Per USA e NATO disfatta senza precedenti in Afghanistan
Una disfatta senza precedenti nella storia (come ha ricordato ieri il Mullah Abdul Ghani Baradar), che ridicolizza gli Stati Uniti e la NATO, incapaci di difendere l’alleato afghano almeno il tempo necessario a completare il ritiro delle loro forze e il cui operato degli ultimi anni per rendere i militari di Kabul autonomi nel gestire le operazioni belliche contro i talebani si è rivelato del tutto inadeguato.
Una disfatta che da un lato galvanizzerà jihadisti e terroristi islamici in ogni angolo del globo e dall’altro indurrà molte nazioni a dubitare che USA e NATO siano disposti a difenderli ad oltranza in caso di attacco o minaccia.
In termini politici, Joe Biden sta pagando il prezzo della sconfitta resa ancora più umiliante dalle sue dichiarazioni dei giorni scorsi dimostratesi completamente avulse dalla realtà e al limite del patetico, al punto da imporre di chiedersi quale disastroso livello di consapevolezza della situazione afghana abbiano le agenzie d’intelligence statunitensi sulle cui informazioni il Presidente avrà sicuramente imbastito il suo intervento.
La debacle americana a Kabul è certo figlia di una gigantesca sconfitta dell’intelligence, incapace nonostante le sue numerose “antenne” di cogliere i movimenti e le attività dell’ISI pakistano che ha progressivamente minato con denaro, garanzie e promesse la fedeltà al governo di Kabul di comandi militari e governi provinciali.
Un’operazione effettuata a quanto sembra con un paziente e meticoloso lavoro basato su contatti personali al riparo dalle intercettazioni delle comunicazioni che continua ad essere ampiamente controllato dagli statunitensi.
Con maggiori elementi a disposizione potremmo forse parlare del trionfo dello Human Intelligence (Humint) dei servizi segreti pakistani, padrini e sponsor dei talebani, sull’intelligence hi-tech statunitense.
Sul piano politico Joe Biden porta il peso della disfatta che è però figlia degli accordi sottoscritti con i talebani a Doha nel febbraio 2020 dall’Amministrazione Trump e soprattutto della grave iniziativa di Obama nel 2010.
L’allora inquilino della Casa Bianca annunciò che avrebbe inviato ulteriori 33 mila rinforzi richiesti dai comandanti a Kabul per vincere la guerra ma al tempo stesso disse chiaramente al mondo e ai talebani che dal 2011 sarebbe iniziato il ritiro delle truppe statunitensi e alleate. Di fatto un invito ai talebani a resistere in attesa di tempi migliori che sono decisamente arrivati.
Di certo Il tracollo dell’Afghanistan costituisce una disfatta militare che fa impallidire anche i precedenti più “illustri”.
Quando nel febbraio 1989 l’Armata Rossa si ritirò dall’Afghanistan, il governo filo-sovietico del presidente Najibullah restò al potere fino al 17 aprile 1992, quando i mujhaiddin presero la capitale. Ora le truppe afghane addestrate e armate da statunitensi e alleati sono crollate prima ancora che venisse completato, il 31 agosto, il ritiro degli ultimi soldati americani.
Dopo gli accordi di Parigi con cui nel gennaio 1973 gli USA negoziarono il ritiro dei loro militari dal Vietnam, le truppe sudvietnamite continuarono a combattere per oltre due anni mentre quelle afghane si sono ritirate, arrese o disciolte in pochi giorni.
In tema di paralleli storici, molto in voga in questi giorni, il generale David H. Petraeus, ex comandante delle forze americane in Afghanistan, in Iraq ed ex direttore della Cia, “per l’America questo è un momento come Dunkerque. Dobbiamo riconoscerlo e rispondere in modo aggressivo e appropriato”.
Peccato che anche il tentativo di spalmare un po’ di gloria militare sul ponte aereo che sta evacuando occidentali e “collaborazionisti” afghani dall’aeroporto di Kabul sia destinato a infrangersi contro la cruda realtà
A Dunkerque i britannici difesero la sacca da cui venivano evacuati i militari, via nave e sotto le bombe. A Kabul non si combatte e non c’è nulla di epico nel ponte aereo in atto: i talebani hanno vinto e nessuno spara a militari e civili americani ed europei o agli afghani in cerca disperata di un posto su un aereo per essere evacuati.
I talebani, che potrebbero prendere l’aeroporto in meno di due ore, si limitano ad osservare soddisfatti il caos del traffico aereo gestito dagli americani e la fuga dei loro nemici che verrà documentata in mondovisione ancora per giorni rafforzando l’immagine mediatica del successo talebano.
Nonostante le rassicurazioni offerte dai talebani, che cercano evidentemente di offrire alla comunità e all’opinione pubblica internazionali un’immagine moderata e tranquillizzante è doveroso preoccuparsi per i diritti umani e civili in un Emirato afghano dominato di nuovo dalla sharia.
Meno pressanti di quanto sembrino oggi potrebbe risultare invece l’emergenza umanitaria e l’entità del flusso di profughi poiché la fine della guerra permetterà il ritorno alla normalità, il ripristino di commerci e attività oltre all’avvio di nuove imprese in grado di offrire molti posti di lavoro soprattutto nel settore minerario.
Gli USA abbandonano gli alleati? Pechino avverte Taiwan
Sudvietnamiti, cambogiani, curdi (più volte), somali, iracheni e ora afghani: la lista degli alleati abbandonati dagli Stati Uniti alla mercé del nemico comincia infatti ad essere lunga al punto che in ambito europeo e NATO non si dovrebbe indugiare oltre ad aprire un dibattito sul rapporto militare e strategico con gli USA, quanto mai necessario specie dopo che negli ultimi due discorsi sulla crisi afghana Biden non ha dedicato neppure una parola agli alleati europei.
Di certo il tema di quanta fiducia riporre nell’alleato americano se lo dovranno porre a Taiwan dopo che un editoriale del Global Times, quotidiano in lingua inglese del Partito comunista cinese, ha commentato i fatti dell’Afghanistan sottolineando che “la fuga” di Washington è “una lezione” per il Partito progressista democratico (Ppd) di Taiwan. Da Saigon alla Siria, avverte il giornale vicino al governo di Pechino, “abbandonare gli alleati” per “proteggere i propri interessi” è un “difetto” intrinseco “radicato” negli Usa. E il messaggio è accompagnato da una eloquente vignetta in cui l’aquila americana accompagna la presidente Tsai Ing-wen verso un tombino aperto.
Il Global Times invita senza mezzi termini Taipei a “svegliarsi dai propri sogni” di indipendenza, valutando con attenzione quanto “successo in Afghanistan: una volta scoppiata la guerra – aggiunge – la difesa dell’isola crollerà in poche ore e l’esercito americano non verrà in aiuto”. Ecco perché, conclude l’editoriale, “la scelta migliore per i vertici del Ppd “è evitare di portare la situazione a quel punto” e “agire come pedine strategiche degli Stati Uniti, portando i frutti amari di una guerra”.
Propaganda a parte, la Cina sta avviando nuove massicce esercitazioni intorno a Taiwan, resta il rischio concreto che l’umiliazione di USA e NATO a Kabul abbia e possa avere sempre di più riflessi negativi sulla solidità delle alleanze incentrate sugli USA e sulla credibilità militare complessiva dell’Occidente.
La disfatta delle forze afghane
Il disfacimento di interi reparti, arresisi o fuggiti in molti casi senza neppure combattere ha messo a nudo la “fake news”, sbandierata per anni a gran voce da USA e NATO, che evidenziava come i militari afghani addestrati dagli occidentali fossero in grado di combattere da soli e con successo i talebani.
Molti distretti e capoluoghi di provincia sono stati espugnati dai talebani quasi senza combattere dopo che gli insorti hanno offerto alle guarnigioni governative assediate l’opportunità di ritirarsi o di gettare le armi e tornare alle loro case consentendo così ai talebani di mettere le mani su ingenti quantitativi di armi, munizioni, veicoli e carburante (nelle foto che illustrano questo articolo il bottino di guerra)
Secondo fonti citate dal Washington Post fin dall’inizio dell’anno scorso, i talebani hanno offerto ai funzionari governativi dei villaggi rurali accordi di resa, che in realtà erano pagamenti in denaro in cambio della consegna delle armi.
Il crollo dell’esercito afghano, malgrado 20 anni di addestramento e miliardi di dollari investiti dagli americani, sarebbe motivato dalla corruzione degli alti gradi di esercito e polizia, spesso favorita da ritardi di mesi nei pagamenti degli stipendi peraltro finanziati dai paesi occidentali.
Inoltre, di fronte al ritiro di USA e NATO, le forze di sicurezza governative sarebbero diventate più sensibili alle offerte talebane anche se un crollo così sistematico e rapido non può non avere dietro una regia militare, politica e finanziaria che solo il Pakistan poteva mettere in piedi.
“Qualcuno voleva soltanto il denaro”, spiega un ufficiale delle forze speciali afghane, altri ritenevano che, una volta partiti gli americani, sarebbero tornati al potere i talebani e volevano essere dalla parte dei vincitori. L’accordo di Doha ha demoralizzato chi lavorava con il governo. “Hanno visto l’accordo come il segno della fine. Il giorno in cui è stato firmato si è visto il cambiamento. Ciascuno pensava solo a sé stesso. E’ come se gli Stati Uniti ci avessero abbandonato”, ha aggiunto l’ufficiale.
In linea teorica l’Esercito afghano contava 180 mila uomini, l’Aeronautica 8mila a cui aggiungere 130 mila poliziotti, anche se i numeri del personale in servizio sono sempre stati aleatori in Afghanistan a causa dell’elevato rateo di diserzioni o comunque di assenteismo prolungato di molti soldati, spesso per tornare in famiglia durante la stagione del raccolto.
Inoltre, specie in seguito al progressivo ritiro delle truppe alleate che hanno cessato nel 2014 le attività di combattimento, le forze afghane hanno subito perdite sempre più elevate negli scontri coi talebani, fino a 400/500 caduti e un migliaio di feriti al mese.
Perdite dovute anche alla scarsa presenza di giubbotti anti proiettile, di veicoli protetti contro mine e ordigni stradali improvvisati usati su vasta scala dai talebani: perdite e difficili da rimpiazzare in tempi ragionevoli considerato che arruolare e addestrare le reclute richiede molti mesi.
Anche l’addestramento impartito dalle truppe della NATO e poi dagli istruttori afghani è stato in molti casi limitato dal fatto che il 70/80 per cento dei militari afghani sono analfabeti o dotati di una scolarità così basica da impedire loro di comprendere manuali tattici e di manutenzione di equipaggiamenti.
Logistica e manutenzione sono quindi da sempre affidate a società straniere, per lo più contractors statunitensi il cui personale è stato evacuato con i contingenti militari stranieri.
Gli USA hanno voluto sostituire armi ed equipaggiamenti di tipo russo/sovietico, ben conosciuti a tutti gli afghani, con quelli americani, più sofisticati e che richiedono una maggiore manutenzione: un modo efficace per far rientrare negli USA gran parte dei miliardi di dollari spesi in Afghanistan ma che non ha contribuito a migliorare le prestazioni operative delle forze di Kabul.
Un ulteriore motivo di indebolimento delle forze di sicurezza afghane è la costante infiltrazione di numerosi talebani tra le fila dell’esercito e soprattutto della polizia, che in passato non hanno fatto mancare gli attacchi nei confronti degli istruttori e dei militari occidentali.
Il conflitto afghano è a bassa intensità, con battaglie combattute solitamente da poche decine o poche centinaia di combattenti: il motivo è legato anche alle difficoltà logistiche di spostare truppe e mezzi in un paese vastissimo, impervio e con pochissime strade, il cui traffico è peraltro sempre minacciato dagli ordini esplosivi disseminati dai talebani. In questo cointesto il vantaggio tattico è sempre a favore degli attaccanti che decidono dove e quando colpire mentre l’esercito afghano ha dovuto disseminare le sue forze a difesa di troppe aree urbane e centri strategici, destinati a restare isolati in assenza di supporto aereo e rifornimenti.
Tutti questi elementi combinati hanno impedito alle forze di sicurezza afghane di raggiungere gli organici previsti e finanziati annualmente con oltre 4 miliardi di dollari da Stati Uniti e alleati di cui l’Italia ha pagato una rata da 120 milioni di euro annua a partire dal 2014.
Nel marzo 2018 un rapporto del Pentagono evidenziava che le forze militari e di polizia afghane comprendevano 314 mila uomini, l’11 per cento in meno dei 352 mila previsti, ma è sempre stato difficile anche verificare la reale consistenza del personale inquadrato anche a causa della dilagante corruzione.
Molte reclute hanno pagato tangenti per essere arruolate e una volta nei ranghi militari e poliziotti sono stati spesso costretti a cedere ai superiori parte delle loro retribuzioni mentre in diversi casi rilevati dagli ispettori statunitensi i comandanti dei kandak (battaglioni) e delle brigate hanno fatto risultare inquadrati nei reparti soldati inesistenti, incassandone così gli stipendi.
Malcostume molto diffuso in diverse nazioni africane e asiatiche, come ad esempio l’Iraq, dove la corruzione è endemica e dove soprattutto sono gli occidentali a pagare i costi di gestione delle forze armate.
Non a caso nel 2014 l’esercito iracheno si dissolse di fronte all’offensiva dello Stato Islamico così come oggi quello afghano offre performance dello stesso tenore sotto i colpi dei talebani.
Un discorso a parte meritano le forze d’èlite, i commandos addestrati dai migliori reparti di forze speciali statunitensi, britannici e italiani che hanno mostrato anche in questi giorni di cocenti sconfitte una elevata combattività e la determinazione a non arrendersi.
Forse anche perché ai membri di questi reparti così come agli uomini dell’intelligence (National Directorate of Security) caduti prigionieri, i talebani non hanno mai risparmiato torture, esecuzioni sommarie e decapitazioni.
Nel giorno in cui è caduta Kabul quel che restava delle forze aeree afghane è fuggito sull’aeroporto uzbeko di Termez, raggiunto da 22 aerei e 24 elicotteri militari con a bordo centinaia di soldati afghani
Velivoli atterrati all’aeroporto uzbeko di Termez, nel sud del Paese, senza autorizzazione, come hanno reso noto fonti del governo a Tashkent. Anche in Tagikistan, all’aeroporto di Bokhtar, sono arrivati in aereo 100 soldati afghani. Il ministero della Difesa uzbeko aveva in precedenza reso noto che un sistema di difesa anti aereo aveva abbattuto ieri sera un aereo da combattimento afghano A-29 Super Tucano ma che i piloti erano riusciti a salvarsi.
Le alternative alla disfatta
Biden continua a difendere le ragioni del ritiro statunitense e fin dai primi imbarazzanti tracolli delle truppe afghane confermò di non rimpiangere “la decisione di ritirare le nostre truppe dall’Afghanistan. I leader afghani devono ora mettersi insieme e lottare per sé stessi e per il loro Paese”.
Dopo la caduta di Kabul e la proclamazione dell’Emirato, Biden ha insistito sostenendo che “siamo andati in Afghanistan quasi 20 anni fa con obiettivi chiari: prendere quelli che ci hanno attaccato l’11 settembre 2001 e assicurarci che al Qaeda non potesse usare l’Afghanistan come base da cui attaccarci di nuovo.
L’abbiamo fatto, dieci anni fa. La nostra missione non avrebbe mai dovuto essere la costruzione di una nazione, ma combattere il terrorismo. Abbiamo speso 1.000 miliardi di dollari, equipaggiato bene 300mila uomini, l’esercito afghano aveva mezzi, sono stati foraggiati finanziariamente, abbiamo fornito supporto logistico, abbiamo dato la possibilità agli afghani di decidere il loro futuro, ma non abbiamo potuto dare loro la volontà di combattere per il loro futuro”.
Affermazioni che non nascondono il cinismo di fondo con cui USA e NATO hanno voltato le spalle a Kabul, in parte perché logorati da 20 anni di guerra e in parte perché Washington sembra trovare più conveniente lasciare che l’Afghanistan tornato in mani talebane provochi grattacapi a russi e cinesi piuttosto che continuare a investirci sforzi economici e militari.
Le alternative a questa disfatta, che travolge anche l’onore e la credibilità delle potenze occidentali e della NATO, non solo non mancavano ma erano facilmente percorribili in termini operativi e finanziari se vi fosse stata la volontà politica di restare ancora in Afghanistan o almeno di “salvare la faccia”.
Come Analisi Difesa aveva sottolineato anche in passato, sarebbe stato sufficiente mantenere l’assetto logistico esistente fino all’estate 2020 che impegnava anche molti contractors civili e continuare a schierare sul campo due dozzine di velivoli da combattimento e una cinquantina di elicotteri costituendo sei task force da combattimento (ognuna dotata di circa 1.500 militari con artiglieria, droni tattici, mezzi blindati, componenti genio, aeromobile e sanitario) da dislocare in ognuna delle regioni militari in cui è diviso l’Afghanistan (Capitale, Nord, Sud, Ovest, Est e Sud Ovest) a stretto supporto dell’esercito locale.
Circa 10 mila militari americani, britannici e degli alleati della NATO: una forza ulteriormente comprimibile impiegando in determinati settori, incluso il combattimento e l’affiancamento delle forze afghane, di contractors delle compagnie militari private anglo-americane. Proposta che Erik Prince aveva formulato nel 2018 all’Amministrazione Trump per rimpiazzare almeno in parte i militari in Afghanistan.
Un dispositivo certo inadeguato a vincere la guerra e a schiacciare l‘insurrezione talebana ma sufficiente a non perdere il conflitto, a impedire agli insorti di conquistare i capoluoghi di provincia e di circondare le città più importanti, consentendo al governo e all’esercito di Kabul di mantenere il controllo dei punti nevralgici del paese.
Un impegno che, con sforzo militare ed economico contenuti, avrebbe impedito agli alleati di buttare al vento 20 anni di guerra e di regalare alla causa jihadista un successo clamoroso che ingigantirà la minaccia per l’Occidente.
I costi di una guerra inutile
Quanto ai costi finanziari di 20 anni di guerra molti dei miliardi di dollari stati spesi dagli Stati Uniti sono rientrati negli USA sotto forma di pagamento per servizi di addestramento e manutenzione o fornitura di armi ed equipaggiamenti e forniture civili per la ricostruzione del paese.
Solo di spese vive, per sostenere il contingente americano che nel 2011 arrivò a superare i 100 mila militari, Washington ha investito oltre mille miliardi (l’Italia quasi 9): il Pentagono ha rivelato due anni or sono che tra l’ottobre del 2001 e il settembre del 2019 il totale delle spese militari in Afghanistan aveva raggiunto i 778 miliardi di dollari. Molti altri miliardi sono stati assorbiti dalle spese di assistenza per le cure a feriti e invalidi.
Alle spese militari vanno poi aggiunti fondi per gli aiuti alla popolazione civile stanziati dal dipartimento di Stato Usa insieme all’Agenzia per lo sviluppo internazionale (USAID) per 44 miliardi di dollari secondo un report reso noto nei giorni scorsi dall’agenzia Adnkronos.
I costi salirebbero quindi a 822 miliardi tra il 2001 e il 2019 senza tener conto del denaro speso dalla CIA in Pakistan e i 143 miliardi di dollari spesi in progetti per la ricostruzione dell’Afghanistan, 88 dei quali peer Security Sector Reform, cioè la organi8zzazione di forze armate e di polizia. Altri 36 miliardi hanno finanziato il governo afghano mentre i fondi rimanenti hanno coperto altri programmi incluso quello, fallito, o per l’eradicazione delle coltivazioni di oppio.
Le stime citate dall’Adnkronos attribuiscono all’Italia una spesa complessiva di quasi 9 miliardi, meno dei 30 miliardi spesi dalla Gran Bretagna e dei 19 investiti dalla Germania.
Sul fronte delle perdite la guerra afghana è sempre rimasta a bassa intensità con un numero di morti, inclusi civili, militari e talebani di circa 170 mila in 20 anni.
In particolare le perdite tra le fila della coalizione sono state complessivamente 3.596 secondo l’ong statunitense Icasualties.org che ha catalogato ogni singolo caduto inclusi i morti per incidenti, suicidi o altre cause diverse dal fuoco talebano.
Perdite suddivise tra statunitensi (2.452), britannici (455) e i contingenti di un’altra cinquantina di nazioni (689) di cui fanno parte anche i 53 caduti italiani a cui si aggiungono circa 720 feriti.
Benchè la difficoltà politica e sociale a gestire le perdite sul fronte afghano abbia costituito una delle cause più importanti che hanno indotto USA ed Europa a ritirare prima le forze da combattimento (nel 2014) poi ora tutti i contingenti, in termini militari una media di 180 caduti all’anno per forze armate che tra tutte le nazioni NATO superano i 3,5 milioni di militari (senza contare le riserve) risultano pienamente sopportabili.
Basti pensare che in dodici anni di guerra in Vietnam gli americani persero 58 mila uomini e altri 54 mila nei tre soli anni di guerra di Corea, senza voler guardare alle carneficine delle due guerre mondiali.
Nonostante una potenza tecnologica senza precedenti nella storia, la crescente incapacità delle società e dei leader occidentali di sostenere i costi bellici condiziona in modo strategicamente penalizzante la possibilità di affrontare i nemici, difendere interessi nazionali o sovranazionali, sostenere nel tempo conflitti e, come a Kabul, di tutelare gli alleati.
Foto: Emirato Islamico dell’Afghanistan, Twitter e Ministero della Difesa Afghano
Gianandrea GaianiVedi tutti gli articoli
Giornalista bolognese, laureato in Storia Contemporanea, dal 1988 si occupa di analisi storico-strategiche, studio dei conflitti e reportage dai teatri di guerra. Dal 1991 al 2014 ha seguito sul campo i conflitti nei Balcani, Somalia, Iraq, Afghanistan, Sahara Occidentale, Mozambico e Sahel. Dal febbraio 2000 dirige Analisi Difesa. Ha collaborato o collabora con quotidiani e settimanali, università e istituti di formazione militari ed è opinionista per reti TV e radiofoniche. Ha scritto diversi libri tra cui "Iraq Afghanistan, guerre di pace italiane", “Immigrazione, la grande farsa umanitaria” e "L'ultima guerra contro l’Europa". Presso il Ministero dell’Interno ha ricoperto dal 2018 l’incarico di Consigliere per le politiche di sicurezza di due ministri e un sottosegretario.