La NATO dei prossimi dieci anni: il difficile adattamento dell’Alleanza Atlantica

Lo Scowcroft Center for Strategy and Security, think tank di Washington  ha recentemente pubblicato, in partnership con la Public Diplomacy Division della NATO, lo studio intitolato “NATO 20/2020: venti idee audaci per re-immaginare l’Alleanza dopo le elezioni USA del 2020”. Secondo gli estensori, il documento avrebbe lo scopo di re vitalizzare il sostegno dell’opinione pubblica nei confronti dell’Alleanza Atlantica in vista del ben più arduo compito di discutere il nuovo e atteso Concetto strategico della NATO.

NATO 20/2020 s’inserisce nel main stream della discussione sull’adattamento del ruolo della NATO avviato in occasione del summit dei Capi di stato e di governo di Londra del dicembre dello scorso anno quando il Segretario Generale della NATO Jens Stoltenberg è stato incaricato di guidare un “processo di riflessione lungimirante” volto a rafforzare l’Alleanza militarmente e politicamente.

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In tale contesto, l’iniziativa denominata “NATO 2030-Strenghtening the Alliance in an increasingly competitive world” è stata presentata da Stoltenberg la scorsa estate. I pareri e le raccomandazioni dei vari gruppi di esperti sono attesi in occasione del summit dei Capi di stato e di governo del prossimo anno e anche questi dovrebbero costituire la base per la definizione del nuovo concetto strategico, il settimo della storia del Trattato di Washington e il quarto dopo la caduta del muro di Berlino.

L’opportunità di avviare una revisione del documento approvato a Lisbona nel 2010 (Active Engagement; Modern Defence) è in discussione da almeno tre anni ma c’è sempre stato molto scetticismo sia a Bruxelles che in gran parte delle capitali dei paesi membri circa i benefici di entrare ufficialmente in una fase di redazione di un nuovo concetto strategico a fronte, soprattutto, di un’amministrazione statunitense che ha più volte messo ufficialmente in discussione l’utilità del Trattato di Washington. Come si è visto, lo stesso think tank USA puntualizza che gli spunti di riflessione offerti in NATO 20/2020 dovrebbero essere presi in considerazione “dopo” le elezioni di novembre auspicando, molto probabilmente, in un “cambiamento di rotta” più favorevole.

D’altronde, sono sempre stati i presidenti appena insediati a inaugurare i nuovi corsi dell’Alleanza: George H.W. Bush con il documento del 1991, Bill Clinton con quello del 1999, e Barack Obama vero e proprio driver della NATO globale del 2010. Unica eccezione, il 43° presidente George W. Bush che è convissuto con il documento del 1999 per tutta la durata del proprio mandato.

Tenuto conto che il concetto strategico è il vero e proprio architrave dell’esistenza dell’Alleanza in quanto fornisce il “cosa”, il “perché”, il “quando”, il “dove” e il “come” dell’impegno della NATO nel mondo, è logico chiedersi in quale direzione stia andando l’Alleanza Atlantica alla luce dei cambiamenti avvenuti nell’ultimo decennio e che cosa ci si debba aspettare al termine del processo di revisione.

 

Cosa è cambiato?

Fino allo shock della crisi tra Russia e Ucraina del 2013-2014 culminata con l’annessione della Crimea, la NATO era più di un gestore di crisi che un’organizzazione per la difesa collettiva, nonché un agente per la trasformazione politica degli aspiranti membri del sud est europeo. Mentre l’applicazione dell’Articolo 5 del Trattato di Washington rimaneva nominalmente la raison d’être dell’Alleanza, non era considerata nella sostanza uno scenario realistico.

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Le forze armate erano considerate quali forze di proiezione da impiegare al di fuori dei territori dei paesi membri in operazioni di stabilizzazione e quindi soggette ad un processo di riorganizzazione e ridimensionamento. D’altronde, secondo la visione sino a quel momento in auge degli affari internazionali, le crisi al di fuori dell’Europa sarebbero state di bassa intensità, lente nello svilupparsi e prive di “manipolazioni” da parte delle grandi potenze.

Di conseguenza dei compiti fondamentali della NATO (core tasks) consolidati al Vertice di Lisbona quali la difesa collettiva, la gestione delle crisi e la cooperazione di sicurezza per mezzo delle partnership, il secondo e il terzo erano assolutamente prevalenti ancorché il tema del bilanciamento tra forze expeditionary e quelle a vocazione difensiva continuasse ad essere fortemente dibattuto nell’ambito dell’Alleanza.

L’aggressione russa dell’Ucraina ha completamente invertito l’ordine delle priorità, a favore della difesa collettiva, in maniera pressoché radicale.

Il confronto strategico con Mosca che ne è derivato, nella sua dimensione militare multidimensionale, “ibrida” e cibernetica ha causato almeno otto effetti principali:

1) ha orientato il focus delle operazioni sulla parte settentrionale, orientale e sud orientale dello scacchiere europeo;

2) rafforzato l’influenza politico militare dei paesi geopoliticamente più esposti alla minaccia russa sui processi decisionali dell’Alleanza;

3) monopolizzato lo sviluppo della dottrina, dell’addestramento e della pianificazione delle operazioni;

4) influenzato gli sviluppi dell’industria della difesa e il procurement per colmare il divario capacitivo esistente tra le forze della NATO e quelle russe;

5) provocato un incremento dei comandi multinazionali del livello di Corpo d’Armata (ora sono nove) e di Divisione (ora sono cinque) la maggior parte dei quali destinati a condurre le operazioni difensive;

6) incrementato del 18%  il personale militare e non militare della struttura di comando della NATO;

7) revitalizzato il tema cruciale dell’afflusso e dello schieramento dei rinforzi statunitensi all’Europa (istituzione del Joint Force Command Norfolk in Virginia e del Joint Support and Ambling Command di Ulm in Germania);

8) marginalizzato la rilevanza del “Fianco Sud” della NATO, dove instabilità politica, e terrorismo sono molto più difficili da affrontare militarmente ed è quindi più arduo immaginare uno scenario di applicazione dell’Articolo 5. In quest’ultimo caso sarebbe molto più utile parlare di gestione delle crisi, ma in Nord Africa e Medio Oriente non sussistono le condizioni politiche per interventi dell’Alleanza e il debole ruolo di regional understanding esercitato per il tramite dell’Hub for the South che si è ritagliato Bruxelles nell’area è il massimo al quale poter aspirare al momento.

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Così, nonostante molti siano convinti che non sia nell’interesse di Mosca avviare ulteriori operazioni militari nel Vecchio continente considerando una “battaglia d’Europa” poco probabile la NATO, che afferma di voler mantenere la sua “flessibilità strategica”, ha destinato la pressoché totalità delle proprie risorse militari alla funzione deterrence and defence in un teatro dove probabilmente non avverrà mai nulla lasciando poco o niente per il resto.

Il confronto strategico con la Russia, apertosi ora anche nei confronti della Cina, dominerà certamente anche i prossimi dieci anni di esistenza dell’Alleanza e pertanto il nuovo concetto strategico non potrà fare altro che riflettere questa realtà. Sostanzialmente uno “stallo” militare dove però si fa sempre di più strada l’idea che la NATO debba evolversi in chiave politica.

 

Una NATO più politica e più globale?

Stoltenberg lo ha ribadito in diverse occasioni pubbliche. Bisogna usare la NATO più politicamente impiegando una più vasta gamma di strumenti non militari, economici e diplomatici, e adottare un approccio globale più ampio. Ma in che senso?

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A Lisbona, il concetto strategico del 2010 fu il punto di arrivo di un percorso evolutivo iniziato immediatamente dopo la fine della guerra fredda volto a conferire all’Alleanza la capacità di agire “a tutto campo” e in tutto il mondo soddisfacendo l’ambizione di divenire un attore internazionale in grado non solo di gestire le crisi emergenti, ma di costituire un foro politico globale.

In ventun anni dalla caduta del muro di Berlino la NATO aveva consolidato il proprio profilo operativo in Afganistan, in Bosnia e in Kossovo, confermato gli impegni di assistenza all’Iraq e ai contingenti ONU dell’Unione Africana. Aveva avviato in campo navale una missione nel Mediterraneo per prevenire movimenti di terroristi e per interdire il traffico di armi di distruzione di massa, ed un’altra per la lotta contro la pirateria nel Golfo di Aden e nelle acque del Bacino somalo, contribuendo alla sicurezza del traffico commerciale marittimo internazionale.

Nel dominio aereo, aveva inaugurato il concetto di Air Policing per preservare l’integrità dello spazio aereo dei membri dell’Alleanza che non disponevano di risorse militari sufficienti per garantire la propria difesa aerea.

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All’estensione del proprio raggio d’azione geopolitico si è accompagnato, logicamente, anche la perdita dell’esclusivo carattere transatlantico dell’organizzazione. Un numero sempre crescente di paesi non membri e non europei è stato coinvolto nelle iniziative politico militari dell’Alleanza, partecipando direttamente alle missioni a guida NATO nei vari teatri operativi, fornendo truppe o supporto logistico, o sostegno politico militare nel contesto delle partnership globali che si sono man mano definite con Paesi come l’Australia, la Nuova Zelanda, il Giappone, la Corea del sud, il Pakistan e persino la Mongolia. Oggi la NATO vanta almeno quaranta partners nel mondo. Cosa può esserci di più “globale”?

Al riguardo, lo studio 20/2020 suggerisce quattro linee d’azione a dir poco originali:

1) istituire un’Atlantic-Pacific Partnership per affrontare la sempre crescente influenza politico militare cinese. Qui la NATO sarebbe il nodo centrale di un network globale/foro multilaterale di consultazione per integrare le già esistenti relazioni bilaterali con i paesi dell’area nei meccanismi di consultazione dell’Alleanza.

2) rivedere il Trattato di Washington mettendo la NATO al centro di un network di alleanze di paesi democratici e di partnership strategiche, e accentuare il ruolo di foro per la consultazione politica per discutere temi anche non militari.

3) offrire la membership al Messico (si, al Messico!) per ancorare la sicurezza dell’Europa agli Stati Uniti, giocando sulla sensibilizzazione alla causa della NATO della popolazione ispanico latina

4) fondare una banca (!) per poter finanziare gli investimenti critici in tema di difesa. In parole povere, il limite è solo l’immaginazione.

 

Reinventare e rivitalizzare?

In tale contesto, il think tank di Washington offre altre idee, in un caleidoscopio di temi di vario livello che spaziano dalle iniziative antirusse (definizione di una strategia transatlantica per incrementare le sanzioni economiche nei confronti di Mosca per le sue aggressioni; assicurazione della retaliation nucleare per incrementare la deterrenza), a quelle per istituire un “Piano Marshall” a favore della digitalizzazione, per incrementare la cybersecurity, per valorizzare il ruolo delle donne, per armonizzare le strategie di comunicazione, per istituire una Carrier Strike Group su base UK, per disattivare le NATO Response Forces (NRF),  per incrementare la sicurezza nella regione dell’Artico, per rivedere i criteri del burden sharing (il famoso 2%), per favorire il decision making tramite l’utilizzo di ambienti sintetici e della simulazione, per aggiungere la resilienza delle società dei paesi membri quale quarto core task.

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Dulcis in fundo, l’ammissione della Georgia quale 31° membro senza estendere al paese le garanzie dell’Articolo 5, inutile e pericolosissima provocazione nei confronti di Mosca. Neanche un tentativo di affrontare un aspetto concernente i problemi del fianco meridionale.

Dal suo canto, la NATO “ufficiale” tramite le dichiarazioni del Segretario generale, sembra avvallare l’idea della partnership con i paesi del Pacifico, oramai inserita nell’agenda dell’Alleanza dove brillano, si fa per dire, gli altri due temi piuttosto datati dell’impatto delle tecnologie emergenti sull’ambiente di sicurezza europeo (già nel testo di Lisbona) e dei cambiamenti climatici quali “carburante di instabilità e conflitti” (in agenda da dodici anni). In quest’ultimo caso si è anche affermato che una NATO “verde”, cioè più attenta alle questioni ambientali, risponderebbe alle sensibilità delle proprie opinioni pubbliche più inclini a scendere in piazza per le questioni ambientali che per altre ragioni.

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Tirando le somme, non mi pare che vi siano, almeno sino ad ora, idee audaci o visioni particolarmente lungimiranti che possano ispirare la redazione del prossimo concetto strategico che rischia, invece, di passare alla storia come il meno significativo e pragmatico degli ultimi trentadue anni.

Dalla fine della guerra fredda la NATO si è definita ed affermata sulla base delle sue operazioni. Queste sono state non solo ciò che la NATO potesse realizzare, ma cosa l’Alleanza fosse nella sua essenza e hanno costituito il catalizzatore per la sua trasformazione e per il suo adattamento sino ai giorni nostri.

Sarebbe forse il caso di ricondurre il dibattito sul bilanciamento dei compiti fondanti che rimangono, ancorché immersi in un ambiente di sicurezza estremamente complesso, i pilastri del legame transatlantico. In fin dei conti, non è vero che la NATO sia “cerebralmente morta” come aveva affermato il presidente Macron lo scorso anno. Mi sembra, al contrario, cerebralmente molto attiva, ma forse non nella giusta direzione.

Foto NATO

 

Nato a Vicenza nel 1960, è stato il vice comandante dell'Allied Rapid Reaction Corps (ARRC) di Innsworth (Regno Unito), capo di stato maggiore del NATO Rapid Reaction Corps Italy (NRDC-ITA) di Solbiate Olona (Varese), nonché capo reparto pianificazione e politica militare dell'Allied Joint Force Command Lisbon (JFCLB) a Oeiras (Portogallo). Ha comandato la brigata Pozzuolo del Friuli, l'Italian Joint Force Headquarters in Roma, il Centro Simulazione e Validazione dell'Esercito a Civitavecchia e il Regg. Artiglieria a cavallo a Milano ed è stato capo ufficio addestramento dello Stato Maggiore dell'Esercito e vice capo reparto operazioni del Comando Operativo di Vertice Interforze a Roma. Giornalista pubblicista, è divulgatore di temi concernenti la politica di sicurezza e di difesa.

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