K-19: la storia segreta del sottomarino sovietico

 

 

“La fulgida promessa sovietica di navi in grado di pattugliare all’infinito, raggiungendo ogni angolo del globo, celava un lato oscuro. In quel grandioso esperimento, gli uomini morivano. Gli americani non dovettero sparare un solo colpo. I russi erano pronti ad ammazzarsi con le proprie mani”. Così scriveva nel 2002 l’ex-capitano della US Navy Peter Huchthausen, già addetto navale all’ambasciata americana a Mosca dal 1987 al 1990, nel suo libro dedicato all’incidente del sottomarino nucleare sovietico K-19, uscito praticamente in contemporanea all’omonimo film diretto da Kathryn Bigelow e interpretato da Harrison Ford e Liam Neeson.

Dopo vent’anni il libro esce in italiano, edito dalla casa bolognese Odoya col titolo “K-19: la storia segreta del sottomarino sovietico” (pagine 208, euro 16), completo di un’appendice della regista Bigelow sulla genesi del film. Nei suoi anni a Mosca l’autore ebbe modo di parlare in via riservata con molti ufficiali ed ex-ufficiali della Marina sovietica, comprendendo come il guasto al reattore nucleare del K-19, nel 1961, non fu che la punta di un iceberg di una sequela di incidenti mortali che costellarono la flotta di Mosca fino a pochi anni fa.

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Certo, anche gli americani soffrirono tragedie sottomarine, su tutte quella dell’unità nucleare d’attacco Thresher, inabissatasi in Atlantico nel 1963, con tutti i suoi 129 membri d’equipaggio. Ma la flotta sovietica pagò un tributo assai più pesante, e protratto per decenni, a causa di due motivi principali, evidenziati dall’opera del capitano statunitense.

Da un lato, la fretta nel costruire e produrre decine di sottomarini a propulsione nucleare, per ridurre nel più breve tempo possibile il divario con la US Navy, che aveva in servizio la prima unità di questo tipo, lo storico Nautilus, fin dal 1954, seguito nel 1957 dal Seawolf, questi armati di siluri.

Poi nel 1960 ancora gli statunitensi inaugurarono con il George Washington e i suoi 16 missili Polaris A-1, la rivoluzionaria era degli SLBM. Dall’altro lato, il peso burocratico e organizzativo che rendeva molto difficile nel sistema sovietico verificare la qualità dei materiali e degli apparati impiegati nella costruzione delle unità subacquee, il che aumentava in modo esponenziale il rischio di malfunzioni, anche di drammatico livello.

Fu, si può dire, col “fiatone”, che venne costruito a Severodvinsk il K-19, prima unità della classe Hotel, varato nel 1959. Già nelle prove di mare del 1960 ebbe guasti e anche quando entrò in servizio, nell’aprile 1961, non poteva ancora rivaleggiare davvero con gli avversari USA. Il K-19, lungo 114 metri e dislocante in immersione 5000 tonnellate, era armato con soli 3 missili a corto raggio (SRBM) R-13 (per la NATO SS-N-4 Sark), da 650 km di gittata, stipati per motivi di spazio dentro la lunga “vela” dell’unità, armi che richiedevano di portarsi pericolosamente vicini alle coste americane per lanci efficaci.

Viceversa, il Polaris A-1 aveva una gittata di 2600 km, che offriva ai sottomarini americani un margine di sicurezza sensibilmente maggiore. La propulsione era affidata a due reattori VM-A da 70 MW ciascuno, ancora sperimentali e di incerto funzionamento.

I dirigenti sovietici pressavano la Marina e in particolare il comandante designato del K-19, capitano Nikolaj Zateev, affinchè, per motivi propagandistici, l’unità iniziasse al più presto missioni operative in funzione di deterrenza. Ma fin dal principio non mancarono noie. Nell’aprile 1960, in cantiere, uno dei reattori prese fuoco, poi in luglio, in una prova di mare, si allagò un compartimento a causa di guarnizioni imperfette.

Nel novembre 1960, quando si trattò per Zateev di firmare il certificato di collaudo, le pecche tecniche e la rumorosità dell’unità gli posero notevoli scrupoli. Huchthausen ha corroborato il suo libro con ampi e preziosi stralci delle memorie personali del comandante, che lamentò: “Sarei stato moralmente responsabile di aver accettato una nave non adatta al combattimento. Decisi di non firmare il certificato di collaudo e sollevai la questione al governo”. Ma per obbligare Zateev a firmare si scomodarono il comandante della Flotta del Nord, ammiraglio Andrej Chabanenko, e il capo supremo della Marina, il celebre ammiraglio Serghei Gorshkov.

Inghiottito il rospo, il comandante del K-19 si rassegnò a firmare e nell’anno seguente iniziò le crociere addestrative nel Mare di Barents. Fra le curiosità del libro, merita di essere ricordato l’incontro fra il K-19 e l’americano Nautilus la mattina del 12 aprile 1961, lo stesso giorno del lancio nello spazio del primo cosmonauta Yuri Gagarin. Ricorda Zateev: “Vidi davanti al nostro dritto di poppa l’albero nero di un periscopio avvicinarsi a tribordo, lasciando dietro di sé una scia bianca, la lente rivolta verso di noi.

Evitammo la collisione di 3 metri”. Solo alcuni giorni dopo, facendo rapporto ai superiori, Zateev seppe da Gorshkov, grazie a rapporti dei servizi segreti, che si trattava del Nautilus. E si prese un rimprovero per non averlo speronato! Il libro di Huchthausen va quindi ben al di là del mero resoconto di quanto accadde il 4 luglio 1961, quando nell’Atlantico del Nord uno dei reattori del K-19 rischiò di esplodere a causa di un’avaria al circuito di raffreddamento del nocciolo radioattivo. In una situazione disperata, vari membri dell’equipaggio lavorarono a turno nella camera del reattore per realizzare con tubi saldati un circuito di raffreddamento di fortuna.

Ma assorbirono comunque una dose di radiazioni letale. Morirono 8 persone entro un mese, e altre 15 nel giro di due anni dall’incidente. Incredibilmente, a parte l’errore di non prevedere fin dal principio la ridondanza dei sistemi di raffreddamento, si scoprì poi che l’avaria era stata causata probabilmente da errori incredibili nelle tecniche di saldatura.

Ben conoscendo voci su altri episodi che circolavano nell’ambiente dei sommergibilisti, Zateev, nell’ottobre 1961 ebbe il coraggio di dichiarare in una conferenza a Mosca insieme agli “alti papaveri” della Marina: “Nessuno dei nostri sottomarini era mai tornato alla base senza guasti o malfunzionamenti. I generatori di vapore scoppiavano. Le pompe ausiliarie o quelle di ricircolo principali del circuito di raffreddamento primario si rompevano, e via dicendo. Nel frattempo, la rumorosità delle navi aveva interamente cancellato tutti i benefici”.

E poche pagine più in là, Huchthausen osserva: “Dal 1958 al 1968, la marina sovietica perse più di sette sottomarini e 200 uomini, con più di 400 membri degli equipaggi gravemente esposto a radiazioni. In quegli anni di precipitosa espansione navale sovietica, le vittime di pesanti danni da radiazione venivano spesso fatte scomparire in reparti ospedalieri isolati, dove i sintomi sono stati fatti passare per disturbi nervosi”.

L’opera, attuale ancora oggi, e, potremmo dire, irrinunciabile per avere uno sguardo a tutto tondo sulla Marina di Mosca dalla metà del XX secolo fino all’inizio del XXI secolo, passa in rassegna numerosi incidenti, di cui ancora si sa poco o nulla in Occidente e arriva a citare anche il disastro del K-141 Kursk, che il 12 agosto 2000 affondò con 118 uomini per un’esplosione nella camera di lancio dei siluri.

L’autore insinua quindi che una nefasta tendenza di lungo periodo sia rimasta anche fino a tempi recentissimi, dovuta a difetti riscontrabili anche nelle nuove classi di unità, intrecciati con negligenze nelle lavorazioni, nella manutenzione o nel controllo dei materiali. Non mancano sospetti di ripetuti duelli subacquei, con tanto di collisioni, fra sottomarini USA e russi, che il capitano Huchthausen, essendo americano, ovviamente nega, non evitando tuttavia di raccontare anche il punto di vista del Cremlino in proposito.

Certamente il libro potrebbe anche essere considerato una sorta di “leggenda nera” sulla forza subacquea russa, che gli americani hanno tutto l’interesse a diffondere per squalificare l’avversario. I fatti sono reali e la chiave d’interpretazione parrebbe confermata dal verificarsi di incidenti mortali anche in anni successivi alla stesura del testo, per esempio la morte di 20 marinai a bordo del K-152 Nerpa l’8 novembre 2008, asfissiati per errore da un gas anticendio, o l’incendio che uccise 14 uomini sull’unità abissale Losharik il 1° luglio 2019.

Non va comunque dimenticato che, se i russi pagarono un alto tributo umano nella rincorsa tecnico-militare con l’America, anche dall’altra parte dell’oceano si ebbero spesso noncuranza e negligenza, specie negli anni più bui della Guerra Fredda. Come nel caso, ad esempio, della campagna di esercitazioni Desert Rock, dal 1951 al 1957, in cui migliaia di soldati dell’US Army furono esposti a radiazioni di esplosioni atomiche reali eseguendo manovre tattiche nei deserti del Nevada appena dopo le deflagrazioni, all’ombra inquietante dei colossali funghi mortali.

 

 

Nato nel 1974 in Brianza, giornalista e saggista di storia aeronautica e militare, è laureato in Scienze Politiche all'Università Statale di Milano e collabora col quotidiano “Libero” e con varie riviste. Per le edizioni Odoya ha scritto nel 2012 “L'aviazione italiana 1940-1945”, primo di vari libri. Sempre per Odoya: “Un secolo di battaglie aeree”, “Storia dei grandi esploratori”, “Le ali di Icaro” e “Dossier Caporetto”. Per Greco e Greco: “Furia celtica”. Nel 2018, ecco per Newton Compton la sua enciclopedica “Storia dei servizi segreti”, su intelligence e spie dall’antichità fino a oggi.

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