Ostaggi in Libia: la lezione turca a un’Italia sorda (e cieca)
Il portavoce dell’armata del generale Khalifa Haftar, cioè dell’Esercito nazionale libico (LNA), Ahmed al Mismari, ha annunciato oggi che la nave turca Mabrouka, battente bandiera giamaicana, è stata rilasciata dopo la perquisizione e l’interrogatorio del suo equipaggio. Il colonnello al-Mismari ha dichiarato in una nota che la nave turca, il cui fermo da parte delle motovedette di Haftar risale al 5 dicembre, quando il cargo venne dirottato nel porticciolo di Raas al-Hilal (nella foto sotto), 80 chilometri a ovest di Derna e 40 a nord di al-Baida, sede del governo della Cirenaica.
La nave “è stata rilasciata dopo che è stata pagata una multa per aver navigato nelle acque territoriali libiche senza autorizzazione nonché per essere entrata in una zona di operazioni militari” ha aggiunto al-Mismari. Secondo l’LNA la nave cargo, che aveva a bordo 17 uomini di equipaggio, di cui 9 cittadini turchi, era entrata in una zona proibita al largo di Derna.
Il portavoce militare aveva sottolineato nei giorni scorsi che la nave si stava dirigendo verso il porto di Misurata, una delle basi utilizzate dai militari turchi.
Il sequestro della nave da parte delle forze di Haftar ricorda quello dei due pescherecci italiani con a bordo 18 uomini d’equipaggio (8 cittadini italiani e 10 tra tunisini e senegalesi) e non stupisce quindi che il rilascio della nave turca abbia generato rabbia e sconcerto a Mazara del Vallo, anche se la vicenda, pur coinvolgendo un numero simile di ostaggi, ha obiettivamente sfumature e un epilogo decisamente diversi.
La nave turca e il suo equipaggio erano stati subito incriminati per precisi reati, i pescatori italiani dopo tre mesi e mezzo (oltre 100 giorni) di prigionia ancora no.
Alla nave turca è stata comminata una multa mentre per liberare navi e marittimi italiani pare che Haftar voglia la liberazione di quattro rampolli di importanti clan che sostengono il feldmaresciallo, uomini che in Libia vengono definiti “calciatori” e che da noi sono in galera con condanne per reati gravissimi, incluso l’omicidio, legati allo sfruttamento dell’immigrazione illegale. Uno “scambio di prigionieri” che si addice più ad accordo tra due nemici dopo un cessate il fuoco che a un sequestro arbitrario di cittadini italiani allo scopo di ricattare e umiliare Roma.
Un’altra differenza, non irrilevante, è rappresentata dal fatto che mentre l’Italia non è “nemica” di Haftar, accolto più volte a Roma (dove all’ospedale del Celio sono stati curati moltissimi suoi militari feriti nella battaglia di Bengasi contro i jihadisti) dalle nostre massime autorità che lo hanno spesso incontrato in Cirenaica, la Turchia decisamente lo è.
Lo ha ribadito anche il 9 dicembre, poco prima ci autorizzare il rilascio della nave, lo stesso al-Mismari che parlando ai microfoni di Sky News Arabia ha detto che “siamo in guerra con la Turchia” e “abbiamo dichiarato un cessate il fuoco” solo “per rispetto degli sforzi della comunità’ internazionale e il desiderio dei libici di porre fine al conflitto”.
La differenza più marcata tra il sequestro della nave turca (nella foto sotto) e quello di pescherecci italiani emerge però dalla diversa reazione dei due Stati coinvolti.
La Turchia ha fatto sapere che la nave trasporta rifornimenti umanitari e ha subito condannato “con forza” il sequestro della una nave commerciale chiedendo ad Haftar di liberare “senza esitazioni” i membri del suo equipaggio pena “gravi conseguenze”.
“Ricordiamo ancora una volta che se gli interessi turchi in Libia vengono presi di mira, ci saranno gravi conseguenze e gli autori saranno considerati obiettivi legittimi”, ha ammonito Ankara.
Ben più morbida la reazione italiana al punto che dopo 100 giorni di prigionia né Palazzo Chigi né la Farnesina hanno usato termini inequivocabili e perentori paragonabili a quelli utilizzati dai turchi e che solitamente ogni Stato utilizza in simili circostanze.
Roma ha di fatto informato il mondo che prendere di mira gli interessi (e i cittadini) italiani non comporta per nessuno “gravi conseguenze” e chi attua questa minaccia non verrà considerato un “obiettivo legittimo”. Sul piano diplomatico il ministero degli Esteri non ha mai nominato un inviato speciale in Libia, figura la cui istituzione era stata annunciata un anno or sono dal ministro Luigi Di Maio poi rimasta lettera morta, che oggi avrebbe forse potuto essere di qualche utilità nella gestione della crisi dei pescatori.
Roma mostra così la sua inconsistenza, una resa incondizionata a chiunque abbia interesse a minacciare l’Italia, al punto che il governo Conte non ha neppure dichiarato che “nessuna opzione venga esclusa” per riportare a casa i connazionali: formula solitamente utilizzata da sempre in circostanze simili per esprimere una deterrenza credibile che include anche opzioni militari graduali, dal blitz per liberare gli ostaggi a successive rappresaglie.
Ankara mantiene a tempo pieno tre o quattro navi da militari di fronte alle coste libiche utilizzando le basi nazionali e quella libica nel porto di Misurata e secondo alcune voci un paio di fregate erano state avvistate negli ultimi giorni al largo di Raas al-Hilal, cittadina comunque “a tiro” anche dei cacciabombardieri F-16 turchi.
Anche l’Italia schiera navi militari al largo della Libia (dispositivo Mare Sicuro) ma non ha mai mostrato bandiera e muscoli nelle acque di fronte a Bengasi, dove sono detenuti i pescatori di Mazara del Vallo.
Da mesi assistiamo in Italia a una “guerra di campanile” tra Aeronautica e Marina circa gli F-35B ma la domanda che dovremmo porci nessuno è cosa ce ne facciamo dei costosissimi cacciabombardieri “stealth” se poi non ne mandiamo neppure uno a dare la sveglia all’alba al feldmaresciallo Haftar con un “bang” da muro del sono superato sopra il suo quartier generale? Giusto per ricordargli che deve liberare i nostri pescatori.
Cosa ce ne facciamo della altrettanto costosa forza navale più potente e moderna del Mediterraneo se non mettiamo neppure una FREMM di fronte a Bengasi?
E’ indubbio che ci siano approcci diversi tra Ankara e Roma, che infatti hanno dato risultati molto differenti: il sequestro della nave turca e del suo equipaggio è durato appena 5 giorni, quello dei pescatori e dei pescherecci italiani ha superato i cento….
Inevitabile contestare al governo italiano quel calabraghismo un po’ conigliesco tipico di chi teme di dover pagare in termini politici e mediatici le conseguenze di un’iniziativa muscolare anche solo minacciata non escludendo il ricorso “a tutte le opzioni”.
In realtà la situazione appare anche più grave perché Roma ha adottato una strategia basata sulla diplomazia, tesa a sensibilizzare l’Europa e gli sponsor del feldmaresciallo Haftar: una strategia fondata però su presupposti sbagliati.
La Ue ha dimostrato ancora una volta la sua inutilità in politica estera e in termini di credibilità e deterrenza chiedendo solo ieri (e distrattamente) “l’immediato rilascio dei pescatori italiani trattenuti dall’inizio del settembre senza che sia stato avviato alcun procedimento legale”, come si legge nelle conclusioni adottate dal Consiglio europeo.
Quanto a russi, francesi, egiziani e emiratini, che sostengono Haftar, è necessario comprendere che si tratta di nostri competitor e rivali in Libia, come lo sono sul versante opposto del fronte libico Turchia e Qatar. Chiaro quindi che l’umiliazione dell’Italia in quella che un tempo fu la nostra “quarta sponda” favorisce la penetrazione di tutti questi paesi.
Al contrario, proprio la minaccia di “gravi conseguenze”, la non esclusione di “nessuna opzione” e il far balenare una muscolarità militare che certo l’Italia è in grado di esercitare, potrebbero indurre gli alleati di Haftar a esercitare forti pressioni per scongiurare un’escalation che rischierebbe di sfuggire al controllo.
Un’escalation che non sarebbe nell’interesse di nessuna delle “potenze” che esprimono un’influenza in Libia, specie ora che lo stallo nei negoziati per la soluzione della crisi minaccia di ridare voce alle armi sul fronte di Sirte/Abu-Grein.
Per fare un solo esempio, l’Egitto non potrebbe accettare incursioni e blitz stranieri (men che meno turchi) in Cirenaica, cioè nel cortile di casa, senza perdere la faccia e senza essere costretto a robuste risposte militari.
Ne è consapevole il governo turco i cui esponenti hanno spessore, esperienza e coraggio anche nella gestione degli interventi militari per tutelare o ampliare influenza e interessi nazionali. Esprimendo subito ferme minacce e una credibile deterrenza nei confronti di Haftar, Ankara ha raggiunto in pochi giorni l’obiettivo di riportare a casa nave ed equipaggio.
Foto: Pinterest, AA/Daily Sabah, LNA, Ministero degli Esteri, Anadolu e Twitter
Gianandrea GaianiVedi tutti gli articoli
Giornalista bolognese, laureato in Storia Contemporanea, dal 1988 si occupa di analisi storico-strategiche, studio dei conflitti e reportage dai teatri di guerra. Dal 1991 al 2014 ha seguito sul campo i conflitti nei Balcani, Somalia, Iraq, Afghanistan, Sahara Occidentale, Mozambico e Sahel. Dal febbraio 2000 dirige Analisi Difesa. Ha collaborato o collabora con quotidiani e settimanali, università e istituti di formazione militari ed è opinionista per reti TV e radiofoniche. Ha scritto diversi libri tra cui "Iraq Afghanistan, guerre di pace italiane", “Immigrazione, la grande farsa umanitaria” e "L'ultima guerra contro l’Europa". Presso il Ministero dell’Interno ha ricoperto dal 2018 l’incarico di Consigliere per le politiche di sicurezza di due ministri e un sottosegretario.