Turchi e russi non si ritirano dalla Libia. Ma forse è meglio così
La Libia non ha visto “nessuna riduzione dei combattenti stranieri o delle loro attività”. Lo afferma il segretario generale dell’Onu Antonio Guterres in un rapporto presentato questa settimana al Consiglio di sicurezza. “Anche se l’accordo di cessate il fuoco continua a restare in piedi, Unsmil (la missione delle Nazioni Unite in Libia) ha ricevuto segnalazioni di fortificazioni e posizioni difensive in fase di installazione lungo l’asse Sirte-Jufra nella Libia centrale, e la continua presenza di elementi e risorse straniere”, dice il documento.
Geniere turco in Libia
“Nonostante gli impegni presi dalle parti, le attività di trasporto aereo sarebbero continuate con voli verso varie basi aeree militari nelle regioni occidentali e orientali della Libia”. Secondo i diplomatici delle Nazioni Unite, il numero di militari e mercenari stranieri in Libia è stimato in oltre 20.000, inclusi 13.000 siriani e 11.000 sudanesi e ciadiani (nella foto sotto), oltre a diverse centinaia di turchi e russi.
“Ribadisco il mio invito agli Stati membri e agli attori nazionali libici di porre fine alle violazioni dell’embargo sulle armi e di facilitare il ritiro di combattenti stranieri e mercenari”, afferma il capo delle Nazioni Unite nel rapporto. “Questi sono elementi critici per una pace e una stabilità durature in Libia e nella regione”, sostiene Guterres, affermando che “i progressi devono proseguire sui binari politici, di sicurezza ed economici, per consentire lo svolgimento delle elezioni nazionali” il 24 dicembre 2021.
Il 7 maggio il ministro degli Esteri del governo ad interim libico, la signora Najla al-Mangoush, aveva chiesto da tripoli il ritiro delle forze turche scatenando una dura reazione da parte di Ankara (che rivendica il ruolo istituzionale della sia presenza militare in Libia in base al trattato del novembre 2019 stipulato col precedente Governo di Accordo Nazionale di Fayez al-Sarraj) e qualche dimostrazione muscolare delle milizie più fedeli all’asse con la Turchia.
Incluse quelle legate alla Fratellanza Musulmana che hanno un peso rilevante al quartier generale dell’Operazione “Vulcano di collera”, comando istituito per combattere l’offensiva su Tripoli dell’Esercito Nazionale Libico del generale Khalifa Haftar ma rimasto in carica come una sorta di stato maggiore delle maggiori milizie della Tripolitania.
Il Gran Muftì di Libia, Sadiq al-Ghariani, ha detto che la Turchia “ci ha salvati” e ha chiesto che la coalizione di milizie “Vulcano di collera” rompa con il ministro degli Esteri al-Mangoush descrivendola come “cattiva, spregevole e al servizio del progetto sionista”. Le dichiarazioni dell’esponente islamista sono state espresse in un video rilanciato l’altro ieri dall’account Twitter di un media vivcino9 alle posizioni di Haftar, al-Marsad.
L’intesa turco – libica è del resto fuori discussione così come gli stretti rapporti tra il premier ad interim Abdul Hamid al-Dbaiba e Recep Tayyp Erdogan (nella foto sotto).
Al di là degli auspici e delle pressioni dell’ONU occorre però chiedersi quanto l’attuale stabilità della Libia, pur se ancora precaria, dipenda in realtà dalle iniziative dell’ONU (o dell’Europa, degli USA o degli stati europei e dell’Italia) e quanto dall’equilibrio creatosi sul campo di battaglia dopo la ritirata di Haftar dalla Tripolitania.
Per essere più espliciti: se in Libia non si combatte più da un anno, esiste in governo unico ad interim e si parla di ricostruzione post bellica e infrastrutture il merito va ascritto in gran parte a Turchia e Russia, impostisi come potenze di riferimento (con dietro altri alleati) nei due campi contrapposti e innanzitutto su quelli di battaglia.
Sono stati i soldati turchi con i mercenari siriani a respingere l’LNA da Tripoli e dintorni e sono stati i contractors russi a imporre lo stop ai nemici di Haftar lungo la linea di demarcazione tra le “due Libie” tra Sirte e al-Jufra.
Istruttori turchi addestrano le forze di Tripoli (foto sopra e sotto)
Mosca e Ankara hanno guidato la battaglia e poi il negoziato per il cessate il fuoco e persino la riapertura dell’export petrolifero libico (intesa firmata dal vice presidente del GNA, Ahmed Maitig e dal figlio di Haftar a Sochi, in Russia, dopo che Maitig era stato in Turchia.
Comprensibile che oggi tali presenze egemoniche risultino scomode alle altre potenze, specie USA ed europei, che non hanno avuto il coraggio o l’interesse ad esporsi in guerra ma vorrebbero oggi incassare i “dividendi della pace” non potendo però rivendicare nessun ruolo risolutivo nella lunga crisi libica.
Curioso notare come le potenze che hanno scatenato il caos prolungato in Libia nel 2011 (USA, Francia, Gran Bretagna in testa, con l’Italia al seguito) con la sciagurata guerra contro Muammar Gheddafi non abbiano mai mostrato in dieci anni l’interesse o gli “attribuiti” per compiervi un nuovo intervento militare, questa volta teso a stabilizzarla, non a destabilizzarla.
Comprensibile anche che a Roma ci si sia finalmente accorti che lasciare la Tripolitania e le sue acque ai turchi potrebbe rivelarsi u pessimo affare per l’Italia sotto molti punti di vista, incluso il rischio di subire un costante ricatto sul fronte dei flussi migratori.
Al tempo stesso per gli USA e per la NATO, già reduci dalla disfatta afghana (tanto bruciante quanto occultata), costituisce comprensibilmente un ulteriore smacco strategico constatare che il frutto ultimo della guerra da loro stessi scatenata nel 2011 è stato il consolidamento di basi militari turche e russe sul territorio libico e quindi nel Mediterraneo Centrale.
Ciò detto occorre chiedersi se l’improbabile ritiro delle forze turche con i mercenari siriani dalla Tripolitania e dei contractors russi con i consiglieri militari emiratini (e di altri stati arabi) e i mercenari ciadiani, siriani e sudanesi dalla Cirenaica determinerebbero o meno una maggiore stabilizzazione della Libia.
Di certo lascerebbero un vuoto militare che nessuno sembra volersi assumere la responsabilità di compensare mentre pare altrettanto certo che il ritiro di queste forze militari di riferimento favorirebbe la ripresa degli scontri tra le milizie della Tripolitania e quelle di Haftar.
Meglio quindi andarci piano con le esortazioni alle forze combattenti straniere a lasciare una Libia che finora non si è del tutto dissolta solo grazie alla loro presenza, almeno finchè qualcuno in Europa o negli USA non sia pronto a fare altrettanto, sporcandosi le mani e mettendo gli scarponi sul terreno.
Qualcuno davvero immagina oggi truppe italiane, Ue o USA o caschi blu dell’ONU sbarcare in Libia per riportarvi pace e stabilità? O che il loro intervento risulti gradito alle fazioni libiche?
Sono state Mosca e Ankara, non Roma o Parigi o Bruxelles o Washington, a gestire il conflitto e a farsi garanti degli attuali sforzi di stabilizzazione della nostra ex colonia. Così hanno conquistato un’egemonia a cui non sembrano certo pronti a rinunciare.
Foto: al-Marsad, Anadolu, Ministero Difesa Turco, LNA e CNN
Gianandrea GaianiVedi tutti gli articoli
Giornalista bolognese, laureato in Storia Contemporanea, dal 1988 si occupa di analisi storico-strategiche, studio dei conflitti e reportage dai teatri di guerra. Dal 1991 al 2014 ha seguito sul campo i conflitti nei Balcani, Somalia, Iraq, Afghanistan, Sahara Occidentale, Mozambico e Sahel. Dal febbraio 2000 dirige Analisi Difesa. Ha collaborato o collabora con quotidiani e settimanali, università e istituti di formazione militari ed è opinionista per reti TV e radiofoniche. Ha scritto diversi libri tra cui "Iraq Afghanistan, guerre di pace italiane", “Immigrazione, la grande farsa umanitaria” e "L'ultima guerra contro l’Europa". Presso il Ministero dell’Interno ha ricoperto dal 2018 l’incarico di Consigliere per le politiche di sicurezza di due ministri e un sottosegretario.