Quanto vale la vita di un contractor?

Tra i numerosi vantaggi dell’impiego di mercenari prima e, successivamente di contractors, oltre alla negazione plausibile ed all’economicità del loro impiego, vi è lo scarso peso politico delle loro morti rispetto a quelle del personale in uniforme.

Gli Stati Uniti, tuttavia, che molto hanno approfittato di tale concetto, paiono averlo totalmente stravolto a fineanno. L’uccisione di un contractor americano in Iraq, ritenuta dal presidente Trump una redline invalicabile, ha provocato un’escalation tale da far temere la Terza guerra mondiale.

Altri attori Statuali, invece hanno perseverato proprio in queste settimane nel considerare i contractors “pedine sacrificabili.” Perciò, la domanda sorge spontanea: Quanto vale – o non vale – la vita di un contractor?

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 Il 27 dicembre 2019 la bae area K-1, situata nella provincia irachena di Kirkuk, Iraq è stata colpita da razzi Katyusha che hanno provocato la morte di un contractor americano ed il ferimento di 6 tra soldati USA ed iracheni.

Naturalizzato americano, Nawres Waleed Hamid di Sacramento, California lavorava come traduttore per la società Valiant Integrated Services nell’ambito dell’operazione Inherent Resolve.

Qualche giorno dopo è arrivata la risposta americana, sottoforma di attacchi aerei in Iraq e Siria contro la milizia sciita di Kata’ib Hezbollah, sottogruppo delle Unità di Mobilitazione Popolare (UMP) irachene supportate dall’Iran.

Attacchi che hanno provocato la morte di 25 miliziani ed il ferimento di altri 51, ma soprattutto una rapida escalation che, secondo i media, ha portato il Mondo sull’orlo della Terza guerra mondiale; diciamo, più verosimilmente, ad un confronto militare aperto tra Washington e Teheran.

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Dopo i bombardamenti americani, infatti è stato attaccato il compound dell’ambasciata statunitense a Baghdad, a cui Washington ha reagito con l’omicidio mirato del generale iraniano, Qasem Soleimani e del comandante delle UMP, Abu Madhi al-Muhandis.

A loro volta, gli iraniani hanno risposto con un attacco missilistico  contro due basi americane in Iraq ed abbattendo erroneamente un boeing ucraino con 176 persone a bordo.

Con una citazione precisa il presidente Trump ha voluto rimarcare la linea rossa oltreppasata: “L’Iran ha ucciso un contractor americano, ferendo anche molti altri. Abbiamo risposto fermamente e sempre lo faremo.

 

Washington e contractors caduti

Quando un militare viene ucciso la notizia finisce sulle prime pagine. Il Pentagono emette entro 48 ore un comunicato ufficiale ed aggiorna il Casualty Status, bollettino consultabile sul sito del Dipartimento della Difesa, recante il numero ufficiale delle vittime suddivise in base all’operazione a cui partecipavano e se cadute in azione o meno. La morte di un contractor, invece, salvo casi di estrema efferatezza o rilevanza come il linciaggio dei quattro uomini di Blackwater a Falluja,  non fa notizia; al massimo qualche paragrafo sulla stampa locale della città o contea di origine.

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Il datore di lavoro, entro dieci giorni, deve denunciare l’accaduto alla Division of Longshore and Harbor Workers’ Compensation (DLHWC) del Dipartimento del Lavoro. Altrimenti, spetta ad un familiare compilare un apposito modulo per avviare le procedure di risarcimento dell’assicurazione. Il DLHWC inserisce la morte del contractor nell’apposita colonna del database del Defense Base Act che, pur essendo aggiornato quotidianamente, viene reso pubblico solo a cadenza trimestrale.

Questo rimane, quindi l’unico elenco più o meno ufficiale dei contractors caduti.

Nonostante ciò, è stato più volte segnalato come  gran parte delle denunce  (68% nel 2011) venga presentata in ritardo; anzi, essendo i contratti spesso subappaltati a società o personale della nazione ospitante, molte volte i contractor caduti non vengono nemmeno segnalati a causa di negligenza, documentazione inadeguata o analfabetismo. Perciò, i dati relativi alle loro perdite sono certamente sottostimati.

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Nella prima metà del 2010 più di 250 contractors sono morti in Iraq e Afghanistan, superando per la prima volta i militari caduti nello stesso periodo: 235.

Un aumento che, dovuto sia a ruoli crescenti dei contractors che al ritiro dei soldati americani dall’Iraq, ha ricevuto poca attenzione da parte dell’opinione pubblica.

Più recentemente il progetto Costs of War della Brown University ha stimato che nella Guerra al terrore sarebbero morti 3.814 contractors in Afghanistan e 3.588 in Iraq per un totale di 7.402 numeri complessivamente superiori a quelli dei militari americani caduti in entrambi i Paesi (rispettivamente 4.476 in Iraq e 2.448 in Afghanistan per un toale di 6.924) e a quelli delle statistiche più o meno ufficiali. Il Dipartimento del Lavoro parla, infatti di 3.447 contractors morti in Afghanistan e Iraq dal 2001, riconoscendo tuttavia l’incompletezza di tale numero.

Dinnanzi a dati così imprecisi e contrastanti, l’unica cosa che appare certa è come l’impiego di contractors non abbia mai accennato a diminuire nelle ultime tre amministrazioni – Bush, Obama e Trump, pur con diverse visioni di politica estera.

 

E gli altri?

La scelta di un maggior impiego di contractors per evitare le morti di soldati regolari è stata condivisa da molti Paesi per evitare malcontenti ed opposizioni popolari alle varie operazioni militari. I casi più noti e recenti hanno riguardato Russia, Turchia, Emirati Arabi Uniti ed Arabia Saudita.

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Per far apparire le proprie operazioni nel Donbass, Siria, Libia ed altri Paesi meno costose in termini di vite umane, Mosca è ricorsa all’impiego del Gruppo Wagner e di altre organizzazioni meno conosciute quali Patriot, Vega e Shield. Ciò, badando bene a non far trapelare notizie attraverso una stretta sui media e sui parenti dei caduti mediante accordi di riservatezza, risarcimenti (circa 40.000 euro) ed inviando addirittura funzionari a casa loro, per settimane, per “proteggerli” da reporters e curiosi.

Tuttavia, con il crescente numero di vittime le notizie trapelano sempre più: sia per incongruenze di atti ufficiali che proteste innescate da segretezza o depistaggi sulla sorte di propri congiunti o commilitoni. “Non abbandoniamo i russi” ha detto una volta Putin “Io ci ho creduto. Ora ho capito che erano tutte menzogneMaledetta la Wagner e tutti loro” ha riferito un reclutatore profondamente deluso ai microfoni di France24 un paio di anni fa. Il contractor “pentito” ha parlato anche di “150 cadaveri nelle celle frigorifere della base della Wagner in Russia.” Nulla è stato comunicato alle famiglie, per ora: “Niente accadrà prima delle elezioni presidenziali del 18 marzo (2018).”

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Sul Cremlino sono piovute anche le critiche dell’opposizione. Grigory Yavlinsky del partito Yabloko ha dichiarato: “se ci sono stati numerosi cittadini russi caduti in Siria, le autorità competenti, tra cui lo Stato Maggiore delle Forze Armate, ha il dovere di informare il Paese e di assumersene le responsabilità.”

Nonostante media alquanto compiacenti e propaganda interna, anche in Russia le guerre sono ormai impopolari. Il ricordo dei 14.000 caduti della guerra russo-afgana o in Cecenia è ancora molto vivo e come sostiene Mark Galeotti dell’Institute of International Relations di Praga “i russi non sono molti entusiasti all’idea di un impero che restituisca i propri ragazzi in sacchi di plastica. Perciò, da Mosca si ammettono le morti di cittadini russi all’estero, ma si nega plausibilmente qualunque collegamento al Gruppo Wagner o a qualunque altra organizzazione che persegue malcelatamente, ormai gli obiettivi di politica estera dello Stato.

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Il presidente Erdogan, così come molti turchi aspira ad un ruolo maggiore per il proprio Paese, soprattuto in Libia, ex dominio ottomano. Tuttavia, pochi sono disposti a mettere in gioco le vite dei soldati di Ankara. Secondo un sondaggio della società di consulenza Istanbul Economics Research, solo il 34% dei Turchi è favorevole all’invio di truppe turche in Libia, mentre il 58% vi si oppone.

Ecco allora l’addestramento, l’armamento, l’invio e l’impiego di mercenari siriani in Libia attraverso servizi segreti e personale della compagnia militare privata SADAT, per la quale sembrano profilarsi incarichi sempre maggiori e delicati.

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Gli Emirati Arabi Uniti, che hanno introdotto il servizio militare nel 2014 ed inviato i propri inesperti coscritti in Yemen, hanno subito pesanti perdite. Oltre 120 soldati emiratini risultavano caduti nel pantano yemenita al novembre 2017; tra questi, ben 45 in un unico attacco missilistico nel 2015: il giorno più saguionoso della – seppur breve – storia militare della federazione.

Il malcontento diffusosi a causa dei caduti è stato arginato con appositi provvedimenti legislativi ed arresti. I coscritti in Yemen sono stati quindi sostituiti da mercenari assoldati all’estero – soprattutto colombiani e sudamericani – più professionali e sacrificabili.

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Anche i sauditi stanno affrontando un problema simile. Nella guerra in Yemen, Ryad ha contato principalmente sulle truppe di terra emiratine che supportava dall’aria, limitando così proprie vittime ed opposizione interna alla guerra. Con la ritirata – o meglio, ilriposizionamento – degli Emirati, i sauditi si sono trovati a  dover ricorrere ai mercenari, soprattutto yemeniti e sudanesi.

A loro volta, questi stanno subendo ingenti perdite e maturando del malcontento verso i propri committenti. Qualora Ryad dovesse occuparsi maggiormente e direttamente dello Yemen, i precedenti non sono così incoraggianti: oltre 1000 morti dal 2015 e l’imbarazzante attacco subito in territorio saudita con 500 morti ed oltre 2.000 prigionieri.

 

Qualche considerazione

 Quella in cui stiamo vivendo viene definita età post-eroica, in cui i cambiamenti culturali e demografici hanno considerevolmente eroso la tolleranza nei confronti di vittime di guerra. Sostanzialmente: guerre si, ma brevi e con pochi caduti!

Ogni operazione militare soffre, infatti del cosiddetto effetto casualty sensitivity (sensibilità alle perdite): una relazione inversamente proporzionale tra numero di militari caduti e supporto dell’opinione pubblica.

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Un supporto imprescindibile che può esser preservato sostituendo potenziali militari caduti con i contractors, considerati perdite meno significative e destinate alla quasi totale indifferenza mediatica.

Un valore della loro vita, quindi pari a zero; almeno politicamente.

La rappresaglia del presidente Trump contro l’Iran per la morte di un contractor americano è giunta, perciò decisamente insapettata. A differenza delle migliaia di contractors caduti finora, la vita di un singolo, stavolta, ha assunto un valore così elevato da rischiare addirittura una guerra.

Ma allora, perchè l’uccisione di due contractors – piloti della L3 Technologies – e di un soldato in Kenya, una decina di giorni dopo, ha provocato una reazione così contenuta (solo due terroristi uccisi da un drone)?

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Seppur in un teatro secondario rispetto a quello mediorientale, infatti l’attacco degli al Shabab – il più sanguinoso per gli americani in Africa dall’imboscata di Tongo Tongo, Niger – avrebbe avuto motivazioni propagandistiche, dimostrando un’accresciuta capacità di colpire. In un continente dove la presenza di forze americane è ridotta ed il gruppo terroristico ha mostrato una grande resilienza, forse la risposta meritava un maggior vigore.

La vita dei contractors è così tornata ad esser considerata irrilevante, rendendo ancora più evidente la strumentalizzazione della morte del contractor americano in Iraq.

Tuttavia, pensiamo a cosa sarebbe potuto succedere se Mosca non avesse ritenuto i propri contractors sacrificiabili ed, invece di prenderne le distanze, avesse dovuto chiedere conto di quelle centinaia di russi elimibati dall’USAF, mentre attaccavano un gruppo di americani in Siria, nel febbraio 2018.

Il valore zero della vita dei conctractors, unito alla consueta negazione plasusibile ha consentito di evitare un escalation ben più preoccupante e pericolosa di quelle tra Stati Uniti ed Iran.

Riflettendo su questa breve carrellata di episodi, quello che emerge è un valore estremamente variabile della vita di un contractor, dettato unicamente dal bieco, consueto e millenario opportunismo politico.

Nonostante vi sia stato un leggero miglioramento rispetto al passato, la strada per un adeguato e rispettoso riconoscimento dell’estremo sacrificio dei contractors è ancora lunga.

I termini contractor e mercenario vengono utilizzati spesso come sinonimi – a volte per comodità, altre per ignoranza, ma è fondamentale scindere tra chi è esclusivamente motivato dal conseguimento di un vantaggio economico personale, attraverso una partecipazione diretta ed attiva alle ostilità e chi, invece si occupa di proteggere connazionali, loro assets o gli impegni del proprio Paese all’estero, a fianco o al posto dei militari stessi.

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Senza, però gli stessi riconoscimenti in caso di morte o sostegni economici in caso di disabilità o di stress post-traumatico. Questo è ciò per cui si batte The Private Patriots Foundation che sta anche cercando di far riconoscere il 13 agosto come Giorno del ringraziamento per Contractors e personale di supporto.

In tal senso ne è uscita bene l’Italia che al contractor Fabrizio Quattrocchi , che ha fatto vedere ai suoi carnefici “come muore un italiano,” ha conferito una medaglia d’oro al valor civile per “eccezionale coraggio ed esemplare amor di Patria”.

 

Nato nel 1983 a Brescia, ha conseguito la laurea specialistica con lode in Management Internazionale presso l'Università Cattolica effettuando un tirocinio alla Rappresentanza Italiana presso le Nazioni Unite in materia di terrorismo, crimine organizzato e traffico di droga. Giornalista, ha frequentato il Corso di Analista in Relazioni Internazionali presso ASERI e si occupa di tematiche storico-militari seguendo in modo particolare la realtà delle Private Military Companies.

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