Il pugno duro di Pechino a Hong Kong è un monito per l’Occidente
Hong Kong, intesa come isola di libertà, di democrazia, di libero mercato, in mezzo all’Oceano Comunista cinese, non c’è più. I diritti, le autonomie, ovvero, in una parola troppo spesso usata a sproposito, le libertà che solo gli illusi potevano pensare fossero garantite dall’accordo Sino-Britannico del 1997 non ci sono più.
Il mito “one country, two systems” si è dimostrato essere solo una caduca foglia di fico per coprire temporaneamente quelle “vergogne” che tutti sapevano prima o poi sarebbero emerse nella loro cruda realtà.
Ventitre anni fa era servito per tranquillizzare la popolazione di Hong Kong in merito al proprio destino, ma nessuno, né a Londra né a Pechino poteva ragionevolmente pensare che il sistema resistesse. Stupisce anzi che sia stato mantenuto in piedi così a lungo. Ma ovviamente i cinesi hanno saputo attendere saggiamente il momento più opportuno per sferrare il colpo (fa parte della loro cultura) in modo da essere sicuri che le loro azioni non sarebbero state validamente contrastate.
Quella che vediamo oggi ad Hong Kong è solo una ben studiata mossa sulla scacchiera della geopolitica in una lunga partita che Pechino sta conducendo da decenni. Partita giocata con grande visione strategica sul piano economico, politico e, checché se ne dica, anche militare.
Molti analisti sono convinti che la Cina strapperà agli USA la leadership economica, tecnologica e politica prima che il mondo possa veramente rendersene conto.
Che ci piaccia o no, l’ascesa della Cina negli ultimi due decenni ha ridisegnato l’intero panorama della politica globale. Dopo il suo ingresso nella World Trade Organization nel dicembre 2001, la Cina ha rapidamente trasformato la propria economia da manifattura a basso costo a leader globale nelle tecnologie avanzate. Ciò, ovviamente, anche acquisendo know-how a scapito delle industrie occidentali, colpevolmente consenzienti.
Hong Kong è solo una piccola tessera di un mosaico di cui solo a Pechino si conosce l’immagine che apparirà ad opera completata (sempre ammesso che il resto del mondo non riesca ad opporsi a tale disegno). Non dovrebbe stupire se la prossima tessera fosse Taiwan.
Ad Hong Kong in questi giorni si vuole tastare anche la disponibilità dell’Occidente a rischiare per i valori che a parole professa. Ovvio che nessuno in Europa o negli USA sia disposto a “morire per Hong Kong”, ma neppure a rinunciare al “giocattolino di plastica sottocosto”?
Ad Hong Kong hanno colpito ora anche perché gli USA sono oggi deboli non solo per il Covid, ma soprattutto per la profonda crisi di identità che attraversa la società statunitense, come testimoniano le recenti dimostrazioni di “Black Lives Matter”.
Inoltre, questo è anche un momento di crisi per il Regno Unito che in altri periodi ha dimostrato di sapersi mettere totalmente in gioco per una questione di principio, ricordiamoci tra i tanti il caso delle Falkland – Malvinas e persino della pingue, pavida e perennemente indecisa UE. Non certo una novità.
La legge per la salvaguardia della sicurezza nazionale in Hong Kong di fatto svuota di ogni significato le autonomie concesse all’ex colonia britannica. La legge, approntata in segreto, implementata senza consultazione alcuna con le autorità dell’ex-colonia, si esprime in termini estremamente generici in merito a ciò che possa “mettere in pericolo la sicurezza nazionale” e ciò attribuisce di fatto mano libera alle forze di sicurezza cinesi per interdire qualsiasi forma di espressione che non sia di assoluto consenso.
Tra l’altro, le forze di sicurezza cinesi che interverranno in questo ruolo in Hong Kong non saranno neanche soggette alla legislazione di quella che ormai è una “Regione Amministrativa Speciale” solo di nome (e anche tale denominazione potrebbe avere, se non i giorni, almeno i mesi contati).
L’Occidente, a parole “piazzista indefesso” della democrazia e di ogni tipo diritto umano attraverso l’intero globo terracqueo, assiste impassibile a un vero attacco alla libertà della città e dei suoi abitanti. I manifestanti stanno cancellando i loro post sui social media, sciogliendo le loro organizzazioni e lasciando la città se possono.
Le grandi banche e società internazionali potrebbero verosimilmente lasciare la città, anche per non esporre il proprio personale ai rischi legali connessi con l’applicazione della giurisdizione penale cinese.
La nuova legislazione non solo viola gli impegni assunti con la Dichiarazione Congiunta Sino-Britannica del 1984, cosa che potrebbe non riguardarci, ma rappresenta un’aperta sfida alla comunità internazionale.
Qual è stata la risposta? Il presidente del Consiglio Europeo, Charles Michel si è limitato a una flebile “deplorazione” mentre gli Stati Uniti hanno annunciato di voler porre fine allo status speciale di Hong Kong ai sensi del diritto commerciale degli Stati Uniti.
La Gran Bretagna ha offerto asilo e l’accesso alla cittadinanza britannica a tre milioni di cittadini di Hong Kong, quelli in possesso di un passaporto nazionale UK.
L’Australia ha comunicato che potrebbe seguire l’esempio di Londra mentre il governo italiano non pare neppure essersi accorto di quanto sta succedendo ad Hong Kong.
L’ONU, tramite lo United Nations Human Rights Council, ovvero il massimo organo di vigilanza mondiale sui diritti umani, non è stato in grado di giungere ad una posizione condivisa sull’argomento, mettendo in luce ancora una volta la debolezza strutturale di tale organizzazione internazionale.
Non c’è da stupirsi che la Cina abbia agito come ha agito. Pechino era più che cosciente che anche questa volta, come per tutte le violazioni dei diritti umani perpetrate in passato, non ci sarebbe stato nessun conto da pagare!
Zhang Xiaoming, vice direttore dell’ufficio per gli affari di Hong Kong e Macao a Pechino, ha dichiarato in risposta alle proteste statunitensi che “l’epoca in cui i Cinesi si preoccupavano di ciò che pensavano gli altri di loro è ormai passato e non tornerà mai più”. Purtroppo, per noi, ha ragione.
Pechino si sta muovendo abilmente per rimodellare il sistema internazionale in funzione dei propri interessi (in pratica, una versione cinese di “nuovo ordine mondiale”).
Potrebbe riuscirci se continuerà a vedere che le sue mosse, per quanto deplorevoli, vengono sempre accolte passivamente da un Occidente di “piccoli bottegai” dove ognuno pensa per sé e al proprio tornaconto immediato senza preoccuparsi di contrastare questa lenta ma inesorabile sudditanza a Pechino.
Antonio Li GobbiVedi tutti gli articoli
Nato nel '54 a Milano da una famiglia di tradizioni militari, entra nel '69 alla "Nunziatella" a Napoli. Ufficiale del genio guastatori ha partecipato a missioni ONU in Siria e Israele e NATO in Bosnia, Kosovo e Afghanistan, in veste di sottocapo di Stato Maggiore Operativo di ISAF a Kabul. E' stato Capo Reparto Operazioni del Comando Operativo di Vertice Interforze (COI) e, in ambito NATO, Capo J3 (operazioni interforze) del Centro Operativo di SHAPE e Direttore delle Operazioni presso lo Stato Maggiore Internazionale della NATO a Bruxelles. Ha frequentato il Royal Military College of Science britannico e si è laureato con lode in Scienze Internazionali e Diplomatiche a Trieste.