Afghanistan: ammaestramenti da una sconfitta annunciata
Shebergan è caduta, Kunduz è caduta come Farah, Herat e Kandahar sono circondate. Per Kabul si tratta di settimane, forse di giorni. Però a nessuno sembra interessare più di tanto.
In queste torride giornate di agosto la stampa italiana, già tradizionalmente poco attenta alle grandi questioni internazionali, riporta quasi sempre striminziti trafiletti relativi al precipitare della situazione in Afghanistan.
D’altronde le Olimpiadi, le evoluzioni del Covid e delle sue varianti, i contrasti in merito al “green pass” sono argomenti che toccano molto di più la “pancia” dell’italiano medio. Allora è meglio continuare a far finta di non essere stati per quasi vent’anni “impegnati” militarmente in quel paese.
Al più qualche articolo “strappalacrime” sull’infausto destino che attende interpreti e cooperanti di cui si sono avvalsi i nostri contingenti in quel paese ora che le loro città stanno cadendo una ad una in mano ai talebani (nel logoro spirito “italiani brava gente”).
Approccio, comunque, a mio avviso semplicistico (perché si tende artificiosamente a spezzettare il problema considerando solo chi ha operato con gli italiani) e auto-assolutorio, come se noi occidentali avessimo degli obblighi morali esclusivamente nei confronti di quelle poche decine di migliaia di afghani che hanno lavorato nelle basi dei diversi paesi della coalizione e delle loro famiglie: e comunque già così si potrebbe facilmente andare su numeri a sei cifre.
Non abbiamo forse responsabilità morali anche nei confronti di tutti coloro che avevano creduto che noi occidentali all’Afghanistan tenessimo veramente, a coloro che si sono arruolati nelle forze armate e nelle forze di polizia ricostituite sotto stretto controllo occidentale, a tutte quelle famiglie che hanno “osato” inviare le figlie femmine a scuola, a tutti coloro che si erano esposti a favore di un Afghanistan che non si attenesse ai “comandamenti“ talebani?
Non illudiamoci, non basterebbero tutti i ponti aerei che potessimo organizzare per evacuare in tempo utile tutte le persone che in un senso o nell’altro si erano fidate dell’Occidente e che ora sono in pericolo.
Mentre le strutture afghane su cui gli USA e, molto più timidamente, gli altri paesi occidentali avevano investito (forse credendoci veramente forse no) si stanno dimostrando del tutto inefficaci a contrastare il ritorno dei talebani, tentiamo almeno di trarre da questa infausta operazione quelle che gli anglosassoni chiamano “lessons learned”, in italiano “ammaestramenti”, termine che chissà perché a noi provinciali suona molto meno professionale del corrispondente termine inglese.
Occorre, intanto, evidenziare come l’impegno di forze regolari afghane e forze occidentali fosse necessariamente focalizzato su centri urbani e principali vie di comunicazione.
Il voler “ricostituire” ex novo forze armate e di polizia ha di fatto messo da parte tutte quelle “milizie” o più spesso “bande” che operavano per i singoli “signori della guerra” locali. Formazioni del tutto irregolari, certamente, ma che avrebbero potuto aiutare a controllare le vaste aree rurali (anche se adottando metodi che non avremmo desiderato conoscere). Invece, di fatto le vaste aree rurali del paese sono state abbandonate a loro stesse e in tali aree gli “insurgents” hanno avuto partita facile a ristabilire il proprio controllo. La forza dei talebani ha ripreso vigore proprio dalle aree rurali, come è sempre stato per qualsiasi forma di “insorgenza”.
Peraltro, si è veramente cercato di creare un Afghanistan che potesse reggersi sulle “proprie” pur deboli gambe? Ovvero, si è investito sulle capacità e le usanze locali, per quanto potessero farci “storcere il naso” o, invece, nel tentativo di “esportare” i modelli organizzativi e comportamentali che ritenevamo migliori, abbiamo di fatto creato una nazione che dipende in tutto e per tutto dal supporto esterno?
In fondo, interessava avere un Afghanistan in cui si vivesse in accordo con principi che a noi occidentali paiono accettabili o avere un Afghanistan che riuscisse (ovviamente anche con l’aiuto occidentale) a trovare la propria strada per uscire dall’oscurantismo in cui lo avevano portato i talebani e, soprattutto, a garantire da solo il controllo del proprio esteso territorio e dei suoi confini, sia pur con metodi che potremmo non condividere?
Se si fosse voluto far nascere una nazione “nuova”, che si ispirasse a valori “occidentali” nel rispetto dei diritti umani, nella legislazione, nel contrasto alla corruzione (endemica), nell’organizzazione dello stato (che non fosse più tribale) , come si potevano raggiungere tali ambiziosi obiettivi “non militari” investendo di fatto solo nell’intervento militare?
Per rispondere a tali domande dobbiamo ritornare alle ragioni per le quali l’Occidente abbia intrapreso “l’avventura afgana”, avventura che sta inesorabilmente volgendo in tragedia almeno per coloro che avevano creduto in noi e che abbiamo lasciato là.
Per un minimo di onestà intellettuale dobbiamo ricercare tali ragioni aldilà della retorica idealistica di cui noi occidentali tendiamo troppo spesso ad ammantare i nostri interventi militari, quasi volessimo ignorare che tali interventi sono e devono essere dettati dall’esigenza di salvaguardia degli interessi nazionali.
La motivazione iniziale della Casa Bianca per andare in Afghanistan era essenzialmente di politica interna. Occorreva mostrare all’elettorato domestico che chi colpisce il suolo USA viene punito. Punto! Quale poi dovesse essere il futuro del paese dopo la policy di “shock and awe” di Donald Rumsfeld non era chiaro a Washington nel 2001-2002 e temo non lo sia stato del tutto neanche successivamente.
Ciò premesso, è innegabile che nessuna delle presidenze USA che si sono succedute dall’11 settembre in poi (Bush, Obama, Trump e Biden) avesse un genuino interesse a ricostituire un “nuovo” Afghanistan.
Lo dimostra l’andamento sinusoidale dell’impegno statunitense nel paese, ben più attento all’umore dell’elettorato domestico, in vista degli appuntamenti elettorali biennali (presidenziali e mid-term elections) che non all’andamento delle operazioni sul terreno.
In quest’ottica, le ricorrenti promesse dell’inquilino di turno della Casa Bianca di riportare a casa i contingenti entro una certa data non hanno fatto altro che confermare agli “insurgents” che il nostro impegno era a tempo determinato e che a loro bastava avere pazienza ancora per un po’.
Certamente, in un’ottica di più ampio respiro geo-strategico un imponente schieramento militare USA nel paese avrebbe potuto servire come strumento per conseguire anche altri obiettivi come porre pressione sull’Iran da Est o sulle ex repubbliche sovietiche dell’Asia Centrale da Sud o forse anche mantenere basi in prossimità del confine cinese. In effetti Washington non pare aver mai sfruttato appieno tali opportunità.
Dal canto loro gli Alleati degli USA (NATO e non) si sono avventurati in un’impresa di cui ignoravano la complessità confidando spesso sulla potenza USA più che sui propri mezzi. Soprattutto, però, sono andati in quel “paese sperduto” per motivi che poco o nulla avevano a ché fare con l’Afghanistan.
Alla NATO occorreva da un lato dimostrare la vitalità di un link trans-atlantico, che di fatto dall’epoca della presidenza di Bush junior era più formale che sostanziale, dall’altro “farsi perdonare” il non aver seguito Washington nell’avventura irachena del 2003. Per i singoli paesi membri (a parte la Turchia che ha sempre avuto propri interessi in Afghanistan) si trattava essenzialmente di acquisire meriti nei confronti di Washington, insomma acquisire “bonus” da giocarsi poi su altri tavoli.
Questa mancanza di reale interesse strategico alla lunga non poteva non mostrare i propri limiti, man mano che l’operazione si rilevava costosa in termini sia finanziari sia di vite umane e, soprattutto, richiedeva una determinazione e una pazienza che, passata l’emotività del 2001, nessuno aveva più.
Nella tristezza di una sconfitta, perché siamo ben chiari, di sconfitta si tratta, cosa dobbiamo trarre come ammaestramenti?
Intanto, occorre che gli impegni militari (soprattutto se onerosi e rischiosi) rispondano a interessi nazionali ben evidenti se si vuole che continuino nel tempo a godere del supporto delle opinioni pubbliche domestiche. L’esperienza ci mostra come gli USA abbiano perso tale supporto nei confronti di tutti gli interventi prolungati in cui si sono avventurati dopo il secondo conflitto mondiale (Vietnam, Iraq, Afghanistan).
Gli USA, dal canto loro, devono dolorosamente prendere atto che non si può condurre operazioni di grande respiro con gli occhi puntati ai sondaggi elettorali per gli appuntamenti elettorali domestici anziché ai risultati operativi sul terreno.
La NATO in Afghanistan ha assunto gradualmente responsabilità territoriali e operative crescenti, non sulla base di lungimiranti decisioni prese a Bruxelles dopo una accurata valutazione esigenze/possibilità, ma quasi esclusivamente sulla base di una “road-map” tracciata a Washington senza alcun confronto o contradditorio serio con gli Alleati, alla luce delle esigenze di disimpegno statunitense.
In Afghanistan la NATO ha agito come una “Coalizione a guida USA” e non come Alleanza di paesi certamente con possibilità diverse ma con pari dignità. Così facendo, la NATO ha dissipato la credibilità che si era costruita nei Balcani a fine anni ’90 e nei primi anni di questo secolo. L’Alleanza dovrebbe oggi fare un serio esame del fallimento del proprio intervento in Afghanistan e dovrebbe rivedere il proprio “level of ambition”. Soprattutto, dovrebbe ricercare maggior autonomia decisionale nei confronti del suo “socio di maggioranza”, socio che negli ultimi vent’anni non ha certo fornito dimostrazioni di leadership di successo.
Dovrebbe essere evidente che se si vogliono conseguire obiettivi di ricostruzione di un “failed state” non si possa contare solo sullo strumento militare. Occorre una sinergia di strumenti atti a conseguire risultati in campo economico, sociale, culturale oltre che in quello della sicurezza.
Ovvero il famoso e fumoso “Comprehensive Approach” di cui ONU, NATO e UE da due decenni vanno blaterando. Peccato che alla fine, oltre allo strumento militare (e ad una pioggia di soldi, sulla cui destinazione finale comunque non vi è mai stata totale trasparenza), in Afghanistan si sia visto poco altro.
In effetti nel paese operavano e continuano ad operare con coraggio ad operare varie Agenzie ONU, Agenzie di Cooperazione e Sviluppo nazionali e una moltitudine di ONG. Tali interventi, meritori, appaiono però non organici, in quanto ogni “attore” sembra rispondere ad una propria policy ed essere alla ricerca spasmodica di una propria visibilità più che ad affrontare i problemi afghani in un contesto sinergico.
Se non si è in grado di intervenire efficacemente con strumenti non militari per “ricostruire” il paese (e in Afghanistan la Comunità Internazionae non è stata in grado di farlo) può essere opportuno limitare i propri obiettivi alla sicurezza, evitando di porsi obiettivi ambiziosi in altri settori che non si sarà in grado di perseguire nel tempo.
In Europa e soprattutto in Italia dobbiamo anche fare chiarezza con noi stessi in relazione alle terminologie che utilizziamo incluse “operazioni di pace” et similia. Dobbiamo fare chiarezza con le nostre opinioni pubbliche ma soprattutto con le autorità politiche e con la magistratura.
In Afghanistan non si trattava di condurre operazioni di “mantenimento” di una pace che non c’era, ma di “counter-insurgency”, ovvero contro-insurrezione. Una tipologia di operazioni concettualmente non troppo dissimile da quelle che conducevano le grandi potenze coloniali nei loro imperi. Poco “opportuno” dichiararlo? Allora sarebbe meglio non impegnarsi in tali Teatri Operativi.
Senza addentrarsi troppo sulle dottrine di counter-insurgency, che esulano dagli obiettivi di questo articolo, è noto che per avere successo in tali operazioni occorre creare il vuoto intorno alle forze “insorgenti”. Ciò può essere ottenuto, fondamentalmente, in due modi: fare in modo che la popolazione civile abbia più paura di noi che degli insurgents (metodo usato dai tedeschi per contrastare i vari movimenti resistenziali in Europa durante il secondo conflitto mondiale: metodo che non sarebbe eticamente accettabile per le nostre forze) oppure “guadagnarsi i cuori e le menti” delle popolazioni: processo molto più lungo e faticoso, che si è tentato di perseguire in Afghanistan.
Peraltro per guadagnare “i cuori e le menti” si ha bisogno di molto tempo (decenni più che anni) e occorre dall’inizio essere coscienti che tale nostro impegno dovrà continuare anche quando i giornali non ne parleranno più e i nostri politici potrebbero chiedersi a cosa servano tutti quei fondi destinati alle “missioni estere”.
Comunque, durante tutto questo lungo periodo occorrerà anche continuare a disporre di una “credibile” capacità di reazione. Occorre pertanto che le nazioni che inviano i contingenti abbiano ben chiaro che non si può fare counter-insurgency solo con la “carota” (basterebbero i boyscout se si trattasse solo di distribuire aiuti), ma purtroppo occorre anche avere le mani libere per poter usare, ove fosse necessario (e spesso lo è!), il “bastone”. ovvero operare in status di “guerra” con le implicazioni di ordine legale che ne conseguono.
Ciò significa disporre di “regole d’ingaggio” adeguate e di una giurisdizione “di guerra” in eccezione alla legislazione ordinaria. Che ciò possa essere attuabile per i contingenti italiani appare allo scrivente molto difficile.
In conclusione, prima di impegnarsi in una operazione militare complessa e duratura occorre aver chiari gli obiettivi politico-strategici che si vogliono perseguire, valutare la propria disponibilità ad un impegno finanziario e militare prolungato nel tempo e accertarsi di poter disporre anche di tutte le risorse non militari che sono necessarie per risolvere una crisi.
Soprattutto, occorre chiamare le cose con il proprio nome, che sia contro- insorgenza, contro – guerriglia, guerra ecc , assumendo le decisioni politiche e giuridiche conseguenti e non chiamare tutto “di pace” perché se ci fosse la “pace” non sarebbe necessario inviarci i nostri soldati armati e pronti ad usare la potenza letale delle loro armi.
Foto: Op. Resolute Support, Afghan National Army, Emirato dell’Afghanistan e US DoD
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Antonio Li GobbiVedi tutti gli articoli
Nato nel '54 a Milano da una famiglia di tradizioni militari, entra nel '69 alla "Nunziatella" a Napoli. Ufficiale del genio guastatori ha partecipato a missioni ONU in Siria e Israele e NATO in Bosnia, Kosovo e Afghanistan, in veste di sottocapo di Stato Maggiore Operativo di ISAF a Kabul. E' stato Capo Reparto Operazioni del Comando Operativo di Vertice Interforze (COI) e, in ambito NATO, Capo J3 (operazioni interforze) del Centro Operativo di SHAPE e Direttore delle Operazioni presso lo Stato Maggiore Internazionale della NATO a Bruxelles. Ha frequentato il Royal Military College of Science britannico e si è laureato con lode in Scienze Internazionali e Diplomatiche a Trieste.