Il contrattacco del TDF: svolta nelle guerre d’Etiopia tra il Tigrè e il Nilo

 

 

(Aggiornato il 12 agosto ore 18.00)

Uno dei colossi demografici e multietnici dell’Africa, quell’Etiopia di cui già nel dicembre 2020 abbiamo rimarcato per Analisi Difesa la fragilità etnico-politica, si trova sempre più in difficoltà nel montare di una doppia crisi, esterna e interna. Fra giugno e luglio 2021 il primo ministro accentratore Abiy Ahmed ha cercato di ostentare un consolidamento del potere mediante elezioni dall’esito tuttavia discutibile, date le precarie condizioni di sicurezza in larghe parti del paese.

E’ rapidamente emerso che si trattava di sola facciata, perchè negli stessi giorni il governo di Addis Abeba ha subìto plateali rovesci militari nella regione del Tigrè, dove l’esercito federale nazionale era entrato fin dal novembre 2020 nella speranza di schiacciare il fronte etno-politico tigrino TPLF, Tigray People Liberation Front, da molti anni forte della sua autonomia e delle sue capacità guerrigliere. Speranza rivelatasi vana.

 

Le sorti (rovesciate) del conflitto

Nei primi mesi dell’occupazione del Tigrè, conditi da massacri e angherie, i miliziani tigrini organizzati nel braccio armato del TPLF, cioè il TDF, Tigray Defence Force, sembravano spacciati contrpo lke truppe di Addis Abeba (nella foto sotto), complice il parallelo intervento da Nord delle truppe dell’Eritrea autoritaria del presidente Isaias Afewerki, alleato di Ahmed.

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In seguito la lotta partigiana si è riorganizzata con pazienza ed è ripartita in controffensiva. Muovendo dalle periferie impervie dei loro territori, i tigrini hanno applicato tattiche di approccio indiretto e logoramento del nemico. Hanno potuto in tal modo riconquistare numerosi centri urbani, eredi dell’esperienza guerrigliera dei loro padri e guidati sul campo da ufficiali capaci.

Su tutti Tsadkan Gebretensae, uno dei comandanti militari più noti e abili in tutta Etiopia, sebbene poco conosciuto all’estero. Simbolo della riscossa tigrina è stata la riconquista del capoluogo Macallè (o Mekelle) dove il 28 giugno 2021 le avanguardie del TPLF sono entrate trionfalmente, proprio mentre le forze federali etiopiche, per contro, se ne ritiravano.

La guerra continua tuttora con colpi di scena quasi quotidiani e i tigrini sono sempre più determinati ad agire perfino verso Sud contro il resto dell’Etiopia, ma anche sul fronte Nord contro le truppe eritree, anch’esse in parte ritiratesi a ridosso del proprio confine. Un’offensiva tigrina si prospetta inoltre sul tratto Ovest del confine fra il Tigrè e il vicino Sudan, occupato da milizie Amhara filo-governative.

A partire dal 17 luglio è stata segnalata un’importante avanzata tigrina nella confinante regione dell’Afar, allo scopo di intercettare, letteralmente, la strategica strada e la ferrovia che collegano Addis Abeba al porto di Gibuti, sul Mar Rosso, una delle arterie vitali dell’economia etiopica. Le tribù Afar, che contano su una loro milizia di autodifesa, hanno denunciato la presenza di bambini soldato tigrini nel TDF. Sembra che gli Afar siano riusciti sulle prime a respingere oltre il confine i tigrini, ma poi il TDF si sarebbe fatto strada attraverso un’altra direttrice nell’area di Kaluwan, bombardando con artiglieria il distretto di Gulina.

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Sarebbero 30.000 gli afarini sfollati dalle regioni di Yalo e Gulina. Al 22 luglio i combattimenti in Afar erano confermati come ancora in corso, accreditando che l’incursione tigrina non è certo una scaramuccia di breve durata. E il funzionario locale etiope Mohammed Hussen dichiarava che “in complesso circa 70.000 persone sono state colpite direttamente e sfollate. Oltre 20 civili sono morti”.

Un portavoce afarino, Ahmed Koloyta, sostiene che il TDF ha preso il controllo di almeno tre distretti dell’Afar, ma anche che “le forze federali si stanno unendo a noi ed elimineremo i tigrini”.

Il 23 luglio, poi, il comandante militare tigrino Tsadkan Gebretensae ha sostenuto che “il bilancio delle forze è ora completamente a nostro favore” e che “potremmo marciare su Addis Abeba senza una vera opposizione”. Secondo il generale tigrino varie “divisioni dell’esercito nazionale etiopico”, compresi elementi della guardia presidenziale, sono state distrutte nella zona di Kobo-Weldiya, nella regione Amhara.

Quasi in contemporanea al generale, ha parlato anche il portavoce tigrino Getachew Reda, diramando via tweet: “La macchina da guerra di Abiy Ahmed (nella foto sotto) è, in sostanza, distrutta. Ciò che era rimasto del suo esercito regolare è stato distrutto o è a malpartito negli scontri in Afar, nel Wollo Settentrionale (nello Stato Amhara) e nel Gondar Settentrionale.

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Sono state soverchiate le ultime roccaforti a Qobo, ad Adi Arqay e a Chawber”. Sempre Reda, in un’altra dichiarazione distinta ha sostenuto che “non siamo interessati a guadagni territoriali nell’Afar, siamo più interessati a degradare le capacità di combattimento del nemico”.

Le milizie Afar in lotta contro i tigrini, rispolverando vecchi odi etnici, ne approfittano per portare avanti altri conti da saldare, il che aumenta i pericoli di una conflagrazione pan-etiopica. Stanno infatti sconfinando nella vicina regione della Somalia Etiopica, o Soomaali Galbeed, perpetrando massacri ai danni della minoranza somala che vi abita, come è stato denunciato il 28 luglio da un portavoce del governo locale, Ali Bedel, secondo cui i miliziani Afar hanno attaccato fin dal 24 luglio la città di Gedamaytu, detta anche Gabraiisa, dove “hanno massacrato centinaia di civili”.

Come confermato poi dal governatore regionale somalo Mustafa Muhumed Omer, migliaia di giovani somalo-etiopi hanno poi manifestato bloccando per protesta la ferrovia Gibuti-Addis Abeba, creando problemi di approvvigionamento alla capitale federale. Il 29 luglio, poi, sono stati segnalati pesanti combattimenti anche nella regione degli Amhara, fra la loro milizia etnica, alleata coi federali, e avanguardie del TDF.

Ciò ha spinto il presidente dello Stato regionale Amhara, tal Agegnehu Teshager, ad appellarsi ai giovani della sua etnia perchè accorrano ad arruolarsi nelle forze regionali, o anche federali (nella foto sotto), purchè prendano le armi contro i tigrini.

Come si vede, quindi la crisi militare del governo federale, battuto sul campo nel Tigrè, rischia di diventare una miccia che possa far alzare la testa ad altre etnie irrequiete, trasformando il grande paese in una bomba a orologeria.

A testimonianza della crisi in costante aggravamento, fra gli eventi delle ultime settimane, si segnala il 2 agosto il ritrovamento di un totale di 38 corpi di civili tigrini nelle acque del fiume Tacazzè, chiamato anche Setit, sul confine col Sudan. E il 5 agosto, come ulteriore segno dell’avanzata tigrina, la presa da parte delle milizie TDF della città simbolicamente importante di Lalibela, ricca di monumenti cristiano-copti e decretata patrimonio mondiale dall’ UNESCO.

This image made from undated video released by the state-owned Ethiopian News Agency on Monday, Nov. 16, 2020 shows Ethiopian military sitting on an armored personnel carrier next to a national flag, on a road in an area near the border of the Tigray and Amhara regions of Ethiopia. Ethiopia's prime minister Abiy Ahmed said in a social media post on Tuesday, Nov. 17, 2020 that "the final and crucial" military operation will launch in the coming days against the government of the country's rebellious northern Tigray region. (Ethiopian News Agency via AP)

Sebbene manchino sul territorio osservatori neutrali che possano verificare nel dettaglio le informazioni, il quadro complessivo appare comunque abbastanza chiaro. Nell’arco di pochi mesi le sorti del conflitto in Tigrè sembrano quindi ribaltate e, a dare ancor più preoccupazione ad Addis Abeba è la parallela tensione che si sta aggravando nelle relazioni esterne del paese, soprattutto con l’asse fra Egitto e Sudan.

Nel tentativo infatti di ostentare segnali di forza esterna, azzardando la mascheratura delle debolezze interne, Ahmed ha ordinato in luglio di procedere alla seconda fase di riempimento della grande diga GERD sul Nilo Azzurro. Ha così però aumentato l’ostilità che Il Cairo e Khartum già hanno mostrato verso Addis Abeba, dato il prevedibile ammanco d’acqua dolce per queste nazioni a valle del fiume.

Alle rimostranze diplomatiche di questi giorni si accompagna il sospetto che egiziani e sudanesi, che già negli ultimi tempi hanno rinsaldato la loro intesa con esercitazioni congiunte, possano, nell’ipotesi più estrema, agire militarmente contro la diga, direttamente, oppure indirettamente contro altri assetti etiopici. Per l’Etiopia si tratterebbe di un pericolo in più, oltre a quello del caos interno, sebbene Abiy Ahmed tenda a minimizzare.

 

Una nazione assediata

Dovendo fare i conti con tutti i problemi sopra elencati, nonché con l’incombente carestia per almeno 400.000 dei 5 milioni di profughi causati dalla guerra in Tigrè, come segnalato dall’ONU, Ahmed ha il 14 luglio 2021 ammesso in sostanza che il paese è sotto assedio, pur facendolo in termini velati e da una prospettiva di ottimismo personale, ottimismo che però sembra avere ben poche fondamenta reali.

“Difenderemo e respingeremo questi attacchi dei nostri nemici interni ed esterni, mentre lavoriamo per accelerare gli sforzi umanitari”, ha dichiarato, aggiungendo poi: “Abbiamo intrapreso un cessate il fuoco unilaterale per evitare un ulteriore conflitto, per dare alle persone una tregua durante la stagione agricola e per permettere alle operazioni umanitarie di procedere senza scuse, ma i nemici non riescono a stare senza conflitto”.

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Si riferiva alla tregua unilaterale che il governo etiopico ha proclamato il 28 giugno, guarda caso appena dopo la ritirata da Macallè. Tregua che però non ha fermato i combattenti tigrini, ai quali sembra essere più che altro un modo per coprire mediaticamente la ritirata etiope dalla regione ammantandola da gesto di buona volontà per occultare quella che di fatto è una sconfitta campale. Infine, il cessate il fuoco unilaterale è scaduto il 17 luglio.

Ahmed sbandiera da giorni il risultato delle elezioni politiche pan-etiopiche tenutesi il 21 giugno, che hanno assegnato al suo partito nazionale, il Partito della Prosperità, la stragrande maggioranza dei seggi del Parlamento di Addis Abeba.

Sono elezioni su cui il premier ha puntato molto per saldare una base di legittimità che gli consenta di completare, incontrastato, il suo progetto, cioè smantellare il federalismo etnico che finora ha tenuto assieme, pur fra attriti e gelosie, le 86 etnie che l’Etiopia multietnica ha ereditato dal suo passato di impero dei Negus.

La sua proposta di un nazionalismo accentrato incontra però progressive resistenze e lo stesso esito delle elezioni non deve trarre in inganno. L’insicurezza e il ribellismo endemico che caratterizza molte aree del paese, quindi non solo il martoriato Tigrè, ma anche zone come quelle a etnia Oromo, non hanno consentito elezioni serene e democratiche.

Sul totale di 547 circoscrizioni elettorali, una per ogni potenziale deputato, in almeno 101 di esse non si è potuto votare.

Negli altri 436 collegi, se è vero che ben 410 sono andati al partito del premier, che così si sarebbe assicurato circa il 90% dei voti, le sparute opposizioni che si sono dovute accontentare di un totale di soli 26 seggi, hanno denunciato brogli e intimidazioni diffusi.

Il conteggio dei voti è stato molto lungo, avrebbe dovuto concludersi il 1° luglio e invece si è protratto fino al 10 luglio, quando finalmente il National Election Board of Ethiopia ha rotto la riserva. Un ritardo simile, unito alla percentuale “bulgara” a favore del partito del premier non può che sollevare dubbi sulla regolarità delle operazioni.

Il premier sostiene di voler tenere elezioni suppletive il prossimo 6 settembre nei collegi in cui è stato impossibile organizzare le urne, nonché di formare il nuovo governo in ottobre, ma resta da vedere se sarà possibile farlo in una nazione così instabile.

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L’esercito etiopico, per ora, ha scelto la ritirata, coprendosi politicamente le spalle, nei primi tempi, con la “tregua unilaterale”. Ciò gli permetterebbe, in teoria, di riorganizzarsi in posizioni più arretrate e ripianare le perdite, ma il TPLF non è intenzionato a mollare la presa, in un momento così vantaggioso in cui la sua dirigenza, raccolta attorno al leader politico Debretsion Gebremichael, vuole mantenersi all’offensiva, o meglio controffensiva, sia contro i federali etiopi, sia contro i loro alleati eritrei, spezzandone l’intesa.

Stando a quanto diramato il 4 luglio dal loro portavoce Getachew Reda, i tigrini sarebbero stati, eventualmente, disposti a osservare la tregua solo se il governo centrale etiopico avesse accettato sette precise condizioni, che tuttavia per Abiy Ahmed e i suoi alleati rappresenterebbero l’ammissione di una sconfitta. Nel dettaglio, i tigrini chiedevano:

1) il ritiro immediato dal Tigrè di tutte le forze federali, Amhara ed eritree, compresi, per quanto è dato sapere, elementi dei servizi segreti;

2) creazione di una commissione di inchiesta a guida ONU sui crimini di guerra ai danni della popolazione tigrina;

3) accesso illimitato alle agenzie umanitarie, con liberazione dei prigionieri di guerra e risarcimento dei danni bellici;

4) la ripresa nella regione dei collegamenti aerei internazionali, dell’erogazione di elettricità e delle telecomunicazioni;

5) il ripristino del bilancio amministrativo della regione tigrina;

6) l’annullamento dei provvedimenti presi via via dal governo federale etiope nei confronti del Tigrè a partire dal 2013;

7) un ente internazionale indipendente che sorvegli l’applicazione delle condizioni.

A corollario di queste richieste, i tigrini davano per scontato che il governo della loro regione autonoma tornasse ovviamente al TPLF, che di fatto convoglia il consenso della stragrande maggioranza della popolazione locale, tantopiù dopo le violenze perpetrate da federali, eritrei e Amhara.

Inoltre chiedevano “la garanzia che non ci sia più alcuna invasione in futuro”. Dal governo di Addis Abeba, invece, non c’è stato tuttora alcun segno di voler considerare le richieste tigrine, poiché significherebbe ammettere la sconfitta vanificando il movente stesso dell’intervento armato iniziato a novembre 2020. Lo ha spiegato chiaramente una corrispondente della tivù araba Al Jazeera ad Addis Abeba, Catherine Soi: “Non abbiamo udito nulla da governo etiope. Sarà difficile accettare molte di tali richieste. Per esempio, legittimando il TPLF al governo del Tigrè, il governo centrale ammetterebbe la sconfitta. Ma alcuni analisti con cui abbiamo parlato, dicono che forse questa è una piccola finestra per l’avvio di un dialogo politico”.

L’idea di un dialogo in questa situazione è tuttavia aleatoria poiché il primo ministro ha puntato tutto sull’unificazione forzosa dell’Etiopia proprio individuando nel TPLF il principale nemico, ovvero il più forte potere locale il cui annientamento avrebbe dovuto servire da monito per gli altri ribellismi etnici che serpeggiano in altri angoli dell’ex-impero copto.

Intervistato dalla collega Simona Salvi della testata InfoAfrica/Rivista Africa, il professor Uoldelul Chelati Dirar, docente di Storia e Istituzioni dell’Africa all’Università di Macerata, ha commentato: “La sconfitta potrebbe segnare il primo passo per la caduta di Abiy Ahmed e paradossalmente c’è la possibilità che salti anche il governo eritreo che ha investito molto nel conflitto. C’è stato un calcolo sbagliato da parte di Addis Abeba, che all’inizio sembrava aver avuto il sopravvento, convinta che le forze del TPLF fossero state costrette a una guerriglia circoscritta alle zone rurali, di montagna e nient’altro. Ed è stato anche sottovalutato il fatto che è un’organizzazione che ha ancora un forte radicamento popolare.

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E quando questa guerra si è etnicizzata, con violenze atroci nei confronti dei civili, di fatto la popolazione si è compattata attorno al TPLF, dando un sostegno logistico fondamentale”.

Vedendo la malaparata, il governo etiope ha pensato bene nelle ultime settimane di intensificare la vigilanza interna, anche arrestando centinaia di persone di etnia tigrina che vivono nella capitale Addis Abeba.

Lo ha denunciato il 16 luglio Amnesty International, secondo cui, soprattutto dopo la riconquista di Macallè da parte del TPLF ci sono stati molti “arresti arbitrari” di attivisti e giornalisti di origine tigrina, probabilmente accusati di spionaggio.

Secondo Deprose Muchena, direttore di Amnesty per Africa orientale e meridionale: “Ex detenuti ci hanno detto che le stazioni di polizia sono piene di persone che parlano la lingua tigrina e che le autorità hanno portato avanti diffusi arresti di massa di tigrini”.

Alcuni degli arrestati sarebbero stati “portati a molti chilometri dalla capitale”. Non manca una stretta governativa sui mass media, il che contribuisce a rendere più labili le notizie provenienti dalla zona. Infatti l’ente regolatore dei media etiopici, o EMA, ha sospeso dal 15 luglio la licenza del sito internet di notizie Addis Standard, accusato di “legittimare un gruppo terroristico” come il TDF.

Uno scenario del genere pone una profonda ipoteca sulla tenuta unitaria dell’Etiopia e ben si capisce come fra gli esperti sia abbastanza condivisa la prospettiva così riassunta il 4 agosto dall’esperto dell’ISPI Giovanni Carbone: “Le prospettive del Tigrè sono mutate.

Tanto aveva sorpreso la rapida disfatta iniziale dei ribelli tigrini, quanto ha stupito la loro successiva capacità di riprendersi il territorio, fino a lanciare azioni oltre i confini regionali. Le implicazioni sono profonde. Dall’accresciuto rischio che il conflitto si protragga per anni, ai rinnovati sforzi di Addis Abeba per isolare il Tigrè dall’accesso umanitario – rendendo ancora più insostenibili le condizioni della popolazione – fino al possibile, definitivo sfaldarsi del paese. Sarà sempre più difficile per i tigrini tornare a chiamare ‘casa’ l’Etiopia”.

 

L’esemplare strategia tigrina

A giudicare dallo sviluppo degli eventi e dalle testimonianze trapelate a fatica al di fuori del territorio tigrino, la TDF, ramo militare del TPLF, ha reagito alla tenaglia delle forze etiopiche ed eritree con una maestria che, una volta che emergeranno ulteriori dettagli, andrà esaminata perfino nelle accademie militari. Tanto che il 1° luglio 2021 l’Economist ha sentenziato: “Quando verrà scritta la storia dell’ultima guerra civile etiope, le battaglie di giugno potranno essere raccontate come una delle più grandi vittorie ottenute da un gruppo ribelle negli ultimi anni”.

Si ricorderà che il conflitto era iniziato il 4 novembre 2020 con l’ingresso in Tigrè dell’esercito federale etiopico, seguito nei giorni seguenti dall’ingresso dal confine settentrionale dell’esercito eritreo. Abiy Ahmed e Isaias Afewerki avevano stipulato un patto a spese dei tigrini e pensavano di averli sgominati fin dalle prime settimane con l’occupazione delle principali città, a cominciare da Macallè, presa dagli etiopi il 28 novembre.

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Già allora sospettammo che la partita non poteva essere considerata chiusa e che i tigrini avrebbero presto ripiegato su una guerriglia nelle campagne per riprendere le città che erano state deliberatamente evacuate dal grosso delle milizie tigrine, datesi alla macchia per preparare la riscossa.

I combattenti del TDF (nelle foto sopra e sotto) hanno  una lunghissima esperienza di guerriglia fin dalla guerra civile etiope che dal 1976 al 1991 lo oppose alla dittatura comunista di Menghistu Haile Mariam. E dopo aver costituito il nerbo della guerriglia anticomunista, ha formato per molti anni il nerbo del nuovo esercito etiopico, nonostante i tigrini rappresentino solo il 6% della popolazione.

Dopo che nel 2018 l’ascesa al potere del premier Abiy Ahmed ha in pratica espulso da Addis Abeba la lobby tigrina, il TPLF ha mantenuto un suo potere locale ad altissima autonomia nella regione della sua gente, formando una fortissima milizia inizialmente organizzata come un corpo settentrionale dell’esercito regolare etiope, in pratica ammutinatosi fin dalle prime ore della guerra.

Ebbene, nei primi mesi dell’invasione i tigrini contavano su 45.000 uomini, fronteggiando almeno 50.000 militari federali. Queste cifre sarebbero poi notevolmente cresciute man mano che altri tigrini disertavano dall’esercito federale raggiungendo i loro compagni, mentre numerosi civili, anche donne e ragazze, si arruolavano nella TDF come vendetta per le angherie, i saccheggi e gli stupri ripetutisi da parte etiopica, Amhara ed eritrea sugli abitanti del Tigrè.

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Si stima che i combattenti tigrini potrebbero essere cresciuti fino a un totale di 200.000, molti su una popolazione di 7 milioni di persone. Non è dato sapere in che misura siano combattenti a tempo pieno, o se in parte possano essere miliziani che periodicamente, magari sulla base di turnazioni, tornino ai villaggi per attendere alla sopravvivenza delle famiglie.

Parallelamente, l’esercito etiopico potrebbe aver raggiunto un picco massimo di 140.000 uomini nel Tigrè, su un totale di 350.000 soldati, dei quali però la maggior parte deve seguitare a presidiare il resto dell’irrequieta Etiopia. Essendo la società tigrina a maggior “densità di militarizzazione” rispetto alla media etiopica, potrebbero essere realistiche le cifre indicate in questi giorni dal presidente tigrino Debretsion Gebremichael, secondo cui i miliziani TDF avrebbero annientato sul campo “7 delle 12 divisioni dell’esercito federale etiopico inviate nel Tigrè”, risultato pari a “18.000 soldati nemici uccisi e 8.000 fatti prigionieri”(nella foto sotto)

I tigrini disponevano all’inizio di armamento pesanti, anche carri armati e razzi Grad, per quanto vecchi, a cui hanno in pratica rinunciato perchè costituivano bersaglio troppo vulnerabili per le forze etiopiche ed eritree, soprattutto l’aviazione e l’artiglieria. Sono ritornati alle loro origini guerrigliere ritirandosi nelle zone montuose centrali del loro territorio, applicando né più né meno che la tattica della guerra rivoluzionaria di Mao Zedong, ma con una importante differenza.

Mentre nel 1934 Mao e l’Armata Rossa cinese erano sfuggiti all’accerchiamento nemico con la Lunga Marcia, spostandosi in una grande colonna attraverso mezza Cina, fino a raggiungere una posizione periferica vicina al confine dell’alleata Unione Sovietica, le forze tigrine hanno ripiegato nel centro del paese senza poter contare su nessun amico esterno da cui poter ricevere aiuto o sostegno logistico attraverso una frontiera.

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Non è un caso che, per incentivare l’accerchiamento dei tigrini, Addis Abeba abbia fatto leva sulla rivalità etnica fra tigrini e Amhara, favorendo la presa di possesso da parte di circa 10.000 miliziani Amhara del confine tra il Tigrè e il Sudan.

Per consolidare il controllo dell’entroterra montuoso del paese, i tigrini hanno attuato fra marzo e aprile 2021 una prima importante campagna, detta Operazione Seium Mesfin, in onore di un dirigente tigrino massacrato dagli etiopi, che era stato anche, dal 1991 al 2010, un longevo ministro degli Esteri dell’Etiopia a egemonia, allora, tigrina.

Con questa campagna primaverile le forze tigrine hanno scacciato le sparute avanguardie nemiche penetrate fino a lì, avvantaggiate dall’aver conseguito una superiorità numerica locale, dato che le maggior parte delle forze nemiche presidiava comunque i grossi centri urbani.

La compattezza della popolazione tigrina nell’aiutare i propri miliziani è parsa fin dall’inizio fuori discussione, dato che i massacri e i saccheggi perpetrati da i filogovernativi e dagli eritrei hanno da subito scavato un fossato incolmabile con Addis Abeba e Asmara.

Già in gennaio avevano fatto scalpore le uccisioni a bruciapelo di tre anziani ex-capi del TPLF, ovvero il citato Sium Mesfun, Abbay Zehaye e Asmelash Woldesillase, quest’ultimo cieco, da parte di soldati etiopi che hanno poi condiviso sui social le foto dei cadaveri, a mo’ di trofeo. Il 1° aprile la BBC britannica dava notizia di un massacro compiuto dalle truppe etiopiche nell’area di Mahbere Dego, dove 73 uomini sono stati portati via dalle loro case e, a giudicare da numerose immagini che la BBC ha ripreso da Africa Eye, sono stati condotti sull’orlo di una scarpata e fucilati.

Sono circolate inoltre numerose fotografie o filmati ripresi da telefonini e usciti “di fortuna” dal Tigrè, stante l’interruzione dei collegamenti internet, che mostrano scene di massacri e perfino, l’impiego curioso di un carro armato T-55 stracarico di suppellettili e mobilio assicurati allo scafo e alla torretta, come per un trasloco.

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Probabile conferma della rapina di beni saccheggiati alla popolazione. Per passare ad eventi più recenti, il 22 giugno un tremendo attacco aereo etiopico su civili al mercato di Togoga, circa 25 km da Macallè, ha causato 80 morti e 43 feriti. Il raid sarebbe avvenuto alle 13.37, secondo i tigrini, quando il mercato era ancora affollato di contadini, donne e ragazzi intenti a comprare o scambiare prodotti agricoli.

I testimoni hanno raccontato di aver sentito “il ruggito di un aviogetto” poco prima delle esplosioni. Gli etiopi hanno sostenuto di aver condotto, un attacco aereo, probabilmente con uno dei loro vecchi Mig-23, ma “contro forze ribelli” e “non sul mercato”.

In particolare, un portavoce militare di Addis Abeba, il colonnello Getnet Adane, ha detto alla BBC: “Non abbiamo mai attaccato un mercato, com’è possibile? Noi siamo capaci di mirare accuratamente i bersagli. Abbiamo condotto attacchi, ma solo su certi obbiettivi. E’ completamente scorretto dire che abbiamo attaccato un mercato”.

L’ufficiale etiopico ha poi detto che “l’attacco è stato sferrato su combattenti vestiti con abiti civili a Togoga, ma non erano nel mercato”, preoccupandosi però di specificare che “il raid è avvenuto dopo le ore 15.00, quando il mercato doveva essere ormai chiuso”, cioè almeno un’ora e mezza dopo l’orario indicato dai testimoni.

Il 24 giugno, inoltre, sono stati massacrati da una mano rimasta ignota tre operatori umanitari di Medici Senza Frontiere, i cui corpi sono stati ritrovati la mattina del 25 giugno. Erano la spagnola Maria Hernandez e i locali Yohannes Halefom Reda (coordinatore di MSF per il Tigrè) e Tedros Gebremariam Gebremichael (autista). Poichè nei mesi precedenti molti rapporti ufficiosi che denunciavano abusi sulla popolazione erano venuti da personale di MSF, non pare da escludere l’ipotesi che i tre operatori umanitari siano stati assassinati perchè “scomodi testimoni”.

In una lotta così imbarbarita è francamente inspiegabile come il governo federale etiopico potesse davvero sperare di “normalizzare” la situazione nel Tigrè, tantopiù ignorando il carattere indomito e tradizionalmente guerriero di quelle genti, che era prevedibile non avrebbero mollato, nella comprensibile prospettiva di vendicarsi.

 

Operazione Alula

Dal 18 giugno 2021 è scattata una nuova offensiva del TDF, la più cruciale, denominata Operazione Alula, in memoria di un condottiero abissino di etnia tigrina del XIX secolo, Ras Alula Engida (1827-1897).

Essa ha visto gran parte delle forze tigrine operare anche contro le truppe eritree, dimostrando la capacità del TDF di combattere su due fronti per linee interne, una volta “bonificato” il centro geografico del Tigrè. Il 22 giugno è stata presa Adigrat, mentre iniziava l’accerchiamento di Macallè, contando presumibilmente sull’appoggio segreto dei civili rimasti nelle città in favore dei miliziani provenienti dalle campagne circostanti.

Il 23 giugno s’è verificato un notevole successo tattico e propagandistico, poiché l’antiaerea delle forze tigrine ha abbattuto (nelle foto sotto), non si sa tuttavia se con un missile o con cannoni da 20 o 30 mm, un Lockheed C-130 Hercules che era stato fornito nel 2014 ad Addis Abeba dagli americani.

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Il quadrimotore a turboelica apparteneva al 15° Squadron dell’aviazione governativa di base a Debre Zeit, in Oromia, a Sudest di Addis Abeba. Secondo il TDF l’Hercules stava volando sopra il Tigrè, nell’area di Gijet, carico di armi e rinforzi per l’esercito federale, quando è stato distrutto, disintegrandosi al suolo e non lasciando scampo alle “dozzine di persone a bordo”.

La versione del governo federale parla di un “incidente”, ma si può avere un’idea dell’accaduto visionando il filmato diffuso in rete dai tigrini. Nella breve sequenza si vede il C-130 volare a quota relativamente bassa e all’improvviso prorompere una enorme fiammata. L’aereo etiope inizia a picchiare verso il terreno, rovesciandosi fino a sfracellarsi.

L’audio è confuso e forse copre eventuali raffiche di cannoncino, ma la distruzione dell’aereo è sicura, come si vede dal suo precipitare e dalla distesa di rottami fumanti nel finale. E, d’altronde, la quota bassa a cui volava è compatibile con un non difficile abbattimento con cannoncini o missili spalleggiabili in possesso dei tigrini, tantopiù che la vistosa fiammata pare l’indizio di uno o più colpi andati a segno.

Da informazioni arrivate da operatori umanitari, sembra che le forze federali etiopi siano state colte di sorpresa dall’offensiva e si siano ritirate in modo precipitoso il 28 giugno, quando era da ormai una settimana che il TDF serrava il capoluogo. Il 29 giugno sono state liberate anche Scirè, Axum e Adua e si è proseguito a marciare avanzando verso i confini con l’Eritrea.

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Il 30 giugno i tigrini hanno combattuto contro gli eritrei a Badme e Shiraro, mentre il portavoce Reda commentava: “Siamo in pieno inseguimento cosicché le forze avversarie non pongano più minacce al Tigrè”.

Nei giiorni scorsi gli etiopi avrebbero ricevuto aiuti militari dall’Iran inclusi alcuni droni Mojaver 6 (nella foto sotto) visti sulla pista dell’aeroporto di Senera nella regione di Afar.

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Nell’ambito della riscossa tigrina, attorno al 1° luglio sono stati fatti saltare tre ponti sul fiume Tacazzè, fra Humero e la frontiera con l’Afar. I tigrini sostengono, non a torto, che sarebbero state le forze federali etiopiche, o gli eritrei, a demolire i ponti per rallentare le avanguardie del TDF.

Più precisa appare l’opinione dell’ONU, il cui personale sul territorio è prezioso testimone. Secondo l’U.N. Office for the Coordination of Humanitarian Affairs a far saltare i ponti sarebbero stati “miliziani Amhara filo-governativi insieme all’esercito eritreo”.

Una portavoce del World Food Program, Claire Nevill, ha lamentato che “la distruzione dei ponti avrà un impatto sulla distribuzione degli aiuti alla popolazione”. Da Addis Abeba, il portavoce Redwan Hussein ha invece accusato i tigrini, i quali in verità non avrebbero avuto alcun interesse a procurarsi il doppio svantaggio di ostacolare il proprio esercito nell’avanzare oltre il fiume e parimenti gli aiuti internazionali diretti alla propria gente.

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L’emergenza umanitaria rimane critica e a fine luglio si calcolavano in Tigrè e nelle aree circostanti 400.000 persone affamate, più altri 1,8 milioni a rischio di carestia. Ancora il 19 luglio un convoglio del WFP con rifornimenti di cibo è stato fermato nell’Afar, dove dal capoluogo Semera cercava di entrare nel Tigrè. Il governo federale accusa il TDF di aver bloccato il convoglio con cannonate intimidatorie, ma i tigrini ribattono accusando i governativi.

Comunque, fra le palesi dimostrazioni delle recenti vittorie tigrine, s’è avuta il 2 luglio una sfilata di circa 7000 prigionieri etiopi nelle vie centrali di Macallè, come dimostrano le immagini ampiamente diffuse sui media.

Sorvegliati dai miliziani TDF, fra ali di folla festante che acclamava i propri eroi, i vinti sono stati avviati alla detenzione, ma già il 17 luglio si è appreso che 1000 di essi sono stati rilasciati.

Poichè col passare dei giorni è emersa sempre di più la volontà tigrina di portare in controffensiva la guerra fuori dal proprio territorio, in modo da assestare agli avversari una batosta memorabile, la preoccupazione per un’escalation regionale, dovessero crollare i regimi di Asmara e Addis Abeba, ha spinto il 7 luglio il segretario di Stato USA Antony Blinken ha chiedere una “totale ed immediata uscita delle forze federali etiopiche e di quelle dell’Eritrea dalla regione del Tigrai”.

Ciò nella speranza che il TDF si calmi e, ottenuta la liberazione totale della sua regione, sospenda l’offensiva. L’Operazione Alula propriamente detta, in effetti, è stata considerata conclusa il 6 luglio, ma subito è iniziata la preparazione della successiva spallata, volta soprattutto contro le milizie Amhara.

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Dal 12 luglio è in tal modo iniziata una nuova offensiva tigrina, l’Operazione Madri Tigrine, che interessa la parte sud-occidentale della regione, come ha spiegato il portavoce Reda: “Abbiamo lanciato un’offensiva nella regione meridionale di Raya e abbiamo sconfitto le forze di difesa federali e le divisioni delle forze speciali di Amhara. Abbiamo messo in sicurezza la maggior parte del Tigrè meridionale, tra cui Korem e Alamata. Combattimenti sono in corso anche nel Tigrè occidentale”.

Risulta così confermato il quadro di un esercito tigrino ormai in grado di sbaragliare gli avversari in modo inaspettato, dando credito ai timori di un esercito come quello eritreo, mediamente più agguerrito di quello federale etiopico, che attende l’urto coi tigrini nelle trincee settentrionali.

Il 13 luglio il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite, riunito a Ginevra, ha approvato una risoluzione volta al ritiro “rapido e verificabile” dei soldati eritrei dal Tigrè. La risoluzione è comunque passata abbastanza di misura, considerando che su 47 paesi membri solo 20 hanno votato a favore (Italia compresa), mentre 14 sono stati i contrari e 13 gli astenuti.

Gli eritrei restano schierati appena dentro il territorio tigrino, presso la loro frontiera e al momento attuale ci si interroga se la prossima mossa del TDF sarà una decisa offensiva in grado di sconvolgere la tenuta del governo di Asmara.

Già il 2 luglio il portavoce Reda non ha escluso che, se necessario, il TDF possa “marciare sull’Asmara se ciò servisse a scongiurare nuove future aggressioni al Tigrè”.

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La situazione sul campo di battaglia al 9 agosto: in verde le aree controllate dalle forze tigrine, in rosa quelle in mano alle truppe federali etiopiche, in grigio le regione controllate dalle milizie Ahmara alleate di Addis Abeba e in blu quelle in mano alle truppe eritree 

 

Ma allo stesso modo rischia l’esecutivo federale etiope. Il professor Mehari Taddele Maru, di origine tigrina, che insegna all’European University di Fiesole, ha osservato che l’alleanza fra il governo di Abiy Ahmed e le milizie Amhara potrebbe spezzarsi se venisse meno la possibilità di battere i tigrini.

Spiega il docente di geopolitica: “Il supporto Amhara per il premier può alla fine declinare. L’unica cosa che tiene insieme le cose nella regiona Amhara è il sentimento anti-Tigrè. Una volta che il problema del Tigrè è fuori questione, la colla che ha fissato il suo supporto non ci sarà più”.

E ancora peggio possono andare le cose per Ahmed nel caso in cui l’onda lunga del fronte tigrino arrivasse in Oromia, dove da tempo gran parte della popolazione è in aperta ribellione contro Addis Abeba. La potenziale convergenza Oromo-Tigrè contro il primo ministro può causare una spaccatura insanabile da cui l’Etiopia potrebbe salvarsi solo rispolverando il precedente federalismo etnico.

L’11 agosto il capo dell’Armata di Liberazione Oromo, Kumsa Diriba, che usa come nome di battaglia anche Jaal Marroo, ha dichiarato all’Associted Press che si starebbe trattando su un’alleanza militare coi tigrini del TDF. “L’unica soluzione è rovesciare militarmente il governo etiope, parlando il linguaggio che essi vogliono sia parlato” ha detto  Diriba che ha aggiunto come per il momento ci sia condivisione di dati di intelligence e non ancora una vera alleanza sul campo, anche se questa  si fa molto probabile.

 

Il cibo come arma

Abbiamo anticipato come il 2 agosto fosse emersa la notizia del ritrovamento di un totale di 38 corpi di tigrini nel fiume Tacazzè, trascinati dalle acque fino al confine col Sudan. Venendo ai macabri dettagli, i corpi sarebbero stati scoperti da pescatori sudanesi e da tigrini rifugiatisi in Sudan, come il chirurgo Tewodros Tefera, scappato da Humera.

Il medico ha riferito che “erano stati uccisi con colpi di arma da fuoco nel petto, nell’addome e nelle gambe. Avevano le mani legate e ne ho potuti riconoscere almeno tre come abitanti di Humera”. Alla notizia, vari funzionari etiopi, come il portavoce militare colonnello Getnet Adane e la portavoce del governo Billene Seyoum, hanno taciuto con una sorta di “no comment”, mentre un account Twitter del governo etiope ha parlato di “propaganda tigrina”.

Non è però propaganda l’ingresso il 5 agosto delle forze tigrine nella città santa copta Amhara di Lalibela, che da sola ospita ben 11 antiche chiese rupestri ed è patrimonio dell’UNESCO.

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Secondo il vicesindaco della città, Mandefro Tadesse, i tigrini sono entrati nel centro urbano senza bisogno di combattere e la popolazione locale è fuggita. Tadesse teme che i tigrini possano danneggiare i monumenti e ha cercato di invitarli a essere rispettosi: “È un sito patrimonio dell’umanità e dobbiamo cooperare per garantire che questo tesoro venga preservato”. E

‘ però ben difficile che un colpo d’immagine così importante, come l’entrare in una città etiopica senza nemmeno sparare, venga deliberatamente rovinato dai tigrini stessi con inutili distruzioni di reperti culturali simili a quelle perpetrate dagli islamisti dell’ISIS in Siria.

Poichè i convogli umanitari ONU sono ancora bloccati, ci si chiede se i nemici dei tigrini non stiano pensando eventualmente di vincerli per fame, dato che sul campo non sono riusciti, finora, ad averne ragione. Il 28 luglio Il direttore del World Food Program, David Beasley, ha rinnovato gli appelli a lasciar passare gli aiuti, ricordandone l’urgenza: “Il WFP finirà le scorte di cibo nel Tigrè questo venerdì 30. Servono 100 camion al giorno per raggiungere tutte le persone che vogliamo sfamare. 170 camion diretti nel Tigrè con cibo e altri rifornimenti sono bloccati in questo momento in Afar e non possono partire. Questi camion devono essere autorizzati a muoversi ora. La gente sta morendo in fame”.

Stando a Beasley, quindi, le scorte umanitarie in Tigrè si sarebbero esaurite venerdì 30 luglio, ma anche se così non fosse, è probabile che lo saranno comunque entro pochi giorni.

Dal canto suo, il governo di Addis Abeba accusa sempre il TPLF di sabotare gli aiuti, il che sembra però strano, essendo diretti alla sua stessa popolazione: “Il governo ha tenuto nei magazzini della regione del Tigrè oltre 400.000 quintali di grano e 2,5 milioni di litri di olio alimentare come riserva. Il benessere della nostra gente nella regione del Tigrè rimane una preoccupazione per il governo dell’Etiopia. Le organizzazioni internazionali, in particolare quelle che lavorano nel Tigrè, devono fare pressione sul TPLF perché metta fine alle sue provocazioni nella regione Afar e faccia passare il carico umanitario diretto nella regione”.

Il 30 luglio, poi, si è aggiunto l’allarme lanciato a Ginevra da Jens Laerke, portavoce dell’Ufficio dell’Onu per gli Affari umanitari (OCHA): “Tutte le rotte che portano nel Tigrè devono essere aperte, aeree e terrestri, per permettere alle organizzazioni umanitarie di prevenire perdite di vita su larga scala”. Secondo l’OCHA nel Tigrè sarebbero addirittura 5,2 milioni i bisognosi di assistenza umanitaria, circa il 90% della popolazione tigrina.

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Laerke ha ricordato che da giugno, solo un convoglio di 50 camion di aiuti ha potuto entrare nel Tigrè. E spiega: “I cooperanti e le forniture possono percorrere una sola rotta su strada, con molti posti di blocco nei quali gli operatori sono interrogati, minacciati e in alcuni casi arrestati”.

Tutto fa pensare insomma che Addis Abeba e le etnie anti-tigrine cerchino di vincere senza passare dal campo di battaglia, ma così facendo potrebbero solo aumentare la rabbia delle agguerrite forze TDF, che si sentirebbero in tal modo ancor più incentivate a portare la guerra nei territori esterni al proprio, coinvolgendo sempre più regioni. Magari proprio sperando di trascinarsi dietro etnie malcontente verso gli Amhara in una marcia verso Addis Abeba.

A conferma dell’ostilità del governo centrale etiopico verso gli enti umanitari destinati alla popolazione civile tigrina, il 6 agosto è giunta notizia del blocco delle attività imposto per i prossimi tre mesi a due delle ong più attive sul territorio, cioè la citata Medici senza Frontiere e il Norwegian Refugee Council, entrambi accusati dai funzionari di Addis Abeba di “violare molte regole”, avendo “introdotto illegalmente in Etiopia radio e telefoni satellitari”, nonché di aver “fatto entrare lavoratori stranieri senza i regolari permessi”. Probabilmente solo motivazioni tese ad arginare la presenza di scomodi testimoni stranieri.

Il comandante tigrino Tsadkan Gebremichael ha dichiarato l’8 agosto che l’offensiva del TDF fuori dai confini regionali del Tigrai è volta a scardinare il sostanziale embargo federale che affama la popolazione e ha reiterato richieste per un eventuale tregua, vale a dire: fine della persecuzione dei tigrini, rilascio dei prigionieri politici e dialogo inclusivo sul futuro della zona. G

li hanno replicato il ministro federale della Democrazia Zadig Abraha e il ministro degli Esteri Demeke Makonnen, che oltre a respingere le richieste tigrine hanno evocato la preparazione della controffensiva etiopica volta, secondo i ministri di Addis Abeba, a “scacciare i tigrini da ogni villaggio e città”.

 

Condottiero d’altri tempi

Nei primi critici mesi del conflitto, il comando supremo della TDF è stato assunto da Tsadkan Gebretensae, 68 anni (nella foto sotto), un generale formatosi sul campo, a suo tempo, come uno degli allora giovani capi del TPLF in lotta contro Menghistu, tanto da aver guidato nel 1991 l’offensiva finale su Addis Abeba. Era poi assurto a capo di Stato Maggiore del nuovo esercito etiopico a nucleo tigrino, dimettendosi nel 2000 per contrasti con l’allora presidente Meles Zenawi a proposito della guerra con l’Eritrea.

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Pur ritiratosi a vita privata, fra il 2018 e il 2020, aveva anche cercato invano di mediare fra il neo-centralismo di Abiy Ahmed e la dirigenza tigrina. Nonostante contrasti politici col TPLF, il generale non ha esitato a mettersi al servizio della sua gente, aderendo alla guerriglia fin dal novembre 2020 e facendosene guida insostituibile.

Le difficoltà sono state enormi e ancora nel gennaio 2021 avrebbe dichiarato: “Stiamo mangiando la polvere”. Ma è riuscito a organizzare la creazione di basi sicure nelle zone impervie del Centro-Sud del Tigrè, contando sull’appoggio incondizionato di tutta la popolazione.

Nel marzo 2021 ha ceduto lo scettro di comandante supremo al generale Tadesse Werede Tesfay (nella foto sotto), ma probabilmente è ancora lui a mantenere il diritto all’ultima parola, data la sua grande esperienza ed essendo rimasto membro del Comando Centrale della TDF.

In una rara e illuminante intervista datata 29 maggio 2021 ed effettuata fortunosamente dalla testata tigrina Dimtsi Weyane il generale Gebretensae ha ricordato l’importante ruolo dell’Eritrea, che alleandosi con l’attuale governo etiopico contro il Tigrè ha in pratica cercato “una rivincita” per la guerra combattuta in precedenza dal 1998 al 2000.

Sull’origine geopolitica del conflitto, ha spiegato il generale tigrino: “La guerra è sostenuta dal governo (eritreo) di Isaias e dalle elites Amhara. Hanno iniziato la guerra quando hanno pensato di essere ben preparati a sottomettere il popolo del Tigrè.

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Quando le elites Amhara hanno capito che il sistema unitario secolare stabilito dall’imperatore Menelik II si stava stemperando con l’istituzione del federalismo multietnico del fronte EPRDF (il vecchio fronte politico etiopico a guida tigrina), hanno fatto ripetuto tentativi di consolidare il loro potere e di fermarlo.

Più tardi hanno trovato qualcuno che attuasse la loro agenda. Abiy Ahmed, di etnia Oromo, è stato incoraggiato dalle elites Amhara ad assumere il potere. Andargachew Tsige e Berhanu Nega hanno messo in contatto Abiy con Isaias, cospirando con lui per disfare la struttura federale. Nel caso di Isaias, provava risentimento perchè non gli è piaciuta la fine della guerra di vent’anni fa”.

Il generale sostiene che il presidente eritreo, già in stretto contatto economico con gli Emirati Arabi Uniti, li avrebbe a sua volta messi in contatto col premier etiopico, sulla base di progetti di sviluppo comune del porto di Assab, sul Mar Rosso, e anche proponendo ad una Addis Abeba politicamente “de-tigrinizzata” una base navale militare in territorio eritreo.

Ciò, per inciso, segnerebbe il risorgere di una Marina militare etiopica dopo che nel 1991 l’indipendenza eritrea privò l’Etiopia di sbocchi al mare, facendo sì che gli ultimi resti della forza navale di Addis Abeba si trascinassero faticosamente fino al 1996 utilizzando porti in Yemen. Secondo lui, l’origine dell’attuale conflitto si ricerca in una sorta di complotto a tre, fra Etiopia a guida Amhara, Eritrea e “arabi”.

Gebretensae ricorda i punti di vantaggio dei tigrini nel presente conflitto: “Primo, il popolo del Tigrè è omogeneo, senza polarità ideologiche. Secondo, potete chiamarci comunità politica, senza partiti o altre influenze. Terzo, i tigrini hanno una profonda tradizione militare e si sono sacrificati molto in guerra per salvarsi dall’oppressione in passato”.

Negli sterili tentativi di mediazione che il generale aveva condotto col premier etiopico prima del conflitto, a suo dire, Abiy Ahmed avrebbe cercato di convincerlo ad accettare i mutamenti politici in tal modo: “Non c’è società che non sarà soggiogata dalla forza o dal denaro, lo stesso accadrà anche col popolo tigrino”.

Il generale è poi passato alla ricostruzione, anche tattica, del conflitto scoppiato nel novembre 2020, partendo dall’appropriarsi del comando Nord dell’esercito federale, in quella regione, che allora era in mano ai tigrini: “Gli etiopi cercano di presentare la guerra come ritorsione per un attacco delle truppe tigrine al Comando Settentrionale dell’esercito etiopico.

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E’ una balla. Il governo del Tigrè aveva 22 battaglioni, circa 10.000 uomini. C’erano migliaia di miliziani dispersi nelle loro case, che non erano pronti a una guerra convenzionale per scacciare i nemici. Il governo federale ha stabilito un nuovo Comando Nord-Occidentale che includeva zone del Tigrè occidentale, come Humera e Welkait, che gli Amhara rivendicano proprie.

Così hanno rimosso 6-7 generali dal centro di comando del Tigrè, rimpiazzandoli con altri. Il governo tigrino espresse la sua contrarietà e bloccò il provvedimento”.

In sostanza, Addis Abeba stava in autunno sostituendo i vertici militari delle forze armate di base in Tigrè con elementi avulsi dall’etnia locale. A quel punto “l’unica opzione per il governo del Tigrè era prendere il controllo del Comando del Nord, ma il nemico non se lo aspettava ed è rimasto stupefatto, così iniziò la guerra che aveva preparato”.

“Ad esempio – prosegue il condottiero tigrino – quando sono iniziati a Beaker i combattimenti contro la 5a Divisione Meccanizzata, arrivò anche la 33a Divisione e altre forze che erano già state spostate da Addis Abeba presso i confini. In quel momento le truppe dell’Eritrea iniziarono a cannoneggiare le città di Humera e Omhajer”.

La descrizione dei primi mesi del conflitto combacia con quanto già si sospettava: “Sono stati i droni dei paesi arabi  a colpire le armi che avevamo preso al Comando del Nord. In questo periodo i droni arabi hanno continuamente distrutto carri armati, obici, munizioni, riserve di carburante”. Un chiaro riferimento ai droni di fabbricazione cinese Wing Loong II (nella foto sotto) acquisiti dagli Emirati Arabi Uniti nel 2017  dislocati in Libia (Cirenaica) e a partire dal 2018 nella nuova base emiratina stabilita nella baia di Assab, proprio lì dove nel lontano 1882 era iniziata l’avventura coloniale dell’Italia nel Corno d’Africa.

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A questo punto si ebbe la transizione da guerra convenzionale a guerriglia diffusa, con il coinvolgimento sempre maggiore di volontari civili e “la Forza di Difesa del Tigrè si è espansa in modo esponenziale in differenti aree della regione”.

Nel frattempo, gli eritrei diventavano l’elemento trainante della guerra, avendo catturato gran parte del materiale bellico del Comando del Nord e formando una sorta di alleanza con le milizie etniche Amhara, mentre l’esercito etiopico propriamente detto mostrava segni di debolezza crescente.

“Possiamo ora vedere – dice il comandante – che la loro sconfitta è vicina. Il popolo tigrino ha creato brigate in 3-4 mesi. Abbiamo riconosciuto i vuoti da riempire e stiamo lavorando su di essi. Quando avremo eliminato le brigate eritree, la vittoria sarà imminente”.

E’ importante sottolineare come il generale tigrino abbia indicato nell’Eritrea e nel suo asse con gli Emirati Arabi Uniti il vero regista dell’attacco al Tigrè, facendo passare l’interpretazione secondo cui le elites Amhara e il premier Abiy Amhed siano stati in sostanza strumentalizzati.

Da un lato, può trattarsi di una semplificazione politica per legittimare la lotta dei tigrini agli occhi del resto dell’Etiopia, nella speranza, forse, che con il ritorno a un federalismo come quello degli anni scorsi, il Tigrè possa tornare a contare molto nella gestione del potere federale ad Addis Abeba.

E’ anche però dovuto al riconoscere che, militarmente, l’avversario più temibile resta al momento l’Eritrea, sulle frontiere settentrionali. E viene dall’intuizione che, se le truppe di Asmara dovessero subire troppi rovesci, ciò potrebbe con tutta probabilità ripercuotersi sulla tenuta interna del regime autoritario di Isaias Afewerki, potenzialmente forse anche rovesciarlo.

Del resto, il generale fa appello anche all’opposizione eritrea, specie della diaspora, nonché allo stesso popolo eritreo che “versa lacrime” sotto il governo di “Isaias e i suoi seguaci”.

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In conclusione, Gebretensae ha lanciato un appello a tutti i tigrini perchè seguitino a supportare le proprie milizie e applichino, anche in modo indipendente dal TDF, tattiche non ortodosse contro il nemico, se la situazione lo consente.

Le sue parole sembrano davvero una riedizione della dottrina della guerra di popolo maoista: “Ai giovani uomini del Tigrè dico di arruolarsi nell’esercito tigrino. Specie quelli che erano nelle forze della difesa o nelle forze speciali e che finora, per varie ragioni, non sono riusciti ad arruolarsi nelle TDF. Se non riuscite a farlo, formate dei gruppi dovunque voi siate, unitevi, proteggete voi stessi dai danni.

Ma quando una qualsiasi opportunità vi si presenta da sé, infliggete danni al nemico. A che scopo vengono nella nostra terra? Noi non andiamo nella loro. Proteggetevi, siate uniti e disciplinati, ma quando ne avete l’occasione non risparmiate il nemico. Formate solidi collegamenti con la nostra armata, che sta fuori dalle città, e siate preparati ad accettare ogni ordine che venga da essa, in qualsiasi momento.

Riconoscete i tigrini che formano un’alleanza contro il nemico. Consigliateli, avvisateli, fateli conoscere e aiutateli a ritornare indietro dalle loro missioni”. Queste erano le dichiarazioni rilasciate a fine maggio dal generale Tsadkan Gebretensae, che nel loro spirito generale sono state poi confermate nelle settimane successive dai successi campali tigrini.

 

La guerra dell’acqua

Con la guerra in Tigrè che va di male in peggio, Abiy Ahmed non poteva scegliere momento peggiore per ordinare il secondo riempimento della colossale diga GERD sul Nilo Azzurro, scatenando le ire di Egitto e Sudan. O forse gioca d’azzardo proprio per gettare fumo negli occhi agli avversari e di mostrarsi forte, ha tentato il tutto per tutto mostrando un muso duro per ragioni di propaganda.

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Costata 4 miliardi di dollari e alta 155 metri, per una lunghezza, al traverso del fiume, di quasi 1,8 km, la diga GERD, o Grand Ethiopian Renaissance Dam vanta una capacità totale di 74 miliardi di metri cubi e a pieno regime potrà dare 6,45 GigaWatt di energia elettrica, divenendo la più potente centrale idroelettrica dell’intera Africa. Alla cui costruzione, peraltro, ha partecipato il gruppo industriale italiano Webuild, già noto come Salini Impregilo.

Un primo riempimento parziale è stato effettuato lo scorso anno, nel luglio 2020, per circa 4,9 miliardi di metri cubi. A essi si sono aggiungersi quest’anno ulteriori 13,5 miliardi di metri cubi. Nonostante le ripetute proteste dei governi del Cairo e di Khartum, infatti, il 19 luglio è stato dichiarato “completo” il secondo riempimento, che coincide con l’attuale stagione delle piogge. E’ stato il ministro etiope dell’Acqua, Irrigazione ed Energia, Seleshi Bekele, ad annunciare trionfalmente sulla televisione di stato Ethiopian Broadcasting Corporation: “Il secondo riempimento della diga del Rinascimento è stato completato e l’acqua sta scorrendo. Ciò significa che abbiamo il necessario volume d’acqua per far funzionare due turbine”.

Dal canto suo il primo ministro Ahmed ha detto che “il riempimento non causerà danni ai paesi a valle”. Gli etiopi hanno proceduto, come già nel 2020, in modo unilaterale, dopo che per un anno si sono tenuti inutili tentativi di dialogo con Egitto e Sudan mediati dall’Unione Africana.

Gli etiopi non si sono curati troppo nemmeno dell’ONU, che l’8 luglio aveva espresso il sostegno a una soluzione negoziata fra Etiopia, Sudan ed Egitto, come proponeva l’inviato speciale delle Nazioni Unite per il Corno d’Africa, Parfait Onanga-Anyanga.

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Già il 6 luglio, vedendo come ormai inesorabile la decisione di Ahmed, il Ministero dell’Irrigazione egiziano aveva espresso una dura condanna del riempimento della GERD: “Rigettiamo questa misura unilaterale, che è una violazione delle norme internazionali che regolano i progetti realizzati su bacini di acque internazionali”. Il 17 luglio è stato il ministro dell’irrigazione sudanese, Yasser Abbas, a usare toni severi, sostenendo che “l’approvvigionamento idrico dal Nilo Azzurro continua a diminuire fino al 50 % a causa dell’inizio del secondo riempimento annuale della GERD”. Inoltre l’amministrazione della diga sudanese di Roseires ammonisce che “la ripresa ritardata dei negoziati sulla GERD metterà in pericolo il funzionamento di questa struttura”.

Il 23 luglio è intervenuto su Al Monitor l’ex-ministro dell’Irrigazione egiziano, Mohammed Nasr Allam, rimasto molto influente: “Ciò che sta facendo l’Etiopia è un’aggressione e una chiara minaccia agli interessi nazionali egiziani e sudanesi. Il problema non è riempire la diga, ma la mancanza di un accordo che venga incontro agli interessi di tutte le parti. L’intransigenza dell’Etiopia può causare disastri per i paesi a valle. La GERD può avere conseguenze negative sulle dighe del Sudan, causare carenza di acqua da bere e per irrigazione, senza contare i danni in caso di crollo della diga”.

Allam stima le risorse idriche dell’Egitto a 60 miliardi di metri cubi l’anno, a fronte di un fabbisogno di 114 miliardi di metri cubi. Il margine con cui pioggia e pozzi sopperiscono all’insufficienza del Nilo sarebbe quindi troppo risicato per il Cairo.

Allam menziona inoltre l’opzione militare, anzitutto rilevando che “la diga non è stata riempita con abbastanza acqua per poter scongiurare un’azione militare”. Cioè un ipotetico bombardamento aereo egiziano, o egiziano-sudanese, che avrebbe conseguenze catastrofiche se la diga fosse riempita al massimo, ma che, al momento attuale, potrebbe essere ancora possibile senza eccessivi effetti collaterali.

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Secondo lui, se si arriverà, o no, a una vera “guerra dell’acqua” con attacchi alla diga, dipenderà molto da ciò che accadrà nei prossimi mesi: “Il Cairo attende una presa di posizione della comunità internazionale sulla crisi della diga.

Il Consiglio di Sicurezza dell’ONU deve adottare la proposta portata avanti dalla Tunisia, che stabilisce il bisogno di rilanciare i negoziati sulla GERD a due condizioni. Primo, fissare una tabella di marcia per i negoziati, secondo far intervenire esperti e osservatori internazionali.

Se la comunità internazionale fallisse nel rilanciare il dialogo in questi termini e se l’Etiopia dovesse proseguire ad agire unilateralmente, il Cairo si muoverà difendendo il suo diritto alla vita usando la forza militare”.

Lo stesso presidente d’Egitto, Abdel Fattah Al Sisi, aveva evocato la possibilità di un attacco aereo alla diga GERD già nel 2020. E il 15 luglio 2021, ha fatto capire ancora che la questione è considerata vitale dal suo paese. Parlando pubblicamente al Cairo Stadium, a margine della presentazione di progetti di sviluppo agricolo, ha esordito: “L’acqua trattenuta dalla GERD farà perdere all’Egitto le riserve d’acqua necessarie negli anni di siccità. Ogni goccia d’acqua nella diga etiope significa una mancanza in Egitto per bere, per l’irrigazione e la produzione. Il che porterebbe al collasso dell’intero stato egiziano”.

Al Sisi, facendosi più diretto, ha poi apertamente richiamato l’opzione bellica: “L’Egitto ha gli strumenti politici e militari e il potere economico di determinare il suo destino e dar forza alla propria volontà. La sicurezza nazionale egiziana è una linea rossa”.

Nel caso peggiore, cioè di un ricorso alla forza, l’aviazione egiziana potrebbe portare a termine una missione contro la diga GERD con grosse probabilità di successo, data la sua potenza, che assicurerebbe il dominio dei cieli sopra l’Etiopia settentrionale. Nella base aerea più meridionale dell’Egitto, ad Assuan (sede peraltro di un’altra storica diga), è di base uno squadrone di caccia F-16, che potrebbero essere rinforzati da altri caccia in dotazione come i Mirage 2000, i Rafale, i Mig-29 o i nuovi Sukhoi Su-35. Gli egiziani avrebbero solo l’imbarazzo della scelta quanto a equipaggiamento.

L’aeronautica etiopica e la sua antiaerea, al confronto, potrebbero fare ben poco per arginare un simile raid. Certo, da Assuan alla diga etiope la distanza in linea d’aria è di circa 1400 chilometri, sensibilmente riducibile con l’impiego di basi avanzate in Sudan, anch’esso avversario di Addis Abeba sul dossier Nilo.

Da tempo i sudanesi, dopo il rovesciamento del regime di Omar El Bashir nel 2019, hanno stretto rapporti anche militari con l’Egitto, impegnando i rispettivi eserciti e forze aeree in esercitazioni comuni.

L’ultima sessione di grandi manovre egizio-sudanesi si è tenuta, proprio come monito all’Etiopia, fra il 25 maggio e il 1° giugno 2021. Denominata in codice “Guardiani del Nilo”, si è svolta nello stato sudanese del Kordofan e il capo di Stato Maggiore egiziano, generale Mohammed Farid l’ha chiaramente definita un allenamento a “sfide, pericoli e possibilità della loro escalation”.

Il riferimento alla crisi della diga è palese. Ma il Cairo e Khartum non disdegnano la via diplomatica prima di passare alle vie di fatto. Il 18 luglio Al Sisi ha incontrato il ministro degli Esteri cinese Wang Yi e gli ha chiesto di mediare con Addis Abeba sulla questione GERD sfruttando la notevole posizione della Cina come investitore in Etiopia.

Il diplomatico egiziano Mustafa Feki, dal canto suo, ha suggerito in un’intervista alla tv saudita MBC Channel che anche Israele si faccia intermediario nella questione e in effetti, la recentissima riammissione, il 23 luglio, dello stato ebraico come “osservatore” nella Lega Araba potrebbe incentivare questa pista. Dal canto suo, il Sudan cerca di dare il suo contributo stuzzicando la Russia, alla quale ha promesso una base navale sulla costa del Mar Rosso.

Mosca sta espandendo la sua influenza in Etiopia, ma essendo amica anche di Khartum e del Cairo ha tutto l’interesse a smorzare la crisi proponendo soluzioni accomodanti.

La guerra dell’acqua, per il momento, resta nel limbo e la diplomazia cerca di evitare uno scontro che, sotto tutti gli aspetti, vedrebbe perdente soprattutto l’Etiopia, già incrinata dalla guerra civile interna con le forze tigrine.

Non c’è dubbio però che imprevisti naturali e climatici, come una siccità più intensa del normale, unita all’indispensabilità di un bene base come le risorse idriche, possano in caso d’emergenza influire pesantemente sui processi di giudizio, riflessione e decisione delle classi politiche in paesi storicamente assetati.

Fra il 4 e il 6 agosto, il premier del Sudan, Abdallah Hamok, ha cercato, su suggerimento del segretario di Stato USA Anthony Blinken, di diminuire la tensione con Addis Abeba, da un lato proponendosi come mediatore fra il governo etiopico e i tigrini, dall’altro offrendosi di acquistare parte dell’energia elettrica prodotta dalla diga GERD.

Ma dall’Etiopia, per bocca della portavoce di Abiy Ahmed, Billene Seyum, è giunta una risposta negativa poiché il Sudan è stato definito “non credibile” a causa delle contese di confine nell’area di Al Fashaga. Al che, l’8 agosto, Hamdok ha richiamato a Khartum il suo ambasciatore in Etiopia, Gamal al-Sheikh.

 

Foto: TesfaNews, AFP, TPLF, Ministero Difesa Etiopico, EBC e Twitter

 

 

Leggi anche l’articolo di Mirko Molteni del dicembre 2020:

La guerra nel Tigrè e il rischio di “balcanizzazione” dell’Etiopia

Nato nel 1974 in Brianza, giornalista e saggista di storia aeronautica e militare, è laureato in Scienze Politiche all'Università Statale di Milano e collabora col quotidiano “Libero” e con varie riviste. Per le edizioni Odoya ha scritto nel 2012 “L'aviazione italiana 1940-1945”, primo di vari libri. Sempre per Odoya: “Un secolo di battaglie aeree”, “Storia dei grandi esploratori”, “Le ali di Icaro” e “Dossier Caporetto”. Per Greco e Greco: “Furia celtica”. Nel 2018, ecco per Newton Compton la sua enciclopedica “Storia dei servizi segreti”, su intelligence e spie dall’antichità fino a oggi.

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