Il crescente ruolo dei contractors nella “guerra dei droni”
Nelle scorse settimane droni turchi ed israeliani acquistati dagli azeri hanno fatto scempio di carri armati, pezzi d’artiglieria e fanteria armeni nella regione contesa del Nagorno Karabakh. Scene simili a quelle di un videogioco che, tuttavia, si concretizzano ormai da tempo su numerosi campi di battaglia.
Per ora, nel comparto droni d’attacco, i principali players sono ancora i governi, ma sempre più i cosiddetti “attori non-statuali violenti” (VNSA) e società private vi stanno entrando con decisione. I primi più o meno autonomamente, le seconde in base a precise necessità ed auspici istituzionali. In particolare di Stati Uniti e Regno Unito che, a fronte di crescenti necessità d’impiego dei loro droni, non riescono a far fronte alla mancanza di piloti se non ricorrendo ai contractors.
La privatizzazione della guerra si sta facendo spazio anche in questo ambito che, per l’estrema sensibilità che lo caratterizza, merita ancora una maggiore attenzione.
Da parte di Washington…
Per quanto riguarda il coinvolgimento di società private nelle operazioni coi sistemi aerei senza pilota bisogna tornare almeno al 2015. Le Forze Armate statunitensi avevano, infatti ingaggiato centinaia di analisti per supportare i militari nella valutazione delle registrazioni provenienti dai velivoli senza pilota. Una sorveglianza di lungo periodo di presunti obiettivi di alto profilo e loro entourages, basata su immagini in tempo quasi-reale o singoli scatti più ravvicinati per poi, eventualmente, fornire informazioni alle forze speciali o convenzionali da utilizzare sul campo.
Con l’ascesa dello Stato Islamico droni ed aerei spia sono arrivati ad inviare anche più di 1.100 ore di videoregistrazioni al giorno da analizzare, portando il Pentagono ad espandere considerevolmente l’impiego di contractors. Un’attività di alto valore in cui circa una persona coinvolta su dieci era un privato. Principalmente ex-militari che, a loro detta, avevano maggiore esperienza rispetto ai colleghi in uniforme che subivano frequentemente variazioni di incarichi. Ritenevano, pertanto di possedere particolari competenze da pubblicizzare anche sui social e siti come LinkedIn; qualcuno è addirittura arrivato ad indicarvi di aver fornito assistenza nell’eliminazione/cattura di High Value Targets.
Tra le società coinvolte un mix tra grossi fornitori della difesa e società più piccole che si occupavano di tecnologia ed intelligence, offrendo analisi d’immagini e tutta una serie di altri servizi che andavano dalla logistica alle traduzioni.
Si pensi a Zel Technologies che forniva più di 100 analisi all’Air Force Special Operations Command per un contratto da 12 milioni di dollari nel solo primo anno, alla MacAulay-Brown incaricata di supportare operazioni di analisi e tracciamento a tempo pieno e L-3 Communications che, ancora nel 2010, si era aggiudicata un contrato quinquennale da 155 milioni con lo Special Operations Command.
E ancora, BAE Systems e Booz Allen Hamilton, ex datrice di lavoro di Edward Snowden. In questi anni, poi la situazione si è evoluta considerevolmente. Verso metà dell’agosto scorso è emerso che a Camp Simba, Kenya il Pentagono si avvale di società private, non solo per l’analisi ma anche per la raccolta diretta di materiale da utilizzarsi per condurre attacchi aerei contro i miliziani di al-Shabab in Somalia.
Nella base statunitense di Manda Bay velivoli da sorveglianza privati si alzano in volo per raccogliere dati, immagini e informazioni su aree destinate a subire attacco o omicidi mirati effettuati con sistemi senza pilota (Unmanned Aerial Systens – UAS).
Tra questi velivoli spicca un Gulfstream di proprietà delle società AC-1425 LLC e Priority 1 Holdings LLC, società che ha ai suoi vertici diversi ex funzionari della CIA e mantiene stretti collegamenti con il mondo della difesa a stelle e strisce.
Dal sito aziendale emerge che le sue attività aeree vengono portate avanti dalla controllata AIRtec Inc., società che si occupa di modifiche ad aerei e di tutta una serie di servizi aviotrasportati – intelligence, sorveglianza e ricognizione – per clienti governativi: attività che l’anno scorso le hanno portato contratti per più di 10 milioni di dollari.
Il Gulfstream in questione è stato acquistato dalla Priority 1 nel 2018, per poi essere modificato dalla AIRtec che l’ha equipaggiato con appositi sistemi per la raccolta di dati ed immagini di alta qualità, sia di giorno che di notte.
Alcune delle società operanti a Manda Bay sono state ingaggiate nell’ambito del Big Safari, programma di gestione, direzione e controllo dell’acquisizione di speciali sistemi d’arma derivati da aerei e sistemi esistenti, attivato dall’USAF nel 1952.
Un programma che ha assegnato loro circa 158 miliardi dal 2008 e che si caratterizza per procedure d’appalto che consentono di designare direttamente il contraente, bypassando le normali procedure di gara. Iter, quindi più opaco, che può elargire contratti a società gestite da ex militari e funzionari dell’intelligence con i giusti collegamenti.
Una di queste sarebbe la L3Harris Technologies che nell’ultimo anno ha ottenuto 4 miliardi e alle cui dipendenze vi erano i due contractors morti nell’attacco di gennaio a Manda Bay, i piloti del velivolo di sorveglianza che è andato distrutto nel medesimo attacco.
Presso la base keniota è presente anche la AEVEX Aerospace, fornitrice sempre di una gamma completa di soluzioni aviotrasportate di intelligence, sorveglianza e ricognizione. Nel 2019 ha ottenuto contratti federali per 44 milioni di dollari e, recentemente, secondo il sito Africa Intelligence, si sarebbe aggiudicata anche un contratto per la fornitura di piloti per i droni della base USAF ad Agadez, Niger. A Manda Bay sono stati avvistati almeno due dei suoi velivoli: un elicottero e un aereo Pilatus.
…e di Londra
Anche il Regno Unito si è affidato alle PMSC. Per far volare i propri droni, Londra non solo è ricorsa all’Aeronautica australiana per ottenere dei piloti “in prestito”, ma anche alla General Atomics, produttrice dei Predator e dei MQ9 Reaper. La società californiana ha stipulato un contratto per la fornitura di personale che effettui le operazioni di decollo e atterraggio dei droni d’attacco britannici in Medio Oriente; presumibilmente schierati presso la base aerea di Ali al-Salem, Kuwait.
A partire da giugno, per la prima volta dal 2008, anno in cui il Regno Unito ha iniziato ad utilizzare droni d’attacco, la RAF ha consentito ai civili di partecipare direttamente all’impiego dei suoi Reaper, contro ciò che resta dello Stato Islamico in Siria e Iraq.
I piloti privati, altamente addestrati e con nulla osta di sicurezza, vengono impiegati come LRE – elementi di recupero e lancio – presso l’aeroporto dove i droni sono di stanza. Essi controllano i Reaper dal decollo fino ad un’altitudine di circa 3.000 piedi – 915 metri – per poi passare i comandi al personale della RAF, situato nel Regno Unito (13th Squadron alla base di Waddington, Lincolnshire) o negli Stati Uniti (39th Squadron alla base di Creech, Nevada) per missioni che possono durare anche fino a 15 ore. I civili riprendono, poi il controllo del drone a circa 5.000 piedi – 1524 m – per l’atterraggio.
Grazie a questo sistema sette equipaggi dell’Aeronautica di Sua Maestà – 21 persone – sono stati rilevati da “posizioni avanzate” per essere impiegati altrove.
Pilota di droni: un lavoro logorante
Teoricamente, la vita di un pilota di droni – qualifica 18xs – dovrebbe essere confortevole e rilassata rispetto a chi opera in prima linea: niente Paesi lontani, trincee polverose, disagi o attacchi nemici.
Quella di un pendolare che, come qualunque altro impiegato, siede davanti allo schermo di un computer e, quando finito, può ritornare a casa, dalla propria famiglia. Eppure, far parte del personale adibito ad un aeromobile a pilotaggio remoto è un incarico logorante. Tanto che il numero di piloti che lascia il servizio è giunto a livelli di record per tutta una serie di motivazioni.
Innanzitutto, l’eccesso di lavoro. I 18xs “volano” 900-1.800 ore all’anno, rispetto ad un massimo di 300 per un normale pilota. Negli ultimi 7-8 anni hanno lavorato 6/7 giorni a settimana per dodici ore al giorno. La pausa che spetta loro (1-2 giorni), poi non è assolutamente sufficiente al proprio recupero o per prendersi cura della famiglia.
La tipologia di lavoro è frustrante. Chiusi per ore in un container di comando, a conoscere e guardare in faccia le proprie vittime, a volte disprezzati dai colleghi ai comandi di velivoli da combattimento e ritenuti “piloti di seconda categoria”.
Vi è poi una mancanza di opportunità addestrative e di carriera, nonché stipendi inferiori fino a 2-4 volte rispetto a quelli offerti dai privati. Ciò rende, sostanzialmente, l’Air Force un vivaio di personale per i contractors del Governo.
Tutto ciò, secondo uno studio del 2011, provoca in circa la metà degli operatori un diffuso malcontento, nervosismo, ansia, depressione e disturbi del sonno con conseguenti ripercussioni sulla sfera affettiva, relazionale e famigliare. Nei casi più gravi, addirittura sindrome da stress post-traumatico (PTSD).
Piloti ed operatori di sensori, così chiedono trasferimenti ad altri incarichi, armi – o alla Air National Guartd o lasciano definitivamente il servizio. All’Air Combat Command sono preoccupati per la previsione di doverne rimpiazzare il 30% all’anno, a causa della sindrome di burnout o logoramento a cui sono sottoposti.
Una carenza cronica ed allarmante che si è fatta sempre più marcata dall’11 settembre, quando le Forze Armate americane hanno iniziato a puntare considerevolmente sui droni e che ha forti ripercussioni anche sui piloti e operatori di sensore ancora in servizio. Un impegno il loro, sempre crescente ma che, tuttavia, almeno dal 2016 non è stato accompagnato da un apprezzabile reintegro di piloti.
Dei 1.652 di cui l’Air Force era autorizzata a disporre nel 2019, si è arrivati a soli 1.320; un gap del 20% che non si discosta molto da quello del 22% del 2015, quando in servizio vi erano solo 908 piloti.
Per quanto riguarda gli operatori di sensore la situazione è ancora più critica. Da un gap del 10% del 2016 si è arrivati a un 28% nel 2019. A fronte, infatti di una crescita autorizzata fino a 1.277 operatori, il loro numero è rimasto sostanzialmente invariato a 919.
A tutto ciò si sta cercando di porre rimedio migliorando le condizioni del personale attualmente in servizio, concedendo incentivi, dirottandovi piloti di aerei e ricorrendo alle società di contractors.
La Royal Air Force, per assicurare l’operatività dei propri droni nonostante la scarsità di piloti ed il preoccupante livello di stress di quelli in servizio, la Royal Air Force ha dovuto inserire tra i propri ranghi piloti dell’Aeronautica australiana e contractors. Oltre a dispiegare più efficacemente il proprio personale in combattimento, potrà così anche portare avanti il suo futuro programma droni dal valore di 1,1 miliardi di sterline.
Londra sta, infatti ingrandendo la propria flotta, passando dagli attuali 9 Reaper a 16 Protector (nella foto sopra). In questo modo, assieme ad un miglioramento delle condizioni di mantenimento di quelli già in servizio ed incentivi, dovrebbe riuscire a racimolare i 45 equipaggi necessari a dare respiro al programma entro fine 2020.
Gli attori non-statuali violenti
Non sono solo i governi o loro incaricati ad utilizzare droni d’attacco; sempre più attori non statuali violenti, infatti sono entrati impropriamente nel club. Il primo tentativo noto di armare un drone da parte loro risale al 1994, quando la setta giapponese Aum Shinrikyo ha tentato di irrorare gas sarin da un drone appositamente progettato.
Numerose sono poi state le valutazioni effettuate da Osama bin Laden ed al-Qaeda sulla possibilità di colpire con questo sistema: al G8 di Genova con un drone esplosivo, il Parlamento britannico con un drone carico di antrace nel 2002 e nuovamente, nel 2008 con tre droni esplosivi contro Campidoglio, Pentagono ed FBI.
Il PKK curdo ha iniziato ad occuparsi di droni armati almeno dal 2016. Nel primo attacco, ad agosto 2017, è stato colpito un avamposto dell’Esercito turco, ferendo due soldati. Ha fatto poi seguito tutta una serie di episodi, tra cui la distruzione di un deposito di munizioni a Semdinli, Turchia costato la vita a 7 soldati di Ankara nel novembre 2018 e la dozzina di attacchi condotta in sole due settimane nel marzo 2019.
Il 12 ottobre 2016 due operatori delle forze speciali curde sono morti, mentre due francesi sono rimasti feriti per l’esplosione di un drone-trappola dello Stato Islamico in Iraq.
Per quanto riguarda un vero e proprio attacco dell’ISIS si deve attendere il gennaio 2017, a Mosul: un ordigno lasciato cadere su di una posizione dell’Esercito iracheno. Sono seguiti numerosi attacchi con piccoli droni e quadrirotori commerciali che hanno rallentato considerevolmente l’avanzata delle truppe anti-ISIS. Secondo la propaganda del Califfato, sarebbe stato di 14 morti e 25 feriti il bilancio di attacchi effettuati tra il 6 e l’8 febbraio 2017.
Nel mirino delle bandiere nere è finito anche un carro armato Abrams iracheno e forze speciali americane, quest’ultime finite per la prima volta in 65 anni – dalla guerra di Corea – sotto attacco aereo nemico.
Operazioni simili sono state condotte anche in Siria, in particolare ai danni della base area russa di Khmeimim. Diversi sciami di droni l’hanno ripetutamente attaccata, arrivando ad uccidere due soldati di Mosca e a distruggerne 7 aerei nel 2018.
Sempre nel 2018 un gruppo di disertori venezuelani ha tentato di assassinare il presidente Nicolás Maduro. Durante un comizio a Caracas, due droni commerciali caricati con un chilo di esplosivo C-4 ciascuno sono esplosi ferendo 7 persone.
I narcos messicani hanno realizzato ed utilizzato droni armati a partire dal 2017. Il 25 luglio 2020 le autorità messicane hanno ritrovato circa due dozzine di quadrirotori in un veicolo abbandonato a Tepalcatepec, Michoacán. Droni, presumibilmente del Cártel de Jalisco Nueva Generación (CJNG), a cui sono stati applicati contenitori tipo Tupperware riempiti di C4 e sfere metalliche per colpire esponenti dei cartelli rivali, in particolare di quello di Santa Rosa de Lima.
Nel gennaio 2019 i ribelli Houthi hanno ucciso con un drone il brigadier generale Saleh Tammah, capo dell’intelligence yemenita ed altri sei alti ufficiali delle forze armate. Tra il maggio e l’agosto dello stesso anno, i ribelli filo-iraniani hanno condotto oltre 50 attacchi in Arabia Saudita. L’episodio decisamente più singolare, però è stato l’attacco alla fregata saudita Al Madinah, avvenuto nel Mar Rosso nel gennaio 2017.
Condotto con un drone marittimo suicida e con un bilancio di due marinai uccisi e tre feriti, esso rappresenterebbe il primo episodio di questo genere.
Il 1° novembre 2020 i talebani hanno ucciso quattro guardie presso il compound del governatore della provincia di Kunduz. Se confermato l’utilizzo di un ordigno esplosivo sganciato da un drone, potrebbe essere considerato il primo impiego pubblico da parte degli studenti coranici che, finora, li avevano utilizzati per ricognizioni e riprese propagandistiche. In realtà, già a maggio un’altra persona era stata uccisa presso lo stesso compound, presumibilmente da un altro drone. Ciò che emerge, comunque, è la proliferazione di una nuova tattica d’attacco nel Paese che potrebbe avere serie conseguenze.
Anche se la maggior parte degli attacchi ha avuto bilanci relativamente modesti, con i droni i VNSA possono arrecare danni anche molto significativi.
I separatisti del Donbass (o i russi?) sarebbero riusciti a sganciare una granata alla termite sul deposito di munizioni di Balakliya. Drone o atto di sabotaggio come riferito da Kiev, l’attacco ha provocato la detonazione di 83.000 tonnellate di munizioni, quantificabili in danni per 1 miliardo di diollari.
Allo stesso modo, il 14 settembre 2019 i ribelli Houthi (o gli iraniani?) avrebbero attaccato con una trentina di droni le strutture petrolifere della società saudita Aramco a Abqaib e Khurais. Un attacco che ha causato la perdita di centinaia di milioni di dollari al giorno, dimezzando la capacità produttiva saudita ed obbligando Ryad a ricorrere alle proprie riserve petrolifere per garantire le esportazioni.
Considerazioni
L’uso di droni d’attacco da parte degli Stati Uniti, iniziato dalla CIA nell’ottobre 2001, dal 2013 è stato esteso anche al Pentagono. Dal 2004 ad oggi tra Pakistan, Afghanistan, Yemen e Somalia gli Stati Uniti avrebbero condotto almeno 14.000 attacchi, eliminando tra le 8.800-16.900 persone tra cui 910-2.200 civili.
Giunto ormai alla terza amministrazione presidenziale, il loro impiego non accenna a diminuire, anzi. Il presidente Trump, non solo ha eliminato alcune limitazioni introdotte da Obama conferendo maggiore libertà – possibilità di colpire anche in Paesi in cui gli USA non sono impegnati militarmente, di attaccare anche obiettivi secondari, di non pubblicare il numero di vittime civili e meno autorizzazioni da richiedere – ad un meccanismo già opaco e sregolato, ma ha anche incrementato considerevolmente gli attacchi.
Questo soprattutto in Somalia dove, dopo l’attacco di Manda Bay in cui sono stati uccisi due contractors ed un soldato americano, gli strikes erano già 42 a metà 2020; rispetto ai 63 di tutto il 2019.
Nelle ultime settimane, inoltre gli Stati Uniti stanno cercando di estendere il loro raggio d’azione all’interno del Kenya, per colpire gli al-Shabab anche durante le loro operazioni occasionali nel Paese, sia in un’ottica offensiva che difensiva.
Il coinvolgimento di contractors nelle operazioni dei droni di combattimento è estremamente controverso. Sebbene essi possano prendere unicamente delle decisioni di carattere tecnico, relative alla raccolta di informazioni o sul funzionamento del drone lasciando “premere il grilletto” ai militari (combattenti legittimi), i detrattori sostengono che i contractors siano entrati comunque nella cosiddetta “kill chain”.
Fornendo, infatti informazioni utilizzate negli attacchi, essi prenderebbero comunque parte direttamente alle ostilità e dovrebbero, quindi essere considerati combattenti illegittimi.
Lo U.S. Africa Command afferma, invece che l’uso di contractors per operazioni di intelligence, sorveglianza e ricognizione non riguardi cosiddette situazioni “cinetiche”, che comportano l’impiego di forza letale, e sia quindi legale. Secondo il professore Sean McFate, ex contractor “lo standard etico di chi può premere il grilletto è andato progressivamente erodendosi negli ultimi 30 anni.”
Ancora nel 2015, in occasione delle prime collaborazioni, si era ventilata, infatti la possibilità di un ruolo molto più significativo per i contractors per gli anni a venire, secondo un preciso piano del Pentagono per far fronte a crescenti necessità. Secondo Chris Style, ex militare ed attuale operatore privato una tale evoluzione “è abbastanza ineluttabile”, ed “una progressione naturale”.
Perciò, la preoccupazione che possano arrivare a premere il grilletto o che il loro processo di reclutamento, selezione e gestione non avvenga in maniera adeguata e al di fuori della catena di commando militare è alta. Così come i droni hanno consentito anche a Paesi meno ricchi e potenti di poter disporre di mezzi per il dominio aereo, questo è altrettanto vero per gli attori statuali violenti.
Addirittura, tale impiego da parte loro è molto più diffuso, variegato e sofisticato rispetto a quanto si era finora pensato. Questo perché sono sempre state considerate esclusivamente piattaforme di tipo militare, trascurando quelle di natura hobbistica o commerciale. In questo modo, infatti la diffusione di droni si limitava a considerare solo tre gruppi terroristici mediorientali sponsorizzati dall’Iran: Hezbollah, Hamas e ribelli Houthi. Estendendo le tipologie considerate, invece il numero comprende almeno 40 diversi gruppi diffusi in tutti i continenti.
Quelli prevalentemente utilizzati dai VNSA, infatti sono droni civili, hobbistici o commerciali, per la loro accessibilità (non richiedono autorizzazioni), economicità (poche centinaia di dollari) e facilità d’uso (requisiti tecnici o infrastrutturali minimi).
Essi rappresentano per questi gruppi una nuova e pericolosa opportunità, nonché una maggior sfida per le forze di sicurezza. Il direttore dell’FBI, Christopher Wray ha riferito al Senato statunitense di un forte interesse delle organizzazioni terroristiche nel loro impiego e, vista la frequenza d’uso all’estero, ci si aspetta che la minaccia possa diventare tangibile anche negli Stati Uniti.
Pietro OrizioVedi tutti gli articoli
Nato nel 1983 a Brescia, ha conseguito la laurea specialistica con lode in Management Internazionale presso l'Università Cattolica effettuando un tirocinio alla Rappresentanza Italiana presso le Nazioni Unite in materia di terrorismo, crimine organizzato e traffico di droga. Giornalista, ha frequentato il Corso di Analista in Relazioni Internazionali presso ASERI e si occupa di tematiche storico-militari seguendo in modo particolare la realtà delle Private Military Companies.