Afghanistan: fuggire o restare?
Solo il tempo permetterà di metabolizzare la disfatta subita da USA e NATO in Afghanistan che imporrà anche un riesame dei rapporti strategici tra l’America e i suoi alleati europei.
Senza mettere in dubbio alleanze radicate dovremo necessariamente attrezzarci per gestire in autonomia le crisi che coinvolgono i nostri interessi nazionali rinunciando a perseguire in modo acritico e ininfluente quelli di Washington e senza farci troppe illusioni sul ruolo dell’Europa, che continua e continuerà presumibilmente ad essere la grande assente in tutti i teatri internazionali, specie quelli dove occorre mostrare muscoli e attributi.
E’ forse questa la prima e la più importante delle lezioni apprese dagli eventi afghani che le “potenze” europee dovrebbero recepire, Italia in testa.
L’epica del ponte aereo
Nonostante gli sforzi della propaganda USA e NATO di attribuirgli toni epici, il ponte aereo che sembra avviato a evacuare da Kabul circa 100 mila afghani entro fine mese costituisce un ulteriore specchio della vittoria dei talebani, che ci concedono gentilmente un po’ di tempo (solo fino al 31 agosto) per togliere loro di mezzo oppositori e dissidenti.
I paragoni con l’evacuazione della sacca di Dunkerque nel 1940, azzardato dal generale (ex comandante delle forze alleate in Iraq e in Afghanistan ed ex direttore della CIA) David Petraeus, sono al limite della forzatura, così come il bombardamento mediatico di foto che ritraggono bambini afghani in braccio a soldati e diplomatici occidentali rappresenta il tentativo di governi e stati maggiori occidentali di mascherare con una “vittoria umanitaria” il disastro politico e militare più grave mai subito da USA e Occidente dai tempi della fuga da Saigon.
Intendiamoci, fa molto piacere sapere che tanti bambini afghani cresceranno lontani dai talebani ma rispolverare una tipologia di immagini che per anni ha sostenuto il concetto dei “soldati di pace” non aiuterà a esorcizzare la nostra bruciante sconfitta ma solo a nasconderla temporaneamente e mediaticamente sotto il tappeto.
Lo sgombero delle ambasciate occidentali accentua, anche simbolicamente, la percezione di questa disfatta, che vede quelle stesse forze speciali fino a poco tempo or sono impegnate a eliminare i talebani impiegate oggi nei cieli e nelle strade di Kabul per evacuare connazionali e partner afghani.
Missioni NEO (Non-combatant Evacuation Operations) che vedono distinguersi un plotone di carabinieri paracadutisti del reggimento Tuscania (ma circolano voci anche circa la presenza di distaccamenti di incursori italiani) che hanno posto in salvo in questi giorni numerosi afghani, prelevati a casa per sottrarli alle rappresaglie talebane, sfidando i miliziani padroni di Kabul ma anche le pretese dei militari statunitensi che gestiscono l’aeroporto di sigillarne il perimetro anche agli alleati.
Nello sgombero generale delle ambasciate occidentali, l’Italia ha fatto una figura pessima pur nel generale contesto di uno sgombero disordinato e caotico per tutti.
L’ambasciatore Vittorio Sandalli, ha lasciato Kabul col primo volo italiano in partenza, a differenza degli ambasciatori britannico, francese, tedesco, spagnolo o dell’Unione Europea: diplomatici che hanno già fatto sapere che saranno gli ultimi a lasciare l’aeroporto “Hamid Karzai” di Kabul a bordo dell’ultimo aereo disponibile.
Per rimediare alla magra figura non si è trovato nulla di meglio che promuovere al rango di “console” (e di eroe della Patria, fotografato con un bimbo afghano in braccio), il secondo segretario generale d’ambasciata, Tommaso Claudi. Autorità diplomatica italiana più alta in grado oggi a Kabul a cui vanno attribuiti encomi per il lavoro che sta facendo in condizioni difficilissime ma la cui immagine non può venire utilizzata per salvare la faccia a ministro e ministero degli Esteri.
Né possiamo contare, sempre per salvare il decoro nazionale, su Stefano Pontecorvo, esperto diplomatico italiano che da oltre un anno ricopre l’incarico di Senior Civil Representative della NATO in Afghanistan, anche lui ancora impegnato all’aeroporto di Kabul come figura civile di maggior rango dell’Alleanza Atlantica, non di Roma.
Restare a Kabul?
Nonostante questo quadro tra il tragico e il grottesco, l’Italia avrebbe molte rilevanti carte da giocare nell’attuale contesto afghano anche tenendo conto delle nazioni che sembrano avere un posizionamento avvantaggiato oggi a Kabul.
Il Pakistan, grande padrino della vittoria talebana, determinerà almeno in parte il nuovo governo afghano con l’obiettivo di favorire investimenti internazionali che in questa fase potrebbero provenire soprattutto dai paesi le cui ambasciate a Kabul rimangono aperte e cioè Cina, Russia, Iran e Turchia.
Nazioni con cui Roma intrattiene rapporti cordiali, positivi, talvolta vivaci ma privi di situazioni critiche. Rapporti a cui aggiungere le ottime relazioni diplomatiche, economiche e militari di Roma con il Qatar, l’emirato che ha ospitato i negoziati tra Stati Uniti e talebani e che certo avrà un ruolo di rilievo, anche se forse di profilo volutamente basso, nel futuro dell’Afghanistan.
Da molti viene giudicato incoraggiante il coinvolgimento nei colloqui per la formazione del nuovo governo di esponenti anti-talebani quali l’ex presidente Hamid Karzai, insediato da George W. Bush dopo la caduta del regime talebano, e Abdullah Abdullah, rivale di Ashraf Ghani che negli ultimi due mandati ha ricoperto il ruolo di amministratore delegato” del governo afghano.
Per tutte queste ragioni l’attuale situazione a Kabul offre all’Italia l’opportunità di assumere iniziative all’insegna del massimo pragmatismo. Costretta a subire la sconfitta imposta dai mutevoli interessi statunitensi, Roma (che con Londra ha cercato invano di convincere Washington a rallentare e condizionare il ritiro dall’Afghanistan) ha le carte in regola per mostrare un’autonomia che comporterebbe vantaggi in termini di collocazione diplomatica e geopolitica e di monitoraggio dell’evolversi della situazione afghana sul piano politico, strategico e umanitario.
Mantenere aperta la nostra ambasciata a Kabul consentirebbe oggi all’Italia di assumere un ruolo di primo piano nei confronti dei protagonisti della crisi afghana, di prendere tempo senza riconoscere il nuovo governo afghano che l’emirato talebano dovrebbe esprimere ma di cui al momento in cui scriviamo non c’è traccia. Né probabilmente ve ne sarà fino al completo ritiro dei militari alleati dall’aeroporto della capitale.
Restare a Kabul con un’ambasciata operativa assicurerebbe a Roma il vantaggio di diventare l’interlocutore occidentale privilegiato nell’area d’influenza pakistana e di monitorare il rispetto degli impegni volutamente “rassicuranti” assunti in questi giorni dai talebani in termini di pluralismo politico nel nuovo esecutivo, di diritti umani, di supporto ai gruppi terroristici e di assenza di vendette e rappresaglie.
Dopo aver perso la guerra vogliamo anche escluderci dal dopoguerra lasciando il business della ricostruzione post bellica afghana alle compagnie cinesi, russe e turche già posizionatesi per tempo in “pole position”?
In termini economici l’Afghanistan ha grandi risorse minerarie solo marginalmente sfruttate (da compagnie cinesi) ma oggi, a guerra terminata, queste ricchezze potrebbero finanziare lo sviluppo e l’ammodernamento nazionale innanzitutto attraverso la creazione di posti di lavoro e la realizzazione di infrastrutture quali ponti, strade e ferrovie.
Settori in cui l’Italia, che nella guerra afghana ha investito quasi 10 miliardi di euro, vanta aziende di altissimo livello.
Sul piano politico va sottolineato che turchi, iraniani, russi e cinesi, con le ambasciate aperte, non hanno riconosciuto nessun nuovo regime ma dialogano con tutti (i russi mediano tra talebani e il Fronte di liberazione dell’Afghanistan di Massud jr.) con la pragmatica consapevolezza che chi resterà a Kabul potrà mantenere una presenza ed esercitare quindi un’influenza sull’Afghanistan.
Restare potrebbe dare all’Italia un ruolo di rilievo anche nel tentativo di proteggere i possibili bersagli dei talebani che non è stato possibili evacuare e costituirebbe il modo migliore per non rendere vano il sacrificio dei nostri caduti e feriti.
E’ grave che questo tema non sia oggi oggetto di dibattito nella politica, sui media e in modo particolare in parlamento. Soprattutto se l’alternativa è abbandonare al loro destino l’Afghanistan e gli afghani con l’ultimo volo in decollo da Kabul.
Gianandrea GaianiVedi tutti gli articoli
Giornalista bolognese, laureato in Storia Contemporanea, dal 1988 si occupa di analisi storico-strategiche, studio dei conflitti e reportage dai teatri di guerra. Dal 1991 al 2014 ha seguito sul campo i conflitti nei Balcani, Somalia, Iraq, Afghanistan, Sahara Occidentale, Mozambico e Sahel. Dal febbraio 2000 dirige Analisi Difesa. Ha collaborato o collabora con quotidiani e settimanali, università e istituti di formazione militari ed è opinionista per reti TV e radiofoniche. Ha scritto diversi libri tra cui "Iraq Afghanistan, guerre di pace italiane", “Immigrazione, la grande farsa umanitaria” e "L'ultima guerra contro l’Europa". Presso il Ministero dell’Interno ha ricoperto dal 2018 l’incarico di Consigliere per le politiche di sicurezza di due ministri e un sottosegretario.