Il PIL del “Talebanistan”

Il 12 settembre 2020 sono iniziati i tanto attesi colloqui intra-afgani a Doha, in Qatar, sede che ha rappresentato per anni la sponda franca dove si sono svolti gli incontri, in una prima fase tra i rappresentanti degli Stati Uniti, i talebani, successivamente tra questi ultimi e gli inviati del governo legittimo afgano. I punti cruciali delle trattative in corso, che proseguono con lentezza, sono moltissimi. Quali le modalità per stabilire il-cessate-il-fuoco, fissarne le regole, gestirlo e verificarne il rispetto, e sanzionare chi lo viola.

E’ il vincolo basilare per Kabul: solo dopo il-cessate-il-fuoco si potrà avviare il resto della trattativa, oltre a questo snodo principale sul tavolo ci sono questioni importantissime come il sistema scolastico aperto a tutti, la salvaguardia dei diritti delle donne e delle minoranze (soppresse in passato dal regime talebano) e la questione delle formazioni guerrigliere da inglobare nell’esercito nazionale. Come fare?

Questione complessa e delicata. Una situazione in parte paragonabile forse allo scioglimento delle FARC colombiane, ma nel caso afghano probabilmente molto più difficile da gestire in considerazione dalla debolezza cronica del governo di Kabul, rispetto a quello di Bogotà. Intanto la guerra continua: tra il 21 e il 22 settembre, 57 soldati del Afghan National Army e almeno ottanta guerriglieri talebani sono morti in duri scontri avvenuti nella provincia di Uruzgan ed in molte altre zone del paese.

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A colloqui appena intavolati, si sono contati 94 civili uccisi e 240 feriti, in 24 province, nelle sole prime due settimane di settembre. In ottobre e novembre il trend non è certo scemato, anzi gli attacchi sono proseguiti.

Come per i due micidiali assalti, a distanza di tempo ravvicinata, contro le istituzioni scolastiche e universitarie. Anche le cellule dell’“Isis afgano” hanno messo del loro in questi nuovi massacri. Ancora tanto sangue sulle possibili trattative di pacificazione, segnali della precaria situazione in Afghanistan, laddove dal 2014 i livelli di insicurezza sono aumentati ancora di più, in parte mascherata dalla narrativa dei mass-media sui colloqui in corso a Doha.

A questa situazione si aggiungono le conseguenze della disastrosa pandemia che ha colpito anche questa nazione: si calcola che su dieci milioni di abitanti oltre un terzo sia stato infettato dal virus. In un contesto di un sistema sanitario più che precario e dove i talebani sfruttano cinicamente la situazione, con loro interventi di welfare al fine di guadagnare consensi e accrescere il potere.

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Strategia del resto adottata dalle mafie in varie parti del mondo. Nel frattempo, l’Amministrazione Trump, nell’ottica della sua strategia di disimpegno dai gravosi impegni militari all’estero, aveva annunciato una drastica riduzione delle truppe presenti in Afghanistan e Iraq, decisione riconfermata da poco tempo, per cui entro poche settimane il contingente americano in terra afgana si ridurrà a 4/5mila soldati. Annuncio che ha suscitato una (rara) esternazione pubblica di disaccordo da parte del segretario generale della NATO.

Pur con i colloqui e tutto il contorno delle forme ufficiali e della partecipazione della comunità internazionale è il Talibanistan che ha prevalso, il gruppo estremista sunnita che ha creato ed è riuscito a mantenere uno stato nello stato, lo ha rafforzato e possiede una situazione finanziaria floridissima.

 

Il PIL dello stato-ombra talebano

Le indagini dell’ONU, nel 2017, hanno stimato che il “prodotto interno lordo” del Talibanistan ammonta a 1,6 miliardi di dollari l’anno, mentre il governo di Kabul incassa, annualmente, dalle tasse ed altre voci circa 2,2 miliardi di dollari. A sua volta, nel 2018, Radio Free Europe ottenne un rapporto confidenziale della NATO in cui si dichiarava che, con alte probabilità, i talebani, avevano raggiunto l’indipendenza finanziaria e militare: “the Taliban has achieved, or is close to achieving, financial and military independence”.

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Il Talibanistan non è quindi solo il notissimo produttore e distributore di eroina e altre droghe, le cui enormi distese di campi di papaveri da oppio sono stati oggetto di un duro contrasto militare, ma è (e non da ieri) uno stato ombra, che ha provveduto a diversificare il suo business illegale.

Grazie al controllo di ampia parte delle aree rurali del paese e all’impiego della violenza in tutte le sue forme, i talebani hanno incrementato le fonti di fatturato, incassando notevoli somme dallo sfruttamento illegale delle miniere.

Il figlio del Mullah Omar, l’ambizioso Mullah Mohammad Yaqoob cha ha cumulato sia la carica di capo militare, sia di responsabile delle finanze, di fatto un ministro-ombra, e come nuovo passo ulteriore sta brigando, da tempo, per assumere la leadership del movimento. Yaqoob ha costituito nel 2016 un comitato per massimizzare le entrate e i numeri parlano da soli.

Uno spaccato del “PIL talebano”, riportato dalla BBC, vede questa suddivisione: 464 milioni di dollari dalle miniere, 416 milioni di dollari dalle droghe, 240 milioni di dollari da “donazioni” di Stati stranieri e singoli individui, 240 milioni di dollari dalle esportazioni, 160 dalle ‘tasse talebane’ e altri 80 dal settore immobiliare. Il balzo più forte è nel settore minerario con gli incassi saliti dagli appena 35 milioni di dollari nel 2016 agli attuali 464 milioni di dollari.

 

La “Miners Inc.” dei talebani

I proventi dell’industria estrattiva e la sua vendita tramite canali opportunamente, ma nemmeno poi tanto, mascherati è divenuta una delle fonti di guadagno tra le più rilevanti per il Talibanistan. Una strategia molto abile, occorre dirlo e soprattutto in prospettiva viste le davvero grandi ricchezze minerarie presenti nel paese a cui si aggiungono giacimenti di petrolio anch’essi da sfruttare e che suscitano forti appetiti.

La ricchezza (e anche la sfortuna secondo altri) di questo tormentato paese asiatico poggia sulle sue vastissime miniere: minerali ferrosi, pietre preziose, talco, marmi, rame, litio, ‘terre rare’ ed anche dei giacimenti di petrolio, tutto da esplorare e sfruttare. Analisi e studi del U.S. Geological Survey e della U.S. Task Force for Business and Stability Operations hanno valutato in almeno 1.000 miliardi il gigantesco potenziale del settore minerario afgano. Numeri molto superiori stima il ministero afgano delle miniere e petrolio, per i quali ammontano a tremila miliardi di dollari.

Nel 2006 in particolare una dettagliata analisi con apposita strumentazione scientifica, ha condotto alla seguente stima delle riserve minerarie afgane: 60 milioni di tonnellate di rame, 2,2 miliardi di ferro, 1,4 miliardi di “terre rare” come il Lantanio, il Cerio e il Neodimio.

A questo patrimonio naturale si aggiungono giacimenti di alluminio, oro, argento, zinco, mercurio, litio. Impiegate per la produzione di fibre ottiche laser, schermi a colori, magneti, superconduttori, microchip e per trasformare il movimento delle pale eoliche in elettricità, le “terre rare” vedono un massiccio impiego nel comparto automotive, per le vetture ibride, laddove cruciale è il neodimio così come il lantanio, il disprosio e il terbio.

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Per esempio a Khanneshin, nella parte sud-ovest del paese, nella provincia del Helmand, è stato individuato un giacimento di carbonatite del valore di 89 miliardi di dollari: le carbonatiti si caratterizzano per l’altissima probabilità di contenere minerali rari e/o esclusivi di questo tipo di rocce. In uno dei più recenti audit al Congresso l’Ispettore Generale, John Sopko, al vertice del SIGAR (Special Inspector General Afghanistan Reconstruction) ha dichiarato che: “le miniere in funzione soffrono di inefficienza manageriale e soprattutto della corruzione. Ne abbiamo contate circa 1400 che agiscono illegalmente in tutto il paese, di cui 710 nella sola zona di Kabul.

Per contrasto il governo afgano ha censito appena trecento miniere legali. Inoltre nonostante le norme specifiche, varate dal 2014, il settore minerario continua ad essere controllato da élite politiche, signori della guerra, personale militare e delle forze di polizia.”

E le circa trecento miniere legali generano tasse per appena 42 milioni di dollari, un’inezia, pari al due per cento delle tasse complessive raccolte dal governo.

Le altre sono miniere di realtà piccole e medie, gestite e organizzate da imprese illegali senza nessuna autorizzazione o controllo governativo. La situazione per chi ci lavora è disastrosa, l’uso costante degli esplosivi a discapito delle norme più basilari causa morti e feriti. Come nel caso delle miniere di talco e onice, i lavoratori, ovviamente sottopagati, sono protetti pochissimo, sottoposti giornalmente sia alle polveri generate dall’uso degli esplosivi sia alle polveri insite nel tipo di miniera in cui lavorano. Ugualmente i danni ambientali sono enormi.

I talebani estorcono denaro imponendo “il pizzo” per la “protezione” delle miniere. I minerali vengono esportati illegalmente, tramite le strade che portano all’onnipresente ‘santuario’ pakistano, snodo fondamentale anche di questo mercato illegale. Il grosso degli incassi è dato dall’export, non solo verso il Pakistan ma anche verso l’Iran e la Cina.

I lucrosi incassi permettono l’esportazione dei minerali lungo una funzionale catena di corruzione che corre parallela alle rotte logistiche. Ancora più facile è trasportare e collocare agli acquirenti oro e pietre preziose. Le esportazioni illegali di marmo, onice e alabastro sono anche ‘incentivate’ dalle tariffe ufficiali pari la 30% del valore della merce. Invece lo smercio illegale di lapislazzuli è incentivato dai prezzi di vendita che, a seconda della qualità della pietra, schizza da 1 a 1.000 dollari al chilo.

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Queste vicende non sono tuttavia fatti nuovi nella tormentata storia afgana. Negli anni Ottanta durante la guerra contro i sovietici, i mujaheddin presero il controllo delle miniere del Badakhshan e della Valle del Panjshir proprio per finanziarsi.

Il governo di Kabul non è riuscito a valorizzare queste grandi risorse del paese mentre i talebani lo stanno facendo da diverso tempo. Oltre alle terre rare, tra queste risorse appetibili vi è il litio, con giacimenti nella provincia di Ghazni, componente fondamentale per la fabbricazione delle batterie per le auto elettriche.

In questa ottica, negli ultimi anni i talebani hanno puntato a controllare quelle province con le maggiori risorse minerarie: il nord Badakhshan con i suoi lapislazzuli, così come per l’oro, zinco e piombo nella regione del Helmand, teatro per tanti anni di feroci scontri.

Lo stesso vale per i giacimenti di talco e marmo nel sud del Nangarhar, per queste ultimi due risorse parliamo di almeno di 750mila tonnellate l’anno che passano illegalmente il confine pakistano per andare a una pletora di acquirenti, per esempio nel caso del talco è ambito da chi produce cosmetici, vernici e plastiche. Queste ricchezze del sottosuolo spiegano anche i durissimi scontri nella provincia del Nangarhar (ricca di miniere di talco), tra truppe governative, talebani e le formazioni dello IS-K (Stato Islamico Daesh-Khorasan).

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Il governo di Kabul ha siglato dal 2008 con il consorzio tra la Metallurgical Corporation of China e la Jiangxi Copper Corporation, un contratto trentennale da 3 miliardi di dollari per lo sfruttamento delle miniere di rame (una risorsa notoriamente molto importante) di Mes Aynak, nella provincia di Logar, quaranta chilometri a sudest di Kabul. Questo sito minerario ha subito un costo crescente per la sua sicurezza passando dagli iniziali 120 uomini ai circa 1.750 dedicati alla protezione, un segnale indubbio delle grandi difficoltà di gestione e conduzione di attività di questo tipo.

Il recentissimo rapporto dello scorso agosto della UNDP (United Nations Development Programme) ha riaffermato chiaramente che l’industria estrattiva è la seconda fonte di incassi dopo il traffico delle droghe: una vera miniera d’oro in tutti i sensi. Il report ha rivelato le sei risorse dal grande valore commerciale: lapislazzuli, talco, onice, cromite, rame e petrolio.

E’ dunque palese che se il settore minerario venisse affidato, nella futura condivisione del potere, ai talebani, quest’ultimi potranno rapidamente eguagliare in incassi il governo di Kabul. I talebani vestono sempre più spesso i panni degli uomini d’affari grazie al controllo di molte risorse unito al controllo di circa il 60% dell’Afghanistan.

 

Il narco-stato

Ad oggi il “narco-stato” talebano produce oppio ed eroina che fruttano una media di oltre 400 milioni di dollari l’anno. Gli Stati Uniti hanno speso dal 2001 una media di 1,5 milioni dollari al giorno per combattere le produzioni di oppio ed eroina: somme da capogiro per ottenere ben poco.

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Le operazioni di bombardamento dei laboratori di produzione si sono rivelati sforzi vani, anche l’impiego dei B-52 e degli F-22 Raptor è stato criticato dal SIGAR, risultando dubbia la quantità effettiva di droghe distrutta e quindi l’impatto concreto sulle finanze talebane.  I talebani sono stati scaltri nello spostare i laboratori velocemente e il poter contare sul retroterra (inattaccabile) pakistano resta sempre uno dei fattori decisivi.

Nel 2006 vennero distrutti circa 250 laboratori, con la collaborazione degli esperti della DEA, l’agenzia anti-droga statunitense e ogni volta la produzione è continuata. Nonostante tutti gli sforzi sia delle agenzie delle Nazioni Unite, sia delle forze ISAF/NATO la produzione e distribuzione di droghe in pratica non ha mai visto riduzioni davvero significative. Nel 2012 si è raggiunto il massimo degli interventi di questo tipo con 669 operazioni per poi calare negli anni successivi.

Vi è stato un calo della produttività per ettaro coltivato nel 2018, un 20% in meno come ha calcolato l’UNDOC ma ”a causa della siccità che colpito alcune regioni del paese” come ha spiegato la stessa agenzia delle Nazioni Unite.

Con la futura co-abitazione tra governo legittimo e movimento talebano è lecito auspicare un calo significativo delle violenze ma sarà difficile assistere a una riconversione massiva delle coltivazioni di papavero da oppio per la loro elevata reddittività e gli interessi in gioco che generano proventi del tutto illegali.

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Un reportage di Foreign Policy ha evidenziato un generalizzato incremento della criminalità comune in Afghanistan: estorsioni, rapimenti, rapine mentre volantini propagandistici disseminati dai talebani annunciano che con loro al potere “questi crimini cesseranno”.

In questo contesto è imminente una nuova sessione di incontri dei donatori per decidere le somme da versare allo stato afgano per aiutarlo, come avviene da decenni poiché le donazioni internazionali costituiscono l’entrata finanziaria principale del governo legittimo. Intanto i talebani detengono l’autonomia finanziaria e sembrano vicini ad entrare nella “stanza dei bottoni” di Kabul.

Foto: Emirato dell’Afghanistan, Pajhwok, ISAF, SIGAR, Twitter e Khaama Press

 

Marco LeofrigioVedi tutti gli articoli

Nato a Roma nel 1963, laurea in Scienze Politiche, si occupa da oltre dieci anni di geopolitica, strategia, guerre e conflitti, forze armate straniere, storia navale, storia contemporanea, criminalità organizzata, geo-economia. Ha scritto decine di articoli, analisi e saggi su questi argomenti. E' membro attivo della Società Italiana di Storia Militare. Dal 2011 è co-autore, con Lorenzo Striuli, di diversi articoli di storia navale sulla Rivista Marittima della Marina Militare. Collabora fin dal 2003 con Analisi Difesa.

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