano i concorrenti diretti dell’Italia già in attività per proporre alternative alle nostre FREMM.
La profonda crisi determinata dal coronavirus renderà ancora più crudele un mercato della Difesa in cui già da tempo la bontà dei prodotti non è una caratteristica sufficiente ad aggiudicarsi contratti se non è affiancata da un deciso supporto politico e istituzionale.
In un mondo in crisi economica forse il coronavirus determinerà un rallentamento del processo di globalizzazione, come ritengono alcuni economisti, ma certo la lotta sui mercati sarà più selvaggia e senza esclusione di colpi. Meglio quindi non ridurre le capacità di difenderci e di tutelare interessi nazionali, quote di mercato e aree di influenza.
La tendenza italiana a prendere (o perdere) tempo, ingigantitasi con l’attuale governo, rischia di compromettere molte opportunità sui mercati e nella grande partita sulle aree di influenza. L’esempio più eclatante a questo proposito riguarda la Libia, dove Roma ha perso in pochi mesi quasi tutto il suo peso per noncuranza, distrazione o incapacità.
Un solo esempio: nel dicembre 2019 il ministro degli esteri, Luigi Di Maio, annunciò la nomina di un inviato speciale italiano per la Libia del quale, oltre quattro mesi dopo, non si sono più avute notizie.
Che impressione avrà avuto questa dimostrazione di superficiale vaghezza a Tripoli, a Tobruk e presso tutti gli altri Stati protagonisti della crisi libica?
L’altro grave impatto che il coronavirus potrebbe avere sul mondo della Difesa riguarda, in termini operativi, le ipotesi di ridurre o addirittura azzerare la presenza dei contingenti militari italiani presenti all’estero nei teatri di crisi, come chiedono soprattutto alcuni esponenti di M5S e del mondo pacifista.
Una scelta che rischierebbe di tradursi in un clamoroso autogol. Un conto è la valutazione dei teatri operativi in cui restare presenti o meno in base a ragioni di interesse nazionale e un altro è utilizzare l’epidemia per giustificare una smobilitazione generale.
Come abbiamo visto, il virus di certo non azzererà guerre e tensioni internazionali ma, superata l’emergenza sanitaria, ritroveremo probabilmente ingigantiti i problemi che abbiamo lasciato prima che la nostra politica e i nostri media decidessero di occuparsi solo di Covid-19.
Foto: SANA, Leonardo. Luftwaffe, Fincantieri, Libya Observer, MAE, Yonhap, ISAF, Esercito Italiano e Marina Militare
Gianandrea GaianiVedi tutti gli articoli
Giornalista bolognese, laureato in Storia Contemporanea, dal 1988 si occupa di analisi storico-strategiche, studio dei conflitti e reportage dai teatri di guerra. Dal 1991 al 2014 ha seguito sul campo i conflitti nei Balcani, Somalia, Iraq, Afghanistan, Sahara Occidentale, Mozambico e Sahel. Dal febbraio 2000 dirige Analisi Difesa. Ha collaborato o collabora con quotidiani e settimanali, università e istituti di formazione militari ed è opinionista per reti TV e radiofoniche. Ha scritto diversi libri tra cui "Iraq Afghanistan, guerre di pace italiane", “Immigrazione, la grande farsa umanitaria” e "L'ultima guerra contro l’Europa". Presso il Ministero dell’Interno ha ricoperto dal 2018 l’incarico di Consigliere per le politiche di sicurezza di due ministri e un sottosegretario.