L’Ucraina neutrale e le vie della exit strategy dalla guerra
«Potrebbero essere necessari da pochi giorni a una settimana e mezza per trovare un accordo sui punti controversi»: la dichiarazione riportata da diverse agenzie sarebbe la più recente, riconducibile al capo di negoziatori ucraini Mykhailo Podolyak. Era stato dapprima il Financial Times ad annunciare un possibile accordo per il cessate il fuoco in Ucraina, articolato in 15 punti, tra cui figurerebbero alcune condizioni in particolare:
1) cessazione delle ostilità in atto e il ritiro delle truppe russe;
2) neutralità dell’Ucraina e la rinuncia alla adesione alla Nato;
3) limitazioni alle forze armate dell’Ucraina;
4) divieto di installazioni di basi militari straniere;
5) garanzie per le minoranze russofone in Ucraina.
Altre note di agenzia hanno parlato di sostanziali smentite sia da parte russa che ucraina su tale tipo di accordo, mentre altre dichiarazioni fanno sperare che qualcosa di fondo è nell’aria. In ogni caso, sebbene un’intesa di tal genere sarebbe non solo plausibile ma anche auspicabile, nello scenario attuale della guerra in Ucraina ogni prospettiva di de-escalation va considerata con estrema cautela, anche perché la violenza bellica è sempre incombente, i fronti dell’attacco si vanno estendendo e il coinvolgimento delle vittime civili diventa più drammatico. Sta di fatto che i negoziati in corso sembrano orientati soprattutto su uno “statuto sulla neutralità” di Kiev, incentrato sulla definitiva rinuncia alla adesione alla Nato e ad altre alleanze militari.
Quando l’Ucraina ha iniziato a guardare alla Nato
La scelta della neutralità non è nuova per l’Ucraina. L’esperienza di Kiev è ricordata negli studi di diritto internazionale (ex multis, quelli del prof. Natalino Ronzitti) con riferimento alla scelta unilaterale di “non-allineamento” adottata con la legge 15 luglio 2010 relativa alle “basi della politica estera e dell’interno”. La legge disponeva che l’Ucraina doveva considerarsi uno Stato “non allineato”, che non aderisce ai “bocchi” e a qualsiasi alleanza politica militare, inclusa la Nato. Si trattava di una concessione che l’allora governo filorusso aveva voluto riconoscere alla Federazione Russa, che premeva perché l’Ucraina non aderisse alla Nato.
La legge ovviamente fu abrogata dopo l’occupazione russa della Crimea, e nel 2019 la prospettiva di entrare nella Nato è stata sancita dalla stessa Costituzione dell’Ucraina, dove in particolare viene sancita l “attuazione del percorso strategico dello Stato verso la piena adesione dell’Ucraina all’Unione europea e all’Organizzazione del Trattato Nord Atlantico”.
I rapporti di partnership con la Nato
L’Ucraina aveva intrapreso le iniziative di cooperazione euroatlantica sin dal 1997 nell’ambito del percorso di partnership avviato dalla Nato con i Paesi legati all’ex Patto di Varsavia, fra cui figurava anche la Russia prima della crisi georgiana. L’ Ucraina ha poi chiesto l’ingresso alla Nato al vertice di Bucarest nel 2008, che si concluse con una dichiarazione di “favorevole accoglienza” verso “le aspirazioni euro-atlantiche dell’Ucraina e della Georgia”.
Nel giugno 2020, la Nato ha riconosciuto all’Ucraina lo status di Enhanced Opportunities Partner, che prevede in sostanza un passo avanti nella cooperazione “tra alleati e partner che hanno dato contributi significativi alle operazioni e alle missioni guidate dalla Nato”.
In forza di tale accordo l’Ucraina ha potuto svolgere un adeguato programma di training e di adeguamento del modello di difesa che gli sta ora consentendo di affrontare con un certo grado di resilienza l’attacco sferrato dalla Russia. In ogni caso, come è noto, il processo di adesione alla Nato è stato bloccato e la stessa Nato, pure potendo teoricamente intervenire al di fuori dei propri confini in forza della norma consuetudinaria della solidarietà alla self-defence in favore di qualsiasi Stato aggredito, ha deliberato di non disporre un intervento armato diretto, per “evitare una terza guerra mondiale”.
Un nuovo status di neutralità e il ruolo delle “garanzie”
Ritornando al tema dei possibili negoziati sulla neutralità, l’attenzione va puntata sulle indicazioni non del tutto univoche che vengono dalle fonti aperte. L’agenzia russa Interfax ha riportato alcune dichiarazioni del Ministro degli esteri Lavrov ed in particolare del portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, in base alle quali sarebbe “possibile un compromesso” su un modello di neutralità dell’Austria e della Svezia. Sul punto però il capo dei negoziatori Mykhailo Podoliak ha fatto due precisazioni che meritano attenzione:
1) “L’Ucraina è ora in uno stato di guerra diretta con la Russia. Pertanto, il modello può essere solo ucraino”;
2) uno status di neutralità deve comunque includere “un accordo rigido con un certo numero di Stati garanti che si impegnano a prevenire attivamente gli attacchi in Ucraina”.
Interpretando tali osservazioni, l’Ucraina sembrerebbe sostenere in primo luogo che uno “statuto sulla neutralità” di Kiev non dovrà essere unilaterale o il frutto di un accordo bilaterale Russia-Ucraina, peraltro sottoscritto in stato di aggressione. Si parlerebbe quindi di un trattato multilaterale, come nel caso storico della Svizzera, la cui neutralità fu sancita dall’Atto finale del Congresso di Vienna del 1815.
Va qui ricordato che la neutralità dell’Austria viene ricondotta ad una dichiarazione unilaterale, che però era stata preceduta da un Memorandum sottoscritto con la Russia, potenza occupante alla fine della seconda guerra mondiale.
Nel caso di un trattato sulla neutralità dell’Ucraina anche le ipotesi sulla partecipazione di Stati “garanti” sono alquanto incerte: si parla di Stati Uniti, Regno Unito e Turchia, attrice quest’ultima di una mediazione in corso ad alto livello, ma anche del cosiddetto “formato Normandia” – che sotto egida OSCE aveva portato agli Accordi di Minsk del 2014 per il cessate il fuoco in Donbass – vale a dire Germania, Russia, Ucraina e Francia, ma si parla anche di una formazione dei 5 Stati membri del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, Francia, Regno Unito, Stati Uniti, Russia e Cina, estesa a Germania e Turchia. Qualcuna ipotizza anche possibili ruoli di ONU, UE e OSCE.
Il punto critico degli Stati “garanti”
Tuttavia, il punto più critico non è tanto quali siano i “garanti”, quanto il ruolo che essi sarebbero chiamati a svolgere. Il progetto dell’Ucraina, in quanto Stato già aggredito, sembra orientato ad inserirvi clausole sulle “garanzie della neutralità”, dove però il ruolo di garanzia non riguarderebbe il mero riconoscimento dello status di neutralità, ma anche l’assunzione di precisi obblighi di tutela.
Ora, occorrerà verificare come potranno essere declinate queste tutele: potrebbe trattarsi di “misure di fiducia e sicurezza” generali, come quelle previste negli Accordi di Minsk, ma l’Ucraina aggredita potrebbe anche insistere su un dispiegamento di forze di interposizione che vigilino sul ritiro delle forze russe, ovvero di forze integrate sotto egida ONU. In ogni caso sembra alquanto improbabile che, per esempio, Putin accetti la presenza di forze statunitensi o inglesi in territorio ucraino.
Ma il tema delle “garanzie della neutralità” è ancora più problematico se si guarda all’ “istituto” in senso proprio del diritto internazionale, dove il ruolo degli Stati “garanti” comporta l’impegno ad intervenire in caso di attacco armato, senza oneri di reciprocità (Ronzitti).
In sostanza, i Paesi “garanti” sarebbero chiamati a difendere direttamente l’Ucraina se la sua sovranità territoriale è violata, così come avrebbe dovuto fare la Nato se Kiev avesse aderito al Trattato di Washington. Se così fosse, la Nato, tanto odiata da Putin, rientrerebbe di fatto in Ucraina da un’altra “finestra”, quella di alcuni suoi Stati membri.
Le incognite e il ruolo delle Nazioni Unite
Sulle “garanzie” della neutralità si giocherà tutto, perché occorrerà verificare se effettivamente la Russia è disposta ad accettare questo ruolo degli Stati “garanti”. Rimarrebbe però l’ipotesi di negoziare l’inserimento di una norma più generale sugli obblighi di solidarietà alla self-defence sanciti in ogni caso dalla Carta delle Nazioni Unite, oppure quella di prevedere, almeno nelle fasi iniziali del cessate il fuoco, un dispiegamento di forze “internazionali” sotto egida ONU/UE/OSCE, per garantire il ritiro delle forze russe. Sul punto è dunque certamente difficile fare previsioni sulle posizioni di Russia e Ucraina.
Infine, non bisogna sottovalutare le questioni su cui l’Ucraina ancora non si è espressa, che sembrano rappresentare le “linee rosse” cui la Russia non intende rinunciare: il formale riconoscimento delle Repubbliche autonome di Donestk e Luhansk, e della annessione alla Russia della Crimea, non dimenticando che la Russia ha giustificato la sua “operazione militare speciale” proprio proponendosi come loro “garante”.
La realpolitik, ma anche l’insopprimibile dovere morale di evitare ulteriori sacrifici in termini di vite umane, potrebbe orientare la leadership ucraina a considerare accettabili tali condizioni, valutando peraltro che nei fatti si tratta di territori in cui si è evidenziata una prevalenza della popolazione di orientamento filorusso, mentre coloro che si sentivano ucraini negli anni sono già emigrati in Patria.
Intanto, purtroppo, la guerra continua e si fa sempre più minacciosa per la popolazione civile, ma anche per la sicurezza di Paesi europei, che tra l’altro iniziano a subire i primi gravi effetti delle conseguenze economiche e sociali del conflitto, a cominciare dai flussi migratori e dai razionamenti energetici e alimentari.
Occorre pertanto essere realistici e prepararsi anche all’idea che i negoziati potrebbero fallire. È necessario che si maturi perciò una coscienza collettiva per una più incisiva iniziativa politica e diplomatica, che va sollecitata ai singoli Governi e alle istituzioni internazionali affinché mobilitino stavolta un “nucleo forte” di negoziatori.
L’Assemblea Generale delle Nazioni Unite si è già sostituita all’immobilismo del Consiglio di Sicurezza con la Risoluzione del 1° marzo scorso che ha già richiesto il cessate il fuoco. Ma occorre che la stessa Assemblea Generale si riaggiorni in una nuova “seduta di emergenza”, per riproporre stavolta un modello di Risoluzione Uniting for peace (il precedente è quello della Risoluzione adottata per la guerra di Corea, nel 1950) che – eventualmente anche acquisendo un parere della Corte Internazionale di Giustizia – imponga a questo punto un negoziato per la cessazione delle ostilità secondo condizioni imperative, in via equidistante e in rigorosa osservanza del diritto internazionale.
Foto: NATO, Twitter, Stars and Stripes, Anadolu e TASS
Maurizio Delli SantiVedi tutti gli articoli
Membro della International Law Association, dell'Associazione Italiana Giuristi Europei, dell'Associazione Italiana di Sociologia e della Société Internationale de Droit Militaire et Droit de la Guerre - Bruxelles. Docente a contratto presso l'Università Niccolò Cusano, in Diritto Internazionale Penale/Diritto Internazionale dei Conflitti Armati e Controterrorismo, è autore di varie pubblicazioni, tra cui "L'ISIS e la minaccia del nuovo terrorismo. Tra rappresentazioni, questioni giuridiche e nuovi scenari geopolitici", Aracne, 2015. Collabora con diverse testate italiane ed europee.