Washington esce (solo momentaneamente?) dal Trattato “Cieli Aperti”

L’uscita degli Stati Uniti dal Trattato “Cieli Aperti” (Open Skies) è avvenuta ufficialmente lo scorso 22 novembre a circa sei mesi di distanza dalla dichiarazione del presidente Trump, effettuata alla fine di maggio, di voler abbandonare il club degli Stati che lo avevano sottoscritto ventotto anni fa.

In quella circostanza, il Capo della Casa Bianca aveva mantenuto aperta la possibilità di discutere con i russi alcuni (presunti) problemi sorti nell’applicazione delle misure previste dagli accordi, opportunità questa, evidentemente decaduta considerata la ferrea volontà dell’attuale Amministrazione USA di mettere in discussione tutti i trattati sul controllo degli armamenti negoziati a suo tempo con Mosca, giudicati obsoleti e pericolosi per la sicurezza nazionale.

Questa volta, però, non si tratta di armi nucleari, come nel caso del Trattato INF (Intermediate Range Nuclear Forces Treaty) lasciato al proprio destino lo scorso anno. Infatti, l’oggetto del Trattato “Cieli Aperti” riguarda il monitoraggio delle attività militari effettuate su territori in larga parte europei, e costituisce una delle iniziative di controllo degli armamenti convenzionali più significative negoziate in ambito internazionale dalla fine della guerra fredda.

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Un Tupolev Tu-214ON russo impiegato nell’ambito del Trattato Open Skies

In un’area che comprende la quasi totalità del Vecchio Continente, la Russia asiatica ed il Nord America, ogni Stato che ha sottoscritto i relativi accordi può sorvolare per migliaia di chilometri, anche a bassa quota e senza alcuna limitazione dello spazio aereo, utilizzando aerei equipaggiati con diversi tipi di sensori, i territori di un altro “Stato Parte”, effettuando fotografie aeree. Inoltre, ognuno degli Stati firmatari ha il diritto di ricevere copia dei dati raccolti nel corso di un volo di osservazione effettuato da un altro stato.

Tutto ciò al fine di promuovere e rafforzare ulteriormente l’apertura e la trasparenza degli apparati militari, facilitare il controllo dell’applicazione degli accordi nel campo del controllo degli armamenti convenzionali, come il Trattato sulle Forze Convenzionali in Europa (CFE – Conventional Forces Europe), rendere più agevole la capacità di prevenire i conflitti e di gestire eventuali crisi nell’ambito dei territori degli stati che hanno aderito all’iniziativa.

Il trattato, che ha una durata illimitata, è stato firmato ad Helsinki il 24 marzo 1992 da 27 Paesi europei e del Nord America, membri della NATO o successori del Patto di Varsavia, ma è entrato in vigore solo il 1° gennaio del 2002 in seguito alla deposizione degli strumenti di ratifica da parte della Russia e della Bielorussia. Attualmente annovera 34 Stati parte. L’Italia, lo ha ratificato il 20 settembre 1994. Dal 2002 ad oggi, sono stati effettuati più di 1500 voli di osservazione.

 

L’origine dei “Cieli Aperti”

 L’idea di creare un regime internazionale di osservazione aerea non è recente. Infatti, fu il Presidente Eisenhower a proporre nel 1955, all’Unione Sovietica, un accordo per il sorvolo dei territori di USA ed URSS. L’iniziativa, per la verità, venne presa per scongiurare ciò che gli americani temevano più di ogni altra cosa: un attacco di sorpresa russo o, per meglio rendere l’idea, una Pearl Harbour nucleare.

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Un C-130 francese utilizzato per i voli Open Skies sulla Russia

Infatti, l’Open Skies implicava lo scambio delle mappe delle installazioni militari tra i due Paesi, da verificare mediante reciproche ispezioni aeree. Gli Stati Uniti sapevano che l’arsenale atomico sovietico era in espansione, ma non erano in grado di valutarne le potenzialità offensive dal momento che non disponevano di dati attendibili circa il numero dei bombardieri strategici in possesso dell’URSS, unico mezzo esistente in quegli anni idoneo a sganciare ordigni nucleari (i missili balistici intercontinentali – ICBM entrarono in scena pochi anni più tardi).

D’altronde, anche da parte statunitense, le capacità offensive erano affidate al Comando Aereo Strategico (Strategic Air Command – SAC) i cui bombardieri B-36, B-47 ed una trentina di nuovissimi B-52 erano concentrati in una trentina di aeroporti, e quindi si pensò che anche i russi, per la loro parte, avrebbero espresso un’organizzazione similare le cui caratteristiche si sarebbero svelate, appunto, dopo l’effettuazione dei primi voli di osservazione.

Come è facile immaginare, la proposta fu decisamente respinta dall’URSS poiché avrebbe infranto, fra l’altro, uno dei principi fondamentali della politica estera dell’Unione Sovietica, quello cioè di non accettare alcuna forma ispettiva internazionale, aerea o terrestre, sul proprio territorio.  In realtà, come è oramai noto, la tutela spasmodica del segreto giocava un doppio ruolo: da un lato proteggeva i piani militari e politici, dall’altro, nascondeva l’intrinseca debolezza economica della Russia. Il risultato finale era quello di un indubbio vantaggio per il Cremlino: segreto ed armamenti nucleari bilanciavano la superiore capacità militare degli Stati Uniti.

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Un Antonov-30B Ucraino impiegato nei sorvoli sulla Russia nell’ambito del trattato

Dopo quasi quarant’anni, nel 1989, in un contesto politico militare e con finalità del tutto differenti, la filosofia dell’Open Skies fu nuovamente presentata, in ambito internazionale, da un altro Presidente americano (George H.W. Bush) entrando, questa volta, a pieno titolo e con successo nell’ambito dei più importanti processi negoziali sul controllo degli armamenti convenzionali dei primi anni novanta sviluppati inizialmente tra gli stati della NATO e del Patto di Varsavia e successivamente confluiti, per la maggior parte, in seno all’ Organizzazione per la Sicurezza e Cooperazione in Europa (OSCE) di Vienna, divenendo parte integrante dell’imponente sistema di norme negoziate alla fine della Guerra Fredda e volte a promuovere, in un contesto territoriale paneuropeo, la cooperazione in campo militare rafforzando la sicurezza europea.

 

L’importanza degli accordi

In un momento storico in cui l’Europa fronteggiava avvenimenti politici e militari senza precedenti e potenzialmente destabilizzanti per tutto il continente, si pensò di fornire alla Comunità internazionale un ulteriore strumento di verifica e di cooperazione da collocare a fianco degli importanti regimi di controllo degli armamenti convenzionali che si stavano già negoziando in quegli anni, come il già citato Trattato CFE, e l’iniziativa diede i suoi frutti.

Nel 1991, Romania e Ungheria, già Paesi firmatari del Trattato siglarono un ulteriore accordo, su base bilaterale che ne ricalcava il contenuto senza, però, porre limiti alla risoluzione dei sensori utilizzati nei voli di osservazione, il che facilitò notevolmente l’effettuazione delle missioni, rafforzò la cooperazione tra i due Paesi ed esaltò la “filosofia” dell’Open Skies impostata a suo tempo dai negoziatori.

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Un velivolo statunitense OC-135B impiegato nei voli su Russia e Bielorussia previsti dal Trattato Open Skies

Sempre Romania e Ungheria, nel 1997 con quest’ultima in qualità di Lead Nation, effettuarono voli di prova sui cieli della Bosnia Erzegovina. L’avvenimento, rappresentò uno dei primi esempi di misure per istituire un clima di fiducia nell’ambito degli Accordi di Dayton, coinvolse sia i rappresentanti delle entità politiche oggetto degli accordi balcanici, sia osservatori internazionali che ricevettero, al termine della missione di volo, le fotografie aeree delle installazioni militari di Croazia, Bosnia Erzegovina e Repubblica Serpska.

Successivamente, voli di questo tipo furono organizzati da Stati Uniti e Germania, congiuntamente con la Federazione Russa o effettuati singolarmente da altri Paesi quali la stessa Germania o la Francia. Tutto ciò fu estremamente significativo se si pensa che, a Trattato non ancora entrato in vigore, già si erano poste le premesse per un possibile regime “Cieli Aperti” espressamente dedicato alla regione balcanica. Persino in Sud America, almeno cinque stati manifestarono interesse nello stipulare accordi bilaterali o trilaterali di tipo Open Skies per promuovere la collaborazione in campo militare tra paesi confinanti.

  

La trasparenza non è spionaggio

Riassumendo, possiamo affermare che le misure dell’Open Skies consentono di:

–   mitigare le apprensioni che accompagnano le trasformazioni in campo politico militare di una determinata regione;

–   costituire un deterrente per le violazioni degli altri accordi in materia di controllo degli armamenti, non solo convenzionali;

–   mostrare, da parte dello stato che sottoscrive gli accordi, le intenzioni pacifiche del proprio governo e la propensione alla risoluzione pacifica di controversie politico militari per mezzo di strumenti di cooperazione internazionale.

–   integrare l’attività ispettiva condotta da team terrestri esaltando l’efficacia delle verifiche effettuate in ambito internazionale.

Quest’ultimo aspetto è particolarmente importante. Le immagini Open Skies infatti sono state utilizzate, come già accennato, per agevolare la verifica delle limitazioni imposte dal Trattato CFE e dalla Convenzione sul Bando delle Armi Chimiche.

Nel primo caso una missione “Cieli Aperti” può garantire l’osservazione di un numero rilevante di installazioni militari, sino a raggiungere o addirittura superare il numero di quelle che possono essere visitate in un anno facendo ricorso ai metodi tradizionali “terrestri”. In tale contesto, per esempio, gli esiti delle missioni sono stati utilizzati per verificare le dotazioni di armamenti concentrate in grandi siti all’aperto, mentre i team ispettivi tradizionali hanno rivolto la propria attenzione a quelle mantenute nei ricoveri delle varie basi.

 

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Per ciò che concerne le armi chimiche, le foto dei depositi notificati di tali armi e delle installazioni industriali per la loro produzione, sono state di grande utilità per i team ispettivi che fanno capo alla “Organizzazione per la Proibizione delle Armi Chimiche”, organo previsto dall’omonima Convenzione per effettuare, tra l’altro, anche le attività di verifica di quegli accordi.

In tempi successivi l’ampliamento della NATO ha provocato un’asimmetria nell’applicazione delle misure del trattato, con particolare riferimento ai territori oggetto dei sorvoli, dal momento che i membri dell’Alleanza non si ispezionano l’un l’altro. Pertanto, le missioni Open Skies dei Paesi NATO si sono dirette, inevitabilmente, verso i territori della Federazione russa e dei pochi Stati non appartenenti ad alcun blocco/alleanza, come l’Ucraina, la Georgia e la Bosnia Erzegovina.

 

Fuori, ma forse non per sempre

L’uscita degli Stati Uniti dagli accordi siglati a Helsinki è controproducente per Washington in quanto preclude agli USA la possibilità di effettuare sorvoli sul territorio russo, mentre ai russi rimane garantita la possibilità di osservare le basi americane in Europa. Dall’entrata in vigore del trattato, gli Stati Uniti hanno effettuato più di duecento missioni in Russia mentre Mosca ha effettuato una settantina di sorvoli del territorio statunitense.

In secondo luogo, l’iniziativa di Trump porta con sé un potenziale destabilizzante, sia politico che militare, dell’architettura degli accordi di cooperazione per la prevenzione dei conflitti in Europa negoziati nel corso di un decennio e che sono stati sommariamente descritti.

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Gli sviluppi tecnologici avvenuti in quasi trent’anni dalla data della firma, comprendenti l’avvento dei droni e un’accresciuta capacità della ricognizione satellitare, sono forse in grado di garantire “tecnicamente” gran parte delle informazioni di monitoraggio che sono in gioco. D’altronde, le missioni “Cieli Aperti” sono sempre state complementari delle più complesse missioni di ricognizione spaziali. Rimane il fatto che queste ultime possono essere effettuate solo da un ristretto numero di paesi e la diffusione degli esiti delle osservazioni soggetta a criteri che non sposano la filosofia di condivisione dell’Open Skies.

La vera forza di questo trattato sta nel fatto che, a differenza della maggioranza degli accordi vincolanti sul controllo degli armamenti, non “limita” ma piuttosto rende visibile ciò che altrimenti lo sarebbe molto meno, a tutti i paesi che hanno interesse a condividere informazioni utili a scongiurare una situazione di crisi sviluppando missioni indipendenti. Per questo gli altri 33 sottoscrittori del “Cieli Aperti” sono fermamente intenzionati a mantenere in vita gli accordi nella loro interezza, auspicando che Washington, ravvedendosi, possa confermare anche attraverso questo strumento, il proprio commitment alla sicurezza europea.

Guardando alla storia dell’Open Skies verrebbe spontaneo dire: “negli Stati Uniti è cominciata, e negli Stati Uniti finisce”. Tuttavia, nel momento in cui Trump annunciava la volontà di abbandonare la membership di questa comunità di stati Joe Biden, criticava, a breve giro di posta, la scelta del presidente in carica affermando che, come senatore, aveva sostenuto il trattato in quanto aveva capito che gli Stati Uniti e i propri alleati avrebbero beneficiato il fatto di poter osservare, con breve preavviso, che cosa la Russia e le altre nazioni europee erano intente a fare con le proprie forze armate.

C’è dunque da sperare che il 46° presidente degli Stati Uniti riporti nell’alveo della normalità quello che potrebbe essere stato un semplice incidente di percorso.

Foto OSCE

 

Nato a Vicenza nel 1960, è stato il vice comandante dell'Allied Rapid Reaction Corps (ARRC) di Innsworth (Regno Unito), capo di stato maggiore del NATO Rapid Reaction Corps Italy (NRDC-ITA) di Solbiate Olona (Varese), nonché capo reparto pianificazione e politica militare dell'Allied Joint Force Command Lisbon (JFCLB) a Oeiras (Portogallo). Ha comandato la brigata Pozzuolo del Friuli, l'Italian Joint Force Headquarters in Roma, il Centro Simulazione e Validazione dell'Esercito a Civitavecchia e il Regg. Artiglieria a cavallo a Milano ed è stato capo ufficio addestramento dello Stato Maggiore dell'Esercito e vice capo reparto operazioni del Comando Operativo di Vertice Interforze a Roma. Giornalista pubblicista, è divulgatore di temi concernenti la politica di sicurezza e di difesa.

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