La chimera della forza di reazione rapida europea

 

 

Nel corso di una recente intervista al Corriere della Sera l’Alto Rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell (nella foto sotto) ha affermato la necessità di creare una forza d’intervento rapido europea di almeno cinquemila uomini e donne da impiegare nelle future crisi, come quella dell’Afghanistan. “Come europei non siamo stati in grado di mandare seimila soldati attorno all’aeroporto (di Kabul) per proteggere la zona. Gli americani ci sono riusciti, noi no”, ha dichiarato Borrell. La Initial Entry Force così concepita dovrebbe essere in grado di proteggere gli interessi dell’Unione Europea quando gli americani non vogliono essere coinvolti.

Nello scorso mese di maggio, quattordici Stati europei tra i quali la Germania, la Francia e l’Italia, avevano già presentato la proposta di dotare l’UE di una capacità di intervento interforze di questo genere, pensando forse più alla Libia che all’Afghanistan, prendendo probabilmente atto di un oramai inesorabile disimpegno statunitense dalla geopolitica dell’Europa. L’idea, come già molte analisi hanno evidenziato, non è affatto nuova poiché ricalca senza tanti sforzi d’immaginazione quella della costituzione degli EU Battle Groups, creati nel 2007 a seguito della crisi, mal gestita dall’Europa, dei Balcani.

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In tale contesto è interessante notare come la “chiamata alle armi” di Borrell ricordi quella indubbiamente più autorevole effettuata nel settembre del 2002 da Donald Rumsfeld, il Segretario di Stato del governo di George W. Bush: “Se la NATO non possiede una forza veloce e agile, in grado di schierarsi in giorni o settimane, invece che in mesi o anni, allora non avrà molto da offrire al mondo nel 21° Secolo”.

Così uno dei maggiori artefici dell’esercizio del national power statunitense post 9/11 promuoveva in un’intervista al Daily Telegraph, agli occhi dell’opinione pubblica americana, il ruolo della NATO globale. Infatti, l’enunciazione di Rumsfeld era sincrona con la proposta presentata, nello stesso mese dell’intervista, dagli Stati Uniti all’Alleanza Atlantica, di istituire le NATO Response Forces (NRF) e di promuoverle quale veicolo principale della trasformazione delle forze armate dei paesi membri dell’Alleanza in chiave expeditionary in grado, cioè, di intervenire prontamente in ogni parte del mondo per gestire le crisi.

 

Armatevi, ma non partite

I Battle Groups europei e le NRF hanno condiviso la stessa sorte. Nessuna delle due formazioni è stata mai impiegata nelle operazioni per le quali erano state concepite. I primi, istituiti appena un anno dopo il raggiungimento della full operational capability delle NRF, conseguita nel 2006, ne copiavano pedissequamente i principi d’impiego e in parte la composizione e la struttura.

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Erano di modesta entità (1500 soldati) e operativamente insignificanti dal momento che lo spettro delle possibili missioni era molto ristretto: principalmente assistenza umanitaria, evacuazione, prevenzione dei conflitti (che non significava e non significa nulla) ed escludeva le Crisis Response Operations e il Peacekeeping, vale a dire il reale core business di ogni formazione militare di questo tipo.

Inoltre, il raggio d’azione non poteva eccedere i seimila chilometri da Bruxelles. In ogni caso non si sono mai realizzate le condizioni politiche per il loro schieramento, soprattutto per la costante opposizione del Regno Unito che rifiutava a priori qualunque iniziativa che potesse anche lontanamente essere ricondotta all’idea di un esercito europeo, nemico della sovranità nazionale britannica.

Anche le più famose e capaci NRF (parliamo in questo caso di circa 25/30.000 soldati), sono rimaste praticamente al palo. Infatti, sono state impiegate solo due volte in contesti operativi modesti costituiti dalle missioni di soccorso alle popolazioni degli Stati Uniti e del Pakistan colpite, rispettivamente, dall’uragano Katrina nell’agosto del 2005 (anno della initial operational capability) e dal terremoto dell’ottobre del 2006. Davvero poca cosa rispetto alle potenzialità di un’organizzazione in grado di agire lungo uno spettro amplissimo di missioni e senza limiti geografici di alcun genere.

Il mancato impiego delle NRF è attribuibile principalmente a tre ordini di motivi. Innanzitutto, i costi di approntamento e gestione delle operazioni. All’atto della costituzione di questa formazione, non si riuscì a raggiungere un accordo sul meccanismo di finanziamento comune delle missioni (common funding), in grado di assicurare il personale, i mezzi e i materiali necessari a garantire l’impiego delle varie componenti.

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La responsabilità della sostenibilità operativa delle nuove forze fu lasciata, di fatto, (e lo è tutt’ora) sulle spalle delle nazioni che forniscono la propria disponibilità a garantire la leadership della formazione e gli assetti necessari secondo le turnazioni concordate nell’ambito dell’Alleanza.

Di conseguenza (secondo motivo), gli onerosi e concomitanti impegni nazionali assunti dai maggiori paesi contributori della NATO in vari scenari di crisi nel periodo immediatamente successivo alla validazione delle NRF, ne hanno praticamente esaurito le capacità di risposta in termini finanziari e di assetti.

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Gli onerosi interventi in Afghanistan, Iraq, Kossovo, Libano, Mali, Repubblica Centro Africana e Sierra Leone, per citare i teatri d’impiego principali di quel tempo, sono stati sostenuti a fronte di risorse economiche dedicate alla difesa sempre decrescenti, almeno a est di Washington, rendendo estremamente difficile la realizzazione delle condizioni per l’attivazione delle nuove forze d’intervento. Senza parlare poi (terzo motivo) delle considerazioni di carattere politico riguardanti l’opportunità o meno di fare intervenire la NATO in determinate regioni del mondo dove l’Alleanza Atlantica non è, per così dire, “popolare”.

Considerati tutti questi precedenti è dunque lecito chiedersi quante possibilità abbia la rispolverata iniziativa europea della forza d’intervento rapida di essere costituita, di sopravvivere e di essere realmente impiegata.

 

I requisiti per un appoggio pragmatico

Prima di tutto, bisogna circoscrivere l’ambito dell’analisi escludendo l’ingombrante aspetto della possibile costituzione di un esercito europeo in generale. Ogni volta che l’Europa è in affanno nelle crisi internazionali l’argomento ritorna in auge creando aspettative che vengono puntualmente disattese nel giro di qualche mese.

La tragedia dell’aeroporto di Kabul ha nuovamente riaperto il dibattito e si cerca di promuovere nuovamente la dimensione militare dell’UE, nella sua totalità, sfruttando l’emotività del momento.

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Come sappiamo, gli ostacoli maggiori da superare sono sempre stati di natura squisitamente politica e tanto è stato detto, anche nel corso delle ultime settimane, circa la necessità di creare delle forme di cooperazione rafforzata tra un numero ristretto di paesi membri che possa superare il problema delle decisioni all’unanimità.

I complicati tecnicismi decisionali dell’UE nascondono però anche un altro insormontabile impedimento, di natura culturale, alla realizzazione del progetto della difesa comune dotata di proprie forze armate.

La dimensione militare dell’Unione Europea non è mai stata realmente accettata, quale componente della visione politica dell’UE, dalla maggior parte dell’apparato burocratico dell’Unione, incluso l’influente establishment diplomatico internazionale che presiede la pressoché totalità dei meccanismi di funzionamento unitari.

Nei fatti, l’attuale visione dell’Europa si fonda prevalentemente sulla dimensione economica e non-militare e non credo ci si possa aspettare cambiamenti di rotta significativi neanche sull’onda emotiva della crisi afgana. In questo momento, dunque, ridurre il livello d’ambizione per concentrare l’attenzione su una proposta circoscritta e senza troppe pretese potrebbe incontrare il favore di almeno uno zoccolo duro di membri determinati a procedere in ogni caso e a qualunque costo.

In secondo luogo, ci dobbiamo chiedere quale tipo di missioni affidare alla costituenda forza, per derivarne a sua volta tipologia, entità, sostenibilità e costi, e capire se sia opportuno inquadrarla nell’intricatissimo sistema decisionale dell’UE, ancorché alleggerito da un’improbabile adozione di cooperazioni rafforzate, oppure governata da una cabina di regia istituita ad hoc nel paese che offre le strutture di comando, decisamente abbondanti in tutti i più importanti paesi UE, necessarie per la pianificazione e la condotta dell’operazione.

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Early Entry è un termine sicuramente di effetto ma bisogna comprenderne il significato. Vuol dire entrare per primi, avviare un’operazione, creare le condizioni perché tutto ciò che viene dopo l’ingresso iniziale possa, a sua volta, assolvere la propria missione.

E’ uno degli aspetti più delicati e rischiosi di ogni operazione in quanto si entra quasi sempre per primi dove regnano l’incertezza e il pericolo. Early Entry è una funzione operativa, e come tale non è quantificabile a priori. Può riguardare un manipolo o migliaia di soldati a seconda della tipologia e la grandezza dell’operazione.

Le NRF, per esempio, assolvono spesso questa funzione nel contesto dei possibili interventi della NATO. Che cosa, dunque, vogliamo che entri “prima” e che cosa vogliamo che segua “dopo”? Ma, soprattutto, per fare che cosa e con quali obiettivi? Un’operazione di evacuazione complessa come quella di Kabul è differente da un contingente da inviare il Libia o nel Sahel, Siria o Iraq. In quali crisi vorremo impiegare quindi il nostro strumento e per ottenere quali risultati?

 

Non più di cinquemila

Un altro effetto scenico da evitare è certamente quello di fornire all’opinione pubblica dati fuorvianti circa l’entità dei possibili impegni totalmente scollegati dall’analisi dei possibili ruoli e compiti da assolvere. Partire dai numeri, che dovrebbero essere il risultato dell’analisi della missione, per poi giustificarne in qualche modo l’impiego non è solo intellettualmente disonesto ma professionalmente insignificante.

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Il “mantra” dei cinquemila soldati non meglio specificati (quali componenti della trilogia interforze?) continua però a rappresentare un cliché di riferimento numerico rassicurante per la politica che non vuole assumersi troppe responsabilità.

Anche quando dovevamo andare in Libia, nell’estate del 2015 fu annunciato alla stampa nazionale che si sarebbe andati in cinquemila, a fronte delle necessità reali di quasi ventottomila. Se questa è l’unità di misura “a prescindere” per la quantificazione dei futuri impegni militari unitari è meglio rinunciare.

D’altronde, i recenti sviluppi degli avvenimenti sul fronte politico militare europeo incoraggiano la rinuncia piuttosto che l’intraprendenza. Com’era prevedibile, la proposta di Borrell non fa breccia neanche di fronte alla débâcle colossale della crisi afhgana. Il vertice dei ministri della difesa dell’UE tenutosi in Slovenia la scorsa settimana è stato un fiasco e la forza di reazione rapida europea continuerà a costituire, assieme all’idea della difesa comune, una chimera.

Foto EUTM Mali, EUTM Somalia e Unione Europea

 

 

Nato a Vicenza nel 1960, è stato il vice comandante dell'Allied Rapid Reaction Corps (ARRC) di Innsworth (Regno Unito), capo di stato maggiore del NATO Rapid Reaction Corps Italy (NRDC-ITA) di Solbiate Olona (Varese), nonché capo reparto pianificazione e politica militare dell'Allied Joint Force Command Lisbon (JFCLB) a Oeiras (Portogallo). Ha comandato la brigata Pozzuolo del Friuli, l'Italian Joint Force Headquarters in Roma, il Centro Simulazione e Validazione dell'Esercito a Civitavecchia e il Regg. Artiglieria a cavallo a Milano ed è stato capo ufficio addestramento dello Stato Maggiore dell'Esercito e vice capo reparto operazioni del Comando Operativo di Vertice Interforze a Roma. Giornalista pubblicista, è divulgatore di temi concernenti la politica di sicurezza e di difesa.

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