Se il virus cinese mette KO anche le portaerei

La Marina americana ha evacuato sull’isola cdi Guam oltre 4mila dei 5.500 militari che costituiscono l’equipaggio della portaerei Theodore Roosevelt assegnata con Reagan alla 7a Flotta del Pacifico.

Oltre ai 155 casi di marinai risultati positivi gli altri verranno tenuti in quarantena nell’isola che ospita una base aerea e navale statunitense nel Pacifico.

In prospettiva dovrebbero restare a bordo un migliaio di membri dell’equipaggio che si occuperanno della vigilanza e del mantenimento dei sistemi imbarcati mentre la grande nave viene sanificata e disinfettata.

La notizia ha avuto una vasta eco soprattutto per la rimozione del comandante della Roosevelt, il capitano Brett Crozier, colpevole secondo il Pentagono di non aver gestito adeguatamente l’emergenza poiché aveva scritto a una ventina di alti esponenti militari e politici una lettera, finita poi sulle pagine del San Francisco Chronicle e poi su tutti i media americani, in cui chiedeva l’evacuazione dell’equipaggio per evitare che l’epidemia dilagasse a bordo si registrassero quindi morti inutili.

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“Non siamo in guerra. Non è necessario che i marinai muoiano. Se non agiamo ora, non riusciremo a prenderci cura adeguatamente dei nostri asset più fidati, i nostri marinai”, aveva scritto il comandante.

Secondo quanto ha scritto il New York Times, Crozier è positivo al Covid 19 come altri 155 membri del suo equipaggio (dato confermato dal Pentagono) e aveva cominciato a manifestare sintomi ancora prima di essere destituito dal comando.

Il segretario della Marina militare, Thomas Modly, ha rimosso Crozier accusandolo di aver fatto trapelare alla stampa la lettera in cui rimproverava al Pentagono di non fare abbastanza per salvare i membri dell’equipaggio.

“La lettera ha creato l’impressione che la Marina non stesse rispondendo alle sue richieste, che la Marina non fosse al lavoro, che il governo non fosse al lavoro, ma questo non è vero”, ha spiegato Modly in una conferenza stampa.

Il segretario alla Marina ha usato toni offensivi nei confronti di Cozier, che lo hanno poi costretto a dimettersi dall’incarico a conferma delle tensioni crescenti tra politica e militari che hanno caratterizzato finora l’Amministrazione Trump e che l’emergenza Covid-19 sta esasperando.

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La rimozione del comandante della portaerei è quindi entrata brutalmente nel dibattito politico e nella campagna presidenziale già in atto e Crozier è diventato un uomo simbolo per l’opposizione democratica anche se in realtà l’aspetto più rilevante della vicenda appare quello strettamente militare.

Se 155 marinai positivi a un virus mettono fuori combattimento una delle 10 grandi portaerei su cui si basa buona parte della proiezione di potenza statunitense, allora i pianificatori militari devono porsi un problema diverso da quello della disciplina e dei rapporti con la politica, legato alla sopravvivenza delle capacità operative se un virus cominciasse a colpire parte dei militari di un equipaggio o di un reparto militare.

Negli ultimi anni Washington ha concentrato nel Pacifico circa il 60 per cento della sua forza navale per far fronte all’espansionismo cinese sul mare (specie intorno agli arcipelaghi contesi del Mar Cinese Meridionale e Orientale) e alla crisi con la Corea del Nord.

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L’US Navy è da tempo preoccupata per le capacità sviluppate da Pechino di attaccare proprio le portaerei con i missili balistici a raggio intermedio Dong Feng 26.

Armi in grado di colpire le flotte statunitensi a oltre 3mila chilometri dal punto di lancio con oltre una tonnellata e mezza di esplosivo (o con una testata atomica) a una velocità talmente elevata da rendere difficile l’intercettazione da parte delle difese aeree imbarcate.

“Più del DF-26 potè il Coronavirus”, sarebbe il caso di dire, che imporrà all’US Navy, ma in realtà a tutte le marine (molte Marine hanno equipaggi colpiti dal Covid-19) e alle forze armate del mondo, di porsi problemi diversi, legati non tanto alle tecnologie hi-tech nemiche quanto alla capacità di mantenere l’operatività di equipaggi e reparti evirando per quanto possibile l’esposizione a contagi o proteggendo meglio la salute del proprio personale.

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Molto probabilmente il Covid-19 ha colpito l’equipaggio della Roosevelt durante la sosta nel porto vietnamita di Da Nang, dal 5 al 9 marzo, periodo in cui si sono tenute cerimonie e affollati incontri per celebrare i 25 anni della normalizzazione dei rapporti tra Washington e Hanoi avvenuti nel 1995, vent0anno dopo la caduta di Saigon e la fine della lunga guerra vietnamita (1962-75). A inizio marzo il Vietnam era già preda del contagio da coronavirus proveniente dalla Cina ma negli USA la portata della pandemia era ancora ampiamente sottovalutata.

Resta evidente che in tempo di guerra le navi militari continuerebbero a operare anche con parte dell’equipaggio infetto o malato (e del resto le navi militari possono combattere anche in ambienti contaminati da agenti chimici, biologici o nucleari) ma non c’è dubbio che il virus abbia un effetto negativo sul morale dei militari e il fermo della portaerei Roosevelt rappresenti uno smacco per la credibilità militare americana.

Non è un caso che un’altra portaerei stia dirigendo ora dal Golfo Persico verso il Pacifico per prenderne il posto nei ranghi della 7a Flotta mentre in Europa e negli USA il Coronavirus sta ponendo due ordini di problemi agli apparati militari e politici.

Da un lato rende necessario il coinvolgimento crescente di reparti aerei, sanitari, logistici, di difesa NBC e altri per supportare sanità e forze dell’ordine nella gestione dell’emergenza, dall’altro impone di preservare il più possibile la salute dei militari per mantenerne le capacità operative.

Anche in vista di possibili ulteriori mobilitazioni per far fronte a disordini sociali e rivolte che le conseguenze economiche della pandemia potrebbero innescare.

@GianandreaGaian

Foto US DoD e Internet

 

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Giornalista bolognese, laureato in Storia Contemporanea, dal 1988 si occupa di analisi storico-strategiche, studio dei conflitti e reportage dai teatri di guerra. Dal 1991 al 2014 ha seguito sul campo i conflitti nei Balcani, Somalia, Iraq, Afghanistan, Sahara Occidentale, Mozambico e Sahel. Dal febbraio 2000 dirige Analisi Difesa. Ha collaborato o collabora con quotidiani e settimanali, università e istituti di formazione militari ed è opinionista per reti TV e radiofoniche. Ha scritto diversi libri tra cui "Iraq Afghanistan, guerre di pace italiane", “Immigrazione, la grande farsa umanitaria” e "L'ultima guerra contro l’Europa". Presso il Ministero dell’Interno ha ricoperto dal 2018 l’incarico di Consigliere per le politiche di sicurezza di due ministri e un sottosegretario.

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