Possibili sviluppi dopo la riappacificazione tra le monarchie del Golfo
Venti di riappacificazione soffiano nella penisola arabica. Lo scorso 5 gennaio nel corso del summit del Consiglio di Cooperazione del Golfo gli stati della regione hanno firmato quello che il principe saudita Mohammed bin Salman ha definito “un accordo per la solidarietà e la stabilità” dell’area, che mette di fatto fine a più di tre anni di embargo al Qatar da parte delle altre monarchie sunnite del Golfo.
L’embargo diplomatico, economico e logistico era stato imposto a Doha da Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Bahrein ed Egitto nel 2017 a causa dell’asserita vicinanza del Qatar a Teheran e a gruppi radicali islamici come Hamas e Hezbollah, nonché del suo attivismo nella fase delle primavere arabe a sostegno della Fratellanza Musulmana e di altri movimenti islamisti.
L’incontro di riappacificazione è avvenuto nel governatorato di al-Ula nell’omonima città in Arabia Saudita e ha coinvolto – oltre ad Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Bahrein ed Egitto – anche Oman e Kuwait, che in questi anni hanno cercato di mantenere aperto il dialogo tra le parti.
Il principe bin Salman ha sottolineato la necessità di promuovere lo sviluppo della regione, “per affrontare le sfide che ci circondano, in particolare la minaccia posta dal regime iraniano con il suo programma nucleare e i missili balistici”.
Il ministro degli esteri saudita ha poi affermato di fronte alla stampa che tutte le questioni in sospeso, riguardo le relazioni diplomatiche ed i voli reciproci, torneranno alla normalità”. La compagnia aerea degli Emirati Arabi Uniti, Etihad, ha annunciato che riprenderà i voli per il Qatar a partire dal 15 febbraio
I paesi del Golfo hanno firmato formalmente un accordo di stabilità e solidarietà di cui Kuwait e Stati Uniti – che il principe saudita ha ringraziato pubblicamente – svolgono il ruolo di garanti. Poco prima dell’incontro degli stati del Golfo Persico l’Arabia Saudita aveva riaperto i propri confini via terra, aria e mare con il Qatar, decisione che era stata annunciata dal ministro degli Esteri del Kuwait per permettere all’emiro qatarino Tamim bin Hamad al-Thani di partecipare alla riunione.
Alla svolta avrebbe contribuito anche Jared Kushner (nella foto sotto) , genero di Donald Trump, nell’ambito delle più vaste trattative di Washington in Medio Oriente. Il Consigliere Kushner si era recato in Arabia Saudita in veste di rappresentante della Casa Bianca il 30 novembre per persuadere i membri del Consiglio di Cooperazione del Golfo ad allentare le sanzioni nei confronti del Qartar (dove si sono svolti i negoziati tra Washington e i talebani afghani).
Lo stesso Trump si era proposto come mediatore della crisi, anche a fronte degli importanti interessi strategici americani nel piccolo paese del Golfo considerato dall’amministrazione Trump, un “partner eccellente”. Doha ospita infatti circa 13,000 soldati e un centinaio di aerei americani nella base di al-Udeid, la più grande nella regione.
Il primo dicembre dell’anno scorso è stato tra l’altro firmato un accordo militare tra Doha e Washington relativo alle attività marittime, alla presenza del Capo di Stato Maggiore delle Forze Armate del Qatar e del Comandante delle Forze Navali di CENTCOM in Medio Oriente. Doha si riallinea quindi al blocco arabo costituito dalle monarchie riunite nel Gulf Cooperation Council e dall’Egitto e anche se non tutti i dettagli dell’accordo sono ancora stati divulgati, le fonti riferiscono di un memorandum in tre punti.
L’Arabia Saudita e i suoi alleati si impegnano a revocare pienamente l’embargo nei confronti del Qatar mentre quest’ultimo rinuncia a chiedere un risarcimento per l’isolamento che ha dovuto subire sul piano politico-diplomatico e sospende le azioni legali in corso relative al boicottaggio. Inoltre, tutte le parti si impegnano a fermare la reciproca campagna stampa denigratoria.
Ci si potrebbe chiedere a questo punto se l’accordo possa essere propedeutico a ripristinare una reale cooperazione militare a livello regionale.
Anche se gli esperti militari sono positivi riguardo al seguito degli accordi di al-Ula, la possibilità di raggiungere un consenso tra gli stati della regione riguardo ad una cooperazione rafforzata nell’ambito della difesa resta improbabile a causa delle minacce regionali fortemente asimmetriche e delle divergenti aspettative dei vari partner.
Innanzitutto gli accordi nulla prevedono in tema di rinnovo o attivazione di contratti militari tra Doha e gli altri membri del GCC e nemmeno tra una possibile cerchia ristretta di questi ultimi. Gli accordi si limitano a raccomandare al Consiglio di Cooperazione del Golfo di “intraprendere ulteriori sforzi in vista dell’attuazione di una difesa comune e di sistemi di sicurezza comuni”.
Una dichiarazione di intenti che delega all’organizzazione multilaterale regionale il compito di fare passi concreti nella direzione di una cooperazione regionale in materia.
Il 41esimo summit del GCC ha approvato un emendamento all’articolo 6 dell’Accordo di Difesa che muterà il nome da “Comando Unificato delle Forze di Scudo della Penisola” a “Comando Militare Unificato del Consiglio di Cooperazione del Golfo”. Anche questo comando avrà sede a Riyadh, a testimoniare l’evidente forza catalizzatrice dell’Arabia Saudita nella regione in materia militare e non solo. La missione del nuovo comando deve ancora essere definita, come pure il suo ambito d’applicazione.
Per esempio, non è chiaro se vi sarà una differenza per quanto riguarda il mandato in tempi ‘normali’ rispetto a quello vigente in ‘situazioni di crisi’. Allo stesso modo non è chiaro se la “giurisdizione” del comando si limiterà ai confini degli stati membri o si allargherà all’esterno includendo l’intera regione del Golfo/Penisola Arabica o addirittura l’intero Medio Oriente.
In questo quadro vi sono anche diverse incognite legate al diverso grado di flessibilità nei confronti del Qatar da parte dei vari paesi coinvolti negli accordi al-Ula. L’Egitto, pur assecondando ufficialmente la riconciliazione (Il Cairo ha annunciato che riaprirà presto la sua ambasciata a Doha), è verosimilmente riluttante ad accettare compromessi che possano indebolire in qualsiasi modo la sua posizione nella regione tenuto conto che il Qatar è stato il principale sponsor del precedente governo egiziano guidato da Mohamed Morsi e dalla Fratellanza Musulmana, oggi fuorilegge in Egitto e considerato movimento terroristico.
Gli Emirati, ed in particolare Abu Dhabi, pur restando fedelmente allineati sulle posizioni di Riyadh, non nascondono i sospetti circa il sostegno fornito da Doha ai gruppi islamisti. Il ministro degli Esteri degli Emirati ha detto chiaramente a seguito degli accordi di al-Ula alla televisione al-Arabiya che c’è prima bisogno di «recuperare fiducia e coesione».
Anche il Bahrein resta guardingo: l’emirato si è ripetutamente scontrato con Doha per la questione dei confini marittimi, e diversi sarebbero stati gli incidenti negli ultimi mesi. Più di una volta la guardia costiera del Qatar ha intercettato imbarcazioni provenienti dal Bahrein mentre ancora a fine dicembre Doha aveva riferito al Segretario Generale dell’ONU che aerei da combattimento di Manama avrebbero violato lo spazio aereo nazionale.
Dall’altra parte nessuna delle richieste dell’Arabia Saudita e dei i suoi alleati al Qatar sono state rispettate. Queste comprendevano la chiusura della televisione al-Jazeera (considerata veicolo della propaganda islamista) e la chiusura della base militare gestita dalla Turchia, dove sono tuttora presenti più di 5.000 soldati di Ankara. Un contingente ritenuto da molti una garanzia chiesta da Doha all’alleato Recep Tayyp Erdogan (che grazie ai petrodollari qatarini ha finanziato l’espansionismo turco dal Mediterraneo all’Oceano Indiano al Caucaso) contro il rischio di un’invasione da parte degli stati arabi del GCC.
Ciò nonostante, la cooperazione militare tra gli stati del Golfo non si era mai completamente arrestata, nemmeno nei tempi più bui della crisi. Secondo un colonnello del Kuwait, lo scambio di informazioni, la cooperazione a livello di intelligence, e più in generale la cooperazione nel settore della difesa sono continuati a causa delle strette interrelazioni che legano i paesi del Golfo. Come riporta lo stesso colonnello, ufficiali del Qatar sono sempre stati presenti a vario titolo nelle forze del Kuwait, le quali – anche durante l’embargo verso Doha – hanno ripetutamente fatto visita al Segretariato Generale e al Comitato Militare del Consiglio di Cooperazione del Golfo a Riyadh, partecipando a tutte le attività e colloqui ufficiali e non.
Gli accordi di al-Ula potrebbero essere prodromici ad un’intensificazione della cooperazione militare regionale, seppur settoriale, per esempio nell’ambito dell’intelligence applicata all’antiterrorismo. Non si tratta in ogni caso di un semplice accordo politico-diplomatico e tanto meno di un accordo con finalità prettamente economiche.
Possibili nuove aree di cooperazione potrebbero riguardare il settore ricerca e sviluppo e la cybersecurity. La cooperazione militare a livello regionale su ampia scala resta però problematica. Gli Stati Uniti avevano a più riprese incentivato la cooperazione bilaterale e multilaterale nella regione e il loro coordinamento attraverso CENTCOM.
Nel 2017 si era cominciato a parlare seriamente di una “NATO araba” come organizzazione di difesa collettiva sul modello dell’Alleanza Atlantica tra gli stati del Golfo, Egitto e Giordania. Quest’idea, frenata poi dalla crisi con il Qatar, non è mai stata abbandonata anche se progressi concreti non sono stati fatti, se non limitati al campo dell’information/intelligence sharing.
Difficile che gli accordi di al-Ula, oltre alle dichiarazioni di intenti, modifichino completamente le dinamiche nella regione. Quello che manca tra gli stati del Golfo sono priorità strategiche comuni ed una proposta concreta e specifica per la leadership militare del Consiglio di Cooperazione del Golfo.
La stessa nascita del GCC rappresentava secondo alcuni analisti più un progetto arabo nato per contrastare l’Iran che un reale progetto di cooperazione tra le monarchie del Golfo. Nel corso degli anni il trio guidato dall’Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Bahrein ha lavorato per approfondire un approccio strategico regionale.
Un patto di mutua difesa è al momento ancora improbabile visto che molti stati della regione perseguono i loro interessi nazionali attraverso trattative e accordi bilaterali in tema di sicurezza con attori esterni quali Stati Uniti, Russia, Israele e singole potenze europee.
Complice anche l’emergenza Covid, non sono previste nuove grandi esercitazioni militari del GCC per il 2021. Gli accordi di al-Ula non fanno riferimento a nuovi ambiti di cooperazione in tal senso, per quanto è verosimile pensare che – se la pace nel Golfo dovesse durare – questi potrebbero riguardare, oltre al terrorismo, anche minacce asimmetriche come quella posta dall’Iran. Le esercitazioni North Thunder del 2016 a cui avevano partecipato 20 stati arabi ed islamici, tra cui Arabia Saudita e Qatar, potrebbero fornire da esempio in tal senso. Una seconda edizione, sotto l’egida del Consiglio di Cooperazione del Golfo, potrebbe affinare il progetto di unificare le procedure e integrare le forze del GCC per la stabilità della regione.
Non tutti gli stati firmatari degli accordi di al-Ula potrebbero però essere d’accordo con la piena partecipazione del Qatar ad esercitazioni militari complesse a causa dei suoi rapporti con Iran e Turchia.
Gli sviluppi negli Stati Uniti con l’insediamento dell’Amministrazione Biden ovviamente potrebbero essere determinanti per gli equilibri. Intanto Trump ha ordinato pochi giorni prima della fine della sua presidenza che Israele venga aggiunto alla lista delle nazioni sotto responsabilità del Central Command (CENTCOM). Iniziativa da leggere in chiave anti-iraniana e nel quadro degli sforzi intrapresi per rafforzare il processo di pacificazione arabo-israeliano dopo gli Accordi di Abramo mediante i quali Israele ha normalizzato i suoi rapporti con Bahrein ed Emirati Arabi Uniti.
Imprevedibile resta invece la futura relazione Riyadh-Washington dopo che Biden ha accennato a una linea più dura nei confronti dell’Arabia Saudita accusandola di violazione dei diritti umani e di una politica estera troppo aggressiva. Anche alla luce di questi sviluppi quella firmata ad al-Ula è una pace che non scioglie del tutto i nodi legati alla sicurezza nella regione del Golfo pur aprendo prospettive positive in tal senso. Dopo la firma dell’intesa molti fatti testimoniano l’impatto del concreto riavvicinamento tra le parti.
Il 30 gennaio il vicepresidente del Consiglio sovrano di transizione del Sudan, Mohamed Hamdan Dagalo alias “Hemeti” è stato in visita ufficiale in Qatar, la prima visita di un funzionario del governo sudanese dopo il crollo del regime di Omar al Bashir nell’aprile 2019.
Il nuovo governo sudanese finora non aveva contatti con Doha e il 26 giugno 2019 l’allora Consiglio militare di transizione di Karthoum aveva rifiutato di ricevere il ministro degli Esteri del Qatar: un cambio di rotta frutto degli accordi di al-Ula.
Doha ha espresso la sua “ferma condanna” dell’attacco missilistico condotto il 23 gennaio dai ribelli sciiti yemeniti Houthi contro la capitale dell’Arabia Saudita Riad e ha offerto i suoi buoni uffici per mediare tra gli arabi e ‘Iran e soprattutto tra Washington e Teheran: offerta subito accolta con entusiasmo dall’Iran.
Non c’è dubbio però che Qatar mantenga la sua “singolarità”, ad esempio con l’annuncio che Doha aumenterà del 50% il suo contributo annuo a Gaza per il 2021 portandolo a 360 milioni di dollari annui che serviranno per “pagare gli stipendi dei dipendenti, fornire aiuti finanziari alle famiglie bisognose e gestire centrali elettriche per limitare il peggioramento della situazione umanitaria e le difficili condizioni di vita nella Striscia”.
Il trasferimento dei fondi avverrà come sempre tramite Israele: anche se tra lo Stato ebraico e il Qatar non ci sono formali relazioni diplomatiche, Gerusalemme ha sempre permesso il trasferimento di soldi e gli aiuti alla Striscia, anche se il finanziamento rafforzerà inevitabilmente Hamas che controlla militarmente e politicamente il territorio.
Foto: Corona Saudita, GCC, al-Arabiya e Arab Center Washington
Sigrid LipottVedi tutti gli articoli
Classe 1983, Master in Relazioni Internazionali e Dottorato di Ricerca in Transborder Policies IUIES, ha maturato una rilevante esperienza presso varie organizzazioni occupandosi di protezione internazionale delle minoranze, politica estera della UE e sicurezza internazionale. Assistente alla cattedra di Storia delle Relazioni Internazionali e Politica Internazionale presso l'Università di Trieste, ricercatrice post-dottorato presso il Centro di Studi Europei presso l'Università Svizzera di Friburgo, e junior member presso la Divisione Politica Europea di Vicinato al Servizio Europeo per l'Azione Esterna. Lavora attualmente presso Small Arms Survey a Ginevra come Ricercatrice Associata.