In “guerra” contro il generale Covid
I media evocano scenari di guerra: in alcune regioni e città si ricorre a misure assimilabili al coprifuoco, da più parti si manifesta il fermo proposito di resistere. Anche molte bandiere arcobaleno annunciano il massimo della possibile combattività dei loro alfieri: tutti insieme ce la faremo. Addirittura il Governo è al lavoro nei fine settimana e in orari inconsueti per le ataviche abitudini di talune burocrazie romane, sottoposte ad uno stress evidentemente insolito.
In realtà la pandemia è un’emergenza drammatica e qualche improvvido negazionista, anche di elevato lignaggio politico, si è rapidamente ricreduto, una volta finito in un letto di ospedale, quando non in un reparto di terapia intensiva.
Sebbene chi richiama la guerra non ne abbia per fortuna fatto esperienza e non apprezzi che il raffronto, almeno allo stato attuale, potrebbe essere temerario, non è azzardato riconoscere che il Covid ha ottima dimestichezza con le categorie dell’arte militare.
Si tratta a ben vedere di un aggressore con disponibilità di un eccellente stato maggiore, che ha svolto in modo egregio i suoi compiti peculiari di analizzare preventivamente il nemico e di individuarne bene le criticità, per sfruttarle a proprio vantaggio scagliandovi contro le forze più consistenti.
Dell’avversario il Covid ha colto la diffusa sottomissione al dominio di un presuntuoso scientismo acritico, spesso fede assoluta di chi avversa la fede religiosa e non sospetta di aver così abdicato alla ragione: l’ultima parola compete sempre alla scienza, esatta per antonomasia e mai in discussione. Massimo credito dunque agli esperti, che hanno invece espresso teorie le più varie e tra loro discordanti, piuttosto che univoche certezze.
Non hanno mancato un’intervista, ma hanno concesso al Covid la prateria dei loro disaccordi, favorendo la correlata altalena, tra rigore e concessioni, delle decisioni politiche.
Era inoltre intuibile che una risposta efficace non potesse scaturire dalla platea dei signorini soddisfatti (ne parlava già Ortega Y Gasset, quasi un secolo addietro, ne “La ribellione delle masse”) e dei figli di ogni pensiero debole, inconsapevolmente e felicemente succubi di quei pochi che il pensiero lo hanno forte.
Sono quelli che “a un aperitivo non si rinuncia” e che “le vacanze non si toccano”. Escludono a priori che li possa riguardare una guerra, affare sempre di altri, che sicuramente si interrompe per le ferie. Si muovono a comando, secondo parole d’ordine diramate dai cosiddetti social, tutti saldamente in mano a nuovi minculpop. Per il virus è stato agevole simulare il ritiro e nel contempo introdurre il cavallo di legno nelle movide e nelle località turistiche.
Offensiva durante Il Covid si è poi reso conto che l’Italia era affidata a quadri di comando che non avevano familiarità con i ruoli loro affidati. Per lo più sconosciuti e imposti frettolosamente ai reparti e al decisivo fronte interno, mai sono stati fattore di amalgama e la fiducia che hanno potuto conquistare è risultata stentata e solo transeunte, insufficiente per generare propensione al rischio e corale determinazione, comunque indispensabili.
Una situazione che col tempo è andata costantemente aggravandosi per la mancanza di una visione strategica che potesse valorizzare le potenzialità italiane, che rimarrebbero comunque cospicue. Espressione dei ceti garantiti, costoro hanno ben nutrito furerie e servizi sedentari, a loro culturalmente più affini, e hanno stremato le salmerie per far loro raggiungere il soldato più sperduto, magari anche imboscato, con un rancio inevitabilmente freddo e stantio.
Hanno invece lasciato sole le unità operativamente determinanti, mai dotandole di un convincente piano di battaglia né, tanto meno, attribuendo loro gli irrinunciabili e concreti strumenti per battersi oggi e ricostruire domani.
Immancabilmente il Covid ha infine trovato la sponda di taluni collaborazionisti, non è detto ogni volta consapevoli, ed è risultato molto utile per quella classe di NEPmen, purtroppo da tempo insediata in posizioni cruciali del sistema pubblico e privato italiano.
Ogni guerra concretizza sempre situazioni adatte per conquistare posizioni di potere, per mantenerle e rafforzarle. È teatro favorevole per opportunisti che cercano di l’occasione per arricchirsi.
Su questo argomento una sola domanda: si è fatto quadrato sulla ricerca del vaccino, certamente il più efficace strumento di protezione, oppure ogni agenzia, pubblica o privata, ogni ente di ricerca ha mirato solo ai propri traguardi? Meglio al riguardo omettere ogni considerazione.
Come finirà? Il Covid è un dramma globale, ma è evidente che consistenti fenomeni di renitenza, favoriti dal fattore vacanze estive, ha da noi fortemente indebolito la linea di difesa, ora assai vacillante. Il nemico pare ora dilagare: sarà possibile fermarne l’avanzata e neutralizzarlo? Difficile in queste condizioni. Ma a nostro favore giocano due fattori importanti.
Almeno da Napoleone in qua le campane, quando non suonano a morte per l’aggressore di turno, fanno poi sentire lo stesso rintocco al naufragio dei suoi progetti: non c’è vento di rivoluzione, non ci sono piani di sopraffazione di stato maggiore tedesco, non c’è regime basato sulla violenza e sull’oppressione che prima o poi non incontri, spesso tragicamente e in modo traumatico, il suo inevitabile crepuscolo.
C’entrerà qualcosa il sofferto, faticoso, lento, ma ormai sempre inesorabile affermarsi dei principi di rispetto dell’altro e di libertà, all’origine della democrazia. Non c’è esito di totalitarismo che sia ancora riuscito a confutare Churchill: “La democrazia è la peggior forma di governo eccezion fatta per tutte quelle che si sono sperimentate finora”.
Non sprechiamo dunque le sue potenzialità e, contro il Covid, facciamola funzionare, se non altro facendo in modo che i governi siano diretti da personalità elette dal popolo.
E poi gli Italiani potrebbero trovarsi in un terreno a loro favorevole: è proprio quando sono costretti a difendersi per non essere sopraffatti che sanno lottare strenuamente, conquistando la stima dell’avversario e riuscendo talvolta finanche a prevalere. A El Alamein e sull’Amba Alagi furono sconfitti, ma contesero al nemico ogni metro di terreno. Per rompere l’accerchiamento a Nicolajewka, gli Alpini combatterono con impeto impareggiabile. E sul Piave l’Esercito dimostrò come si difende il suolo della Patria.
Ma per vincere una guerra è comunque necessario che le redini siano in mano a un Diaz e non a un Badoglio. A chi assomiglino i nostri vertici attuali lo sapremo meglio tra breve, forse tra qualche anno. L’auspicio, anche se l’aplomb dell’attuale compagine di governo inevitabilmente non ha i tratti del generale di Vittorio Veneto, è che possa essere ricordata almeno in termini altrettanto positivi.
Non vorremmo invece mai che un prossimo proclama, magari un DPCM, ormai a sera ci informi che è stato chiesto l’armistizio al generale Covid e che comunque gli Italiani dovranno reagire solo con il loro connaturato spirito di sacrificio a ogni ulteriore contagio o cataclisma, da qualsiasi parte essi provengano (tanto ci sono abituati).
Carlo CorbinelliVedi tutti gli articoli
Nato a Tavarnelle Val di Pesa (FI) nel 1955, è laureato in Scienze Politiche presso la Facoltà "Cesare Alfieri" dell'Università di Firenze ed in Scienze della Sicurezza presso l'Ateneo di Tor Vergata. Ha conseguito vari diplomi post-universitari nel campo delle relazioni internazionali e della tecnica legislativa. Ha prestato per 36 anni servizio quale ufficiale dei Carabinieri, con incarichi in Italia e all'estero in tutti i settori di competenza dell'Arma. Da Colonnello ha retto la Segreteria del Sottosegretario alla Difesa, Il Comando Provinciale di Perugia ed il 2° Reggimento Allievi Marescialli di Firenze. Nella riserva dal marzo 2015, svolge attività di consulente in qualità di esperto di "Security". Collabora con il Centro di Studi Strategici Internazionali ed Imprenditoriali dell'Università di Firenze.