Combattere all’infinito o ritirarsi? Il dilemma dell’Occidente di fronte alla guerra ai jihadisti

Andarsene lasciando il terreno ai jihadisti condannando alla sconfitta le deboli forze governative locali, oppure restare e combattere pur senza una prospettiva di vittoria a breve o medio termine?

Il dilemma investe tutto l’Occidente nelle campagne contro i jihadisti in Afghanistan, Iraq e Sahel ma l’impressione è che manchi una concreta consapevolezza della posta in gioco e della portata strategica delle decisioni che verranno assunte.

Un ritiro degli occidentali dalle aree di confronto con i jihadisti verrebbe interpretato come un tradimento dai governi locali con un conseguente crollo della fiducia e del tasso di affidabilità riconosciuto a USA ed Europa e di certo galvanizzerebbe ovunque le milizie islamiche accentuando la minaccia diretta contro l’Europa e l’Occidente.

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Il mese scorso il comandante del Central Command statunitense, responsabile per le operazioni in Iraq, Siria e Afghanistan, il generale Kenneth McKenzie, ha accusato i talebani di essere responsabili delle violenze in Afghanistan.

“L’Isis impallidisce rispetto a quello che stanno facendo i talebani. Stanno scatenando una serie di attacchi in tutto il Paese contro le forze afgane, con omicidi mirati in diverse aree urbane.

La violenza non è diretta a noi o ai nostri amici della coalizione Nato, è diretta contro le forze militari e di sicurezza afghane e anche contro il popolo” – ha detto McKenzie. Il Pentagono ha accusato già il 29 gennaio i talebani di non aver mantenuto le promesse che includono la riduzione degli attacchi e il taglio dei legami con gruppi terroristici come al-Qaeda.

I Talebani, che hanno lanciato una serie di offensive soprattutto nel Sud, hanno risposto esortando gli USA a rispettare l’accordo di Doha raggiunto con Donald Trump che prevede il ritiro delle truppe americane dall’Afghanistan entro maggio in cambio di garanzie di sicurezza.

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L’Amministrazione Biden sembrerebbe valutare una revisione dell’accordo ma non è ancora chiaro se si tratti di una rivalutazione dell’intera campagna militare o solo di una ripicca nei confronti dell’amministrazione precedente.

Kirby aveva ribadito che l’amministrazione Biden vuole mantenere l’impegno preso con l’accordo. “Il segretario alla Difesa è stato chiaro nella sua audizione al Senato che dobbiamo trovare una fine ragionevole e razionale a questa guerra, e questo deve avvenire attraverso un accordo negoziale che coinvolga il governo afghano”.

Il segretario di Stato, Antony Blinken, ha annunciato invece una revisione dell’accordo per “comprendere esattamente gli impegni che sono stati presi dai Talebani e gli impegni presi da noi”.

Al di là delle sfumature del linguaggio politico, la questione appare molto chiara, almeno in termini militari: il ritiro degli USA e degli alleati determinerà un attacco talebano su vasta scala teso a scardinare le difese delle forze di Kabul e a riprendere il controllo della nazione centro-asiatica.

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I russi e soprattutto le repubbliche ex sovietiche dell’Asia Centrale, da sempre attenti alle vicende afghane, temono che una vittoria talebana consenta poi un ampio allargamento del jihad oltre i confini settentrionali afghani.

Se gli americani mostrano incertezze e titubanze anche la NATO non può che accodarsi. “Stiamo affrontando molti dilemmi e non ci sono opzioni facili.

Non abbiamo preso una decisione finale sulla nostra presenza futura, ma dato che la scadenza del 1° maggio si avvicina, continueremo a consultarci e a coordinarci insieme come Alleanza” ha detto il 18 febbraio il segretario generale della NATO, Jens Stoltenberg, dopo il summit dei ministri dell’Alleanza Atlantica.

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Per Stoltenberg, la Nato “lascerà l’Afghanistan solo quando sarà il momento giusto”, la priorità “è sostenere il dialogo e gli impegni per la pace”, che rappresentano “l’unico percorso per la pacificazione” del Paese nel quale “gli Alleati sono andati assieme e se ne andranno assieme”.

“Nella mia recente visita in Afghanistan” – ha affermato il ministro della Difesa italiano, Lorenzi Guerini – “ho registrato l’apprezzamento delle autorità afghane per quello che abbiamo fatto in questi anni e la loro preoccupazione per il rischio di vanificare tutti i progressi fin qui fatti”.

In questo clima Germania e Italia, cioè i maggiori contributori dopo gli USA all’Operazione Resolute Support rispettivamente con 1.300 e 700 militari, sembrano pronte a un prolungamento della missione in Afghanistan che però non muterebbe la sua natura che le impone compiti di addestramento e consulenza ma non di combattimento.

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Appare invece chiaro che il lento ma costante logoramento delle forze di sicurezza afghane richiederebbe un ritorno in forze degli alleati sui campi di battaglia afghani.

Certo nessuno si aspetta che la NATO torni a schierarvi 140 mila militari (100 mila dei quali statunitensi) come nel 2011, ma sarebbe probabilmente sufficiente dislocare “battle group” a livello reggimento multi arma con elicotteri, artiglieria, fanteria leggera, blindati oltre a supporto aereo in ognuna delle sei regioni militari afghane per assicurare il necessario appoggio in combattimento ai soldati di Kabul.

Si tratterebbe di un impegno limitato per la coalizione occidentale in termini di truppe, mezzi e costi finanziari ma prolungato a tempo indefinito e quindi politicamente e socialmente arduo da sostenere per un Occidente che ha faticato a digerire anche le limitate perdite subite in 20 anni di guerra ai jihadisti.

In Iraq e Siria la situazione non è meno incerta che in Afghanistan. Mentre lo Stato Islamico sta tornando a essere attivo e sempre più organizzato e letale, la presenza degli USA risulta sempre meno gradita sia alle forze del governo siriano (che le considerano invasori) sia alle truppe turche che hanno occupato parte del nord di Siria e Iraq (che le ritengono amiche dei “terroristi” curdi) sia alle milizie irachene scite filo iraniane (che attaccano con razzi e mortai le basi della Coalizione).

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Per dare un segno di discontinuità con l’Era Trump, l’amministrazione Biden ha inviato 200 militari in più in Siria Orientale (dove gli americani sono meno di un migliaio), valuta di inviare qualche rinforzo in Iraq, dove sono presenti appena 2.500 militari USA, come in Afghanistan.

Forze in ogni caso insufficienti a costituire un deterrente credibile o ad addestrare e appoggiare sul campo di battaglia le truppe governative locali.

Per questo, se la Casa Bianca dovesse rinunciare al ritiro dovrà procedere a un nuovo rafforzamento dei contingenti, specie quello in Afghanistan, chiedendo di nuovo un aiuto agli alleati della NATO e rinnovando un tira e molla strategico che ha reso inutili le vittorie del passato e inconsistenti le capacità operativa messe in campo. Un contesto che sta caratterizzando, ridicolizzandolo, il ventennale impegno bellico USA e NATO contro il jihad.

Del resto in Medio Oriente a Washington è richiesto di superare la profonda ambiguità che ha caratterizzato l’intervento contro lo Stato Islamico: gli USA devono decidere se il nemico è davvero l’IS e i jihadisti oppure l’Iran, il governo siriano di Bashar Assad e la Russia che hanno combattuto “senza se e senza ma” le milizie islamiste.

Lo stesso dilemma lo affronta in questi mesi la Francia nel Sahel. Il presidente Emmanuel Macron, ha annunciato il 16 febbraio al vertice del G5 Sahel a N’Djamena, che la presenza militare francese nel Sahel verrà rivista, come chiedono in molti a Parigi, ma non immediatamente.

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“Evoluzioni senz’altro significative saranno apportate al nostro dispositivo militare a tempo debito ma non nell’immediato”, ha dichiarato Macron”.

L’Operation Barkhane contro i jihadisti del Sahel non subirà quindi riduzione, per ora: impegna 5.100 militari con 500 blindati, oltre 400 veicoli logistici, una ventina di aerei e una quarantina di elicotteri che affiancano le forze di Mali, Niger, Burkina Faso, Ciad e Mauritania (G5 Sahel), oltre ai caschi blu dell’ONU in Mali. Nella regione sono presenti anche forze militari statunitensi, peraltro in fase di riduzione in Africa.

Un impegno logorante pagato da Parigi con 55 caduti, centinaia di feriti e costi che hanno superato il miliardo annuo senza che le battaglie vinte abbiano portato alla sconfitta decisiva del nemico e senza che i partner europei siano scesi in campo con truppe e mezzi consistenti.

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Se escludiamo piccoli contingenti cechi, estoni, svedesi e presto anche italiani alla Task Force Takuba di forze speciali, la campagna contro i jihadisti di al-Qaeda (Gruppo di sostegno all’Islam e ai musulmani e la Katiba Macina) e Stato Islamico (Stato Islamico nel Grande Sahara) è rimasta un “affaire” francese.

Eppure basta dare un’occhiata alla mappa per comprendere che arginare i jihadisti nel Sahel sarebbe interesse comune a tutti gli europei e che quella campagna dovrebbe essere combattuta in forze da tutta l’Europa non solo dalla Francia. Combattuta con forze di entità ragionevole e nell’ambito di uno sforzo politico, diplomatico ed economico in quella regione.

Una vittoria dei jihadisti in questa ragione aumenterebbe la pressione sulle nazioni del Nordafrica, già pesantemente esposte alla minaccia jihadista, e sull’Europa Meridionale.

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L’ampliamento del raggio d’azione delle forze jihadiste è già di fatto una realtà: nel novembre 2020 il direttore della Direzione generale della sicurezza esterna (DGSE), Bernard Emié, ha affermato che al-Qaeda sta sviluppando un “progetto di espansione” verso il Golfo di Guinea, in particolare in Costa d’Avorio e in Benin.

Nel gennaio 2020 al vertice di Pau la Francia aveva annunciato l’invio di 600 militari in rinforzo nel Sahel ed aveva indicato nello Stato Islamico nel Grande Sahara il nemico principale da sconfiggere: un anno dopo Parigi pone l’accento sulla necessità di combattere le milizie di al-Qaeda rafforzatesi al punto che i governi di Mali, Niger e Burkina Faso prevedono ormai di aprire negoziati con gli insorti. Esattamente come hanno fatto gli USA e poi il governo di Kabul con i talebani. Il risultato è sotto gli occhi di tutti.

Eppure appare evidente che il fronte del Sahel rappresenta per l’Europa quello che il fronte siriano rappresenta per la Russia: la sua caduta porterebbe i jihadisti alle porte di casa nostra.

@GianandreaGaian 

Foto: Ministero Difesa Francese, Ministero Difesa Estone, Ministero Difesa Svedese, Ministero Difesa italiano e NATO

 

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Giornalista bolognese, laureato in Storia Contemporanea, dal 1988 si occupa di analisi storico-strategiche, studio dei conflitti e reportage dai teatri di guerra. Dal 1991 al 2014 ha seguito sul campo i conflitti nei Balcani, Somalia, Iraq, Afghanistan, Sahara Occidentale, Mozambico e Sahel. Dal febbraio 2000 dirige Analisi Difesa. Ha collaborato o collabora con quotidiani e settimanali, università e istituti di formazione militari ed è opinionista per reti TV e radiofoniche. Ha scritto diversi libri tra cui "Iraq Afghanistan, guerre di pace italiane", “Immigrazione, la grande farsa umanitaria” e "L'ultima guerra contro l’Europa". Presso il Ministero dell’Interno ha ricoperto dal 2018 l’incarico di Consigliere per le politiche di sicurezza di due ministri e un sottosegretario.

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