Ritiro delle truppe dall’Afghanistan: solo un problema logistico?

La conclusione di una missione internazionale che non abbia raggiunto gli obiettivi prefissati (end state) è sempre oggetto di polemiche e critiche in quanto considerata un inutile spreco di vite umane e di risorse (vds. missione UNOSOM in Somalia 1992 – 1995) se non un ulteriore problema per la stabilità regionale (vds. attacco alla Libia di Gheddafi nel 2011).

A tale considerazione occorre tener conto che il ripiegamento dall’Afghanistan è sempre stato un momento delicatissimo da cui molti eserciti sono usciti subendo gravi perdite.

Gli Afghani hanno sempre combattuto al di fuori di ogni regola, colpendo l’avversario nel momento di sua massima fragilità reattiva, e con qualsiasi espediente, privilegiando imboscate e attacchi improvvisi.

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La ritirata britannica da Kabul nel gennaio 1842, nell’ambito della prima guerra anglo-afghana, si è trasformata in una disfatta dove solo poche decine di persone, di una forza di oltre 16.500, riuscirono a raggiungere Jalalabad (allora nei territori dell’impero anglo-indiano).

La stessa situazione si è verificata con il ritiro delle forze sovietiche nell’inverno 1988/1989, malgrado fossero stati presi accordi con le formazioni mujahideen. I Russi dovettero combattere durante le fasi del rientro per mantenere la libertà di movimento.

Non bisogna sottovalutare, inoltre, non avendo rispettato il termine del 1° maggio per il ritiro di tutte le truppe straniere (come previsto dagli Accordi di Doha del 29 febbraio 2020), la ripresa delle azioni ostili/intimidatorie – sospese da circa un anno – con tattiche simili a quelle utilizzate dalle milizie paramilitari pro-iraniane in Iraq (Forze di mobilitazione popolare), quali il lancio di razzi sulle basi e attacchi alle autocolonne i cui responsabili potrebbero anche essere fazioni di insorti contrarie all’accordo per creare dissidi e provocare una reazione da parte delle forze multinazionali. Una eventualità già preannunciata dal “portavoce” degli stessi Talebani.

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Non sono da escludere anche episodi di green on blu, ovvero azioni di fuoco degli stessi militari governativi nei confronti dei reparti stranieri per la convinzione di essere stati abbandonati.

Uno studio condotto dal Comando della missione ISAF nel 2012 su questo fenomeno (c.d. insider attacks) ha evidenziato che uno dei motivi era dovuto alla percezione degli afghani di sentirsi traditi dal ritiro dei militari della NATO iniziato quell’anno.

Il ripiegamento dovrebbe essere attuato secondo precise intese con il legittimo governo afghano e, ovviamente, con i Talebani (che controllano parte del territorio), nella speranza che siano rispettati da quest’ultimi, per evitare di dare il segnale di abbandonare a sé stesso quel Paese, come è avvenuto quando il governo del Presidente della Repubblica Democratica dell’Afghanistan, Mohammad Najibullah Ahmadzai, è stato travolto nell’aprile 1992 dalle formazioni mujahideen, anche a seguito del tradimento di alcuni suoi generali.

Senza sottovalutare l’eventualità che le aree abbandonate dai contingenti multinazionali siano occupate da altre formazioni di insorti/terroristiche (due realtà che spesso identificano gli stessi gruppi) che non accettano gli Accordi di Doha.

 

Gli insorti

In Afghanistan operano tre distinte entità di insorti e/o terroristi di matrice sunnita ma dal differente background che si contendono il potere: i Talebani, un movimento autoctono prevalentemente di etnia pashtun con profonde radici nella società locale; al-Qaeda, un network terroristico internazionale; l’ISIS (o Daesh), una formazione terroristica di provenienza Medio Orientale che cerca di instaurare un califfato nella Regione (Korasan Province).

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Secondo valutazioni statunitensi e delle Nazioni Unite sono una ventina i gruppi terroristici attivi nel Paese asiatico, che annoverano tra le loro fila numerosi militanti stranieri, tra cui 6-7.000 pakistani e alcune centinaia provenienti dal Bangladesh, Cina, India e Myanmar.

I periodici rapporti del UN Analytical Support and Sanctions Monitoring Team, dedito al monitoraggio dei gruppi terroristici nel mondo, confermano inoltre lo stretto legame – per i reciproci benefici – tra al-Qaeda e i Talebani (rifornimenti e addestramento in cambio di protezione).

Alle tre citate entità di insorti/terroristi di matrice sunnita (al-Qaeda, Talebani, ISIS) è comparsa una nuova formazione chiamata Liwa Fatemiyoun (anche detta Fatemiyoun Division), creata nel 2014 dal corpo dei Guardiani della Rivoluzione Islamica Iraniana e composta quasi esclusivamente da emigrati afghani sciiti in Iran, impiegata in Siria e Iraq per combattere lo Stato Islamico.

Con la neutralizzazione dell’ISIS in Medio Oriente questi miliziani hanno iniziato a rientrare in Afghanistan per difendere la minoranza sciita (Hazara) dagli attacchi dei jihadisti sunniti.

 

Il ritiro

Sul piano prettamente militare il ritiro (drawdown) dei contingenti stranieri (erano 36 a fine febbraio 2021) – redeployment (forze) e retrograde (materiali) – dovrebbe rispettare il principio all together in & all together out  (il ripiegamento unilaterale dall’Iraq disposto dal Presidente del Governo spagnolo pro-tempore Zapatero nel 2004 ha leso fortemente l’immagine delle forze armate spagnole e creato problemi di presenza sul territorio) e basarsi su di una articolata e coordinata pianificazione operativa, logistica e tecnica.

Il drawdown comporta una preventiva decisione sulla destinazione dei materiali e degli equipaggiamenti tra quelli da riportare in Patria e da lasciare sul posto e quelli da distruggere, anche con il supporto di assetti logistici specialistici, inviati dall’Italia, per procedere al loro confezionamento e ripiegamento (da concludere prima dell’avvio del rientro).

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Tale valutazione deve inserirsi nell’ambito di un accordo con il governo afghano per la cessione/chiusura delle infrastrutture attualmente occupate con la definizione dei tempi e delle modalità di coordinamento dei movimenti da concordare con gli Alleati e gli Afghani (e i Talebani) per non creare sbilanciamenti nel controllo del territorio.

Non avendo l’Afghanistan sbocchi al mare tutti i movimenti dovranno avvenire via aerea. l porti più vicini, quelli di Karachi e di Gwadar in Pakistan, distano oltre 1.000 km di rotabili insicure e spesso in cattive condizioni e richiederebbero interminabili autocolonne.

Il tentativo effettuato nel marzo 2011 di ricorrere al vettore ferroviario per il trasporto dei materiali, utilizzando le linee del “corridoio nord”, che attraversa Slovenia, Croazia, Ungheria, Ucraina, Federazione Russa, Kazakistan, Uzbekistan e Turkmenistan giungendo sino a poche decine di chilometri dalle basi italiane dell’ovest afghano, non ha avuto esito positivo per problematiche doganali e di clearance transfrontaliere.

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È appena il caso di sottolineare che i tempi del drawdown sono influenzati dalla disponibilità di assetti aerei per la mobilità strategica (intertheater) e tattica (intratheater) della Nazione e dalle capacità aeroportuali delle infrastrutture di partenza.

Dovrà anche essere prevista la bonifica ambientale e da ordigni inesplosi (UXO – Unexploded Ordnance) dei compound abbandonati e dei poligoni, la cui responsabilità risale ad ogni Nazione sulla base delle direttive NATO, del Governo afghano e, soprattutto, nazionali (se più stringenti).

 

La sfida logistica

È auspicabile prevedere, al momento dell’inizio dei movimenti, sia un’attività di carattere umanitario a favore della popolazione locale (per evitare tentativi d’ingresso nelle basi per saccheggio o per trovare protezione) sia la possibilità di accogliere e trasferire in Italia il personale locale (e familiari) che ha collaborato con le unità nazionali (interpreti, personale logistico addetti alle pulizie, ecc.) per il concreto timore che possano essere eliminati in quanto considerati traditori.

La recente storia insegna che dopo una estenuante conflitto, aggravato dalla guerra civile, il ritiro delle forze straniere non è mai indolore malgrado le affermazioni concilianti degli avversari. Lo si è visto in Algeria nel 1962 e nel 1975 nel Vietnam del Sud, solo per citare i casi più eclatanti.

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Una problematica da risolvere ben prima della partenza dovrà essere l’individuazione di chi deve farsi carico dei compiti “non militari” svolti dai contingenti (transfer of tasks). Al termine della missione ISAF (dicembre 2014) erano oltre 300 tali compiti assolti dalle forze multinazionali (riforma del settore della sicurezza; gestione aeroporti e controllo spazio aereo; supervisione gestione delle carceri, disarmo, smobilitazione e reinserimento; ecc.).

L’estrazione da un’area ostile potrebbe anche comportare il supporto di un altro contingente per consentire al comandante dell’unità in uscita di dedicarsi esclusivamente alle attività di ripiegamento (riorganizzazione e configurazione del personale, delle attrezzature e del materiale) che, seppur pianificate in tutti i vari aspetti, possono presentare imprevisti in fase esecuzione.

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L’operazione dovrebbe essere organizzata tenendo conto di:

  • preposizionare forze a elevata prontezza in una “base di transito” sita in uno dei Paesi confinanti (ad esempio, Termez in Uzbekistan, Dushambe in Tajikistan), negoziandone precedentemente l’uso, per farvi stazionare una robusta QRF (Quick Reaction Force) interforze (Forze aerotattiche, Aviotruppe, Forze Speciali) per fronteggiare eventuali emergenze durante il ripiegamento;
  • immettere in Teatro forze combat – con capacità antisommossa e sanitaria – per stabilire un perimetro difensivo dell’area da cui far partire il grosso del contingente, le quali saranno estratte successivamente con l’ausilio degli assetti stazionati sulla base d’appoggio esterna (esigenza in corso di valutazione anche da parte del Pentagono);
  • conservare/assumere il controllo dell’aeroporto di partenza (APOE) per la gestione diretta dei voli sino a termine esigenza;
  • mantenere sino all’ultimo la condivisione dell’intelligence con gli Alleati e con il Governo locale.

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È una modalità attuata in precedenti occasioni, come è avvento in Somalia in occasione del ritiro delle residue unità della missione UNOSOM con l’Operazione United Shield (gennaio – marzo 1995).

In tal caso, le regole d’ingaggio (RoE) e i caveat (vincoli nazionali) dovranno essere gli stessi e dovrà essere stabilito quando effettuare il ToA (Transfer of Autority) tra il comandante del contingente in uscita (supported) e quello dell’operazione di estrazione (supporting).

La cessazione delle ostilità, o delle operazioni, raramente avviene istantaneamente. Sia come parte del cessate il fuoco o come risultato di negoziati politici, le decisioni prese in merito al termine delle operazioni e il calendario del ritiro determineranno il ritmo e la natura del drawdown.

Un ritiro effettuato secondo scadenze politiche senza rispettare i tempi dettati dalle esigenze militari potrebbe creare difficoltà alle forze multinazionali e costringere i contingenti a lasciare dietro di sé mezzi, attrezzature e infrastrutture. Trattare il ritiro dall’Afghanistan come un esclusivo problema logistico può essere un “gioco” molto pericoloso!

Foto US DoD, Jhaama Press e Difesa.it

 

Giorgio BattistiVedi tutti gli articoli

Generale di Corpo d'Armata (Aus.), Ufficiale di Artiglieria da Montagna, ha espletato incarichi di comando nelle Brigate Alpine Taurinense, Tridentina e Julia ed ha ricoperto diversi incarichi allo Stato Maggiore dell'Esercito. Ha comandato il Corpo d'Armata Italiano di Reazione Rapida della NATO (NRDC-ITA), l'Ispettorato delle Infrastrutture e il Comando per la Formazione, Specializzazione e Dottrina dell'Esercito. Ha partecipato alle operazioni in Somalia (1993), in Bosnia (1997) e in Afghanistan per quattro turni. Ha terminato il servizio attivo nell'ottobre 2016.

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