La NATO rivaluti i membri “meridionali” per far fronte alle sfide del Fianco Sud
Sia ben chiara sin dall’inizio una cosa: io amo la NATO! Ho servito per 53 anni della mia vita gli splendidi ideali ed i grandi valori che sono alla base tanto del rapporto bilaterale fra noi europei e gli Stati Uniti che di quel Patto Atlantico di cui la Organizzazione è il braccio armato e sono ben contento di averlo fatto.
Reputo inoltre che la NATO sia qualche cosa di indispensabile. In primo luogo perché si tratta del nostro unico strumento di sicurezza e difesa collettiva. Per di più quanto uno strumento del genere, bistrattato, sotto finanziato ed incessantemente posto in discussione, possa rivelarsi indispensabile ce lo ha purtroppo reso ben chiaro il recente sviluppo degli avvenimenti d’Ucraina. E se non altro, anche se può sembrare assurdo, almeno per questo dobbiamo ringraziare il Presidente Putin che ci ha riportato alla realtà delle cose strappandoci a folli sogni irenici in cui la guerra non avrebbe mai più dovuto superare i confini dell’Europa!
Nei decenni che sono trascorsi dalla sua fondazione la NATO ci ha insegnato inoltre, con grande cura e pazienza, ad operare insieme nelle contingenze più diverse trasformando le nostre Forze Armate in moduli fra loro compatibili e pronti, in caso di necessità, ad integrarsi in un tutto unico capace di rendere al 100% sin dall’inizio delle operazioni. Si tratta di un lavoro insostituibile che essa continua a svolgere con efficacia un giorno dopo l’altro.
Detto questo però devo sottolineare come proprio questo affetto, unito al rispetto che ho della organizzazione, nonché alla conoscenza dei suoi pregi e dei suoi limiti, mi consente il diritto di criticarla.
Un diritto che è nel contempo anche un dovere, visto che di critiche da fare ce ne sono purtroppo parecchie e considerato anche come la recente pericolosissima situazione di crisi alle frontiere della Alleanza abbia finito con l’evidenziare impietosamente carenze che prima potevano anche passare inosservate.
Fra esse la prima e forse la più importante riguarda non l’Organizzazione ma addirittura quel Trattato del Nord Atlantico in cui essa si inquadra. Secondo una rassicurante credenza, oltretutto pressoché universalmente diffusa, l’Articolo 5 dello strumento prevederebbe infatti un coinvolgimento bellico automatico di tutti gli Stati firmatari nel caso in cui uno di essi fosse soggetto ad una aggressione militare.
Nella realtà invece l’articolo sancisce soltanto un obbligo di assistenza di ogni soggetto alla “parte o parti attaccate, intraprendendo immediatamente, individualmente o di concerto con le altre parti, l’azione che giudicherà necessaria, ivi compreso l’uso della forza armata”. Il ricorso a mezzi bellici è quindi soltanto una fra le varie possibilità di reazione. La decisione di ricorrere a tale ipotesi, considerata estrema, dipenderà così di volta in volta da una scelta discrezionale ed individuale di ciascuno degli Stati membri.
È quindi possibile che in situazioni controverse, o che toccano in maniera diversa parti differenti della Alleanza, alcuni fra i firmatari del Patto rifiutino di associarsi ad una eventuale azione militare che altri invece potrebbero considerare come ineludibile, limitandosi a reagire solo in differenti settori, ad esempio diplomaticamente ed economicamente.
Si tratta in fondo di un caso che alla luce delle fratture che iniziano ad aprirsi ora nello schieramento occidentale – vedasi ad esempio la posizione particolare della Ungheria – appare ben più che un’ipotesi di scuola nella crisi russo/ucraina attualmente in corso. La prima riforma da effettuare consisterebbe quindi in un rapido adeguamento del Trattato del Nord Atlantico che rendesse automatico il coinvolgimento militare di ogni Stato membro in caso di attacco, come del resto era già sancito nell’articolo 4 del Trattato fondante della UEO (la Unione Europea Occidentale) da noi imprudentemente sciolta nel 2002.
Vi è poi da segnalare come la NATO abbia sostanzialmente dimenticato nel corso degli ultimi venticinque anni la principale raccomandazione del “Rapporto dei tre saggi ” del 1957. Il documento sottolineava, dopo la crisi interna originata dalla azione anglo-francese dell’anno precedente su Suez e dalla successiva reazione statunitense, come ogni azione bellica avrebbe dovuto essere preceduta da adeguate consultazioni politiche condotte in ambito Atlantico fra tutti gli Stati membri.
L’ultima volta che ciò è avvenuto è stato però durante la crisi in Kossovo. In tale occasione buona parte dei membri europei dell’Organizzazione imposero come il “targeting”, cioè la scelta degli obiettivi da battere, fosse da considerare quale atto strategico e non tattico. Esso doveva quindi venir delegato alla responsabilità squisitamente politica degli ambasciatori del North Atlantic Council, sottraendolo alla competenza essenzialmente militare del SACEUR (il Supremo Comandante delle Forze Alleate in Europa) colpevole di aver permesso un po’ troppo disinvoltamente che fossero bombardati i ponti sul Danubio, la sede della televisione serba e soprattutto l’Ambasciata cinese a Belgrado.
Dopo la fine delle guerre jugoslave però, la nuova dottrina neocon americana, l’attentato alle Torri Gemelle, il progressivo affermarsi del mantra “America First ” e soprattutto l’incomparabile peso specifico americano in seno alla Organizzazione hanno progressivamente portato la NATO a dimenticare completamente “I tre saggi ” ed a cambiare radicalmente la propria natura.
Per colmo di misura si tratta poi di un cambiamento intervenuto soltanto nella pratica e senza che lo abbiano preceduto i necessari adattamenti diplomatici, politici e dottrinali. Il risultato è che a volte l’azione non è in linea, o addirittura contrasta, con quanto previsto a suo tempo dal Trattato.
In sostanza da Organizzazione “a rete” quale era, con tutti gli Stati membri operanti sul medesimo piano, la NATO è divenuta progressivamente una Organizzazione stellare, con gli Stati Uniti al centro e tutti gli altri membri ad esso collegati da rapporti bilaterali. Si è trattato di una nuova struttura che non soltanto ha posto i membri non USA in competizione fra loro per ottenere un rapporto forte o “più forte del tuo”, con il “Grande Fratello” ma ha altresì diviso il nostro continente in una “vecchia Europa”, più legata ai vecchi principi, ed una “nuova Europa”, che valuta la propria sicurezza soltanto in termini di vicinanza agli americani.
La cosa avrebbe avuto una importanza relativa se gli Stati Uniti avessero vissuto in maniera collaborativa e non competitiva il loro rapporto con l’Unione Europea. Essi hanno invece fatto tutto quello che era in loro potere per impedire la nascita di uno strumento di difesa continentale, che in alcuni casi avrebbe magari potuto anche agire in maniera autonoma ma che avrebbe senza dubbio rinforzato in maniera considerevole il “pilastro europeo della NATO”, dando vita ad una dialettica con il “pilastro americano” estremamente salutare per l’Alleanza.
Il rapporto fra NATO ed UE è così stato caricato dagli americani di accordi parziali, codici e codicilli, ciascuno destinato, alla maniera del Gattopardo “a cambiar tutto perché nulla debba cambiare (missioni tipo Petersberg, Berlin, Berlin Plus….e via di questo passo).
Per maggiore sicurezza poi Washington ha curato anche che negli ultimi venticinque anni i Segretari Generali della Organizzazione provenissero soltanto da Paesi su cui gli USA potevano avere una presa sicura, vale a dire il Regno Unito da un lato e dall’altro piccoli paesi del Nord Europa, di dimensioni tali da non poter esercitare un vero e proprio peso politico. Così a Lord Robertson di Port Ellen (UK) è succeduto Rasmussen (in precedenza premier di Danimarca) il cui posto è stato poi preso da Stoltenberg, un tempo primo ministro norvegese, tuttora in carica.
Questo modo di procedere, vi è da notarlo, è avvenuto anche in spregio alla regola non scritta che prevedeva una alternanza nella carica fra paesi del Sud e paesi del Nord dell’Europa. Inoltre esso ha contribuito notevolmente a concentrare l’attenzione della Alleanza sulla sua frontiera di Nord Est, dimenticando completamente due aree, la Balcanica e la Mediorientale/Nord Africana che meriterebbero invece una ben più puntuale attenzione.
Se il Sud disponesse del coraggio politico necessario, questo sarebbe quindi un momento adatto per pretendere che nel momento della sostituzione dell’attuale Segretario Generale, prevista per l’anno prossimo, la carica fosse assegnata ad un “meridionale”.
Da segnalare altresì come, a differenza di quanto avvenuto altre volte, noi disporremmo in questa occasione di un potenziale candidato, l’ex presidente del Consiglio Paolo Gentiloni, dotato tanto della esperienza politica quanto di tutti gli altri requisiti richiesti.
Vi è da segnalare infine come negli anni trascorsi dalla caduta del muro di Berlino la NATO abbia più che raddoppiato il numero degli Stati membri – e questo forse rende comprensibile la progressiva crescita della preoccupazione russa a riguardo – ma abbia nel contempo perso buona parte della sua capacità bellica.
Devastante si è rivelata innanzitutto la rinuncia collettiva alla leva senza che si sia pensato a sostituirla con un sistema di “Guardia Nazionale” mobilitabile in caso di necessità.
Ora noi disponiamo più o meno tutti, tranne gli Stati Uniti e la Turchia, di strumenti professionali a volte ottimi ma di dimensioni notevolmente ridotte. In alcuni casi, come ad esempio quello del Regno Unito, ciò si traduce nell’avere soltanto circa 10 mila unità immediatamente schierabili. Inoltre, bruciati i professionisti nella prima fase del conflitto, saremmo privi di ogni riserva addestrata da inviare in linea.
Da segnalare inoltre come un impiego focalizzato per più di trenta anni sulla gestione delle crisi abbia indotto nei nostri soldati una mentalità diretta “all’uso del minimo livello di forza indispensabile” , come è giusto che avvenga nelle operazioni di peacekeeping , e non invece “all’impiego dal primo istante del massimo livello di forza disponibile” come è invece richiesto dall’ottica bellica.
Per tornare ad un reale livello di efficienza occorrerebbe quindi riaddestrare adeguatamente tutto il personale. Nulla da dire per quanto riguarda la qualità dei materiali disponibili, che sono il prodotto di una tecnologia al massimo livello. Appare invece da lamentare il fatto che ragioni di economia abbiano portato a ridurre oltre misura i numeri dei sistemi d’arma e le scorte.
È opportuno ricordare a riguardo come durante le operazioni NATO contro la Libia il Regno Unito e la Francia abbiano esaurito in breve tempo le loro riserve di munizionamento intelligente per aerei e siano dovuti ricorrere all’aiuto degli Stati Uniti per insistere nell’azione. Anche qui dunque ci sarebbe parecchio da fare per riportarsi ad un livello di capacità adeguato. A monte di tutto questo però l’Alleanza dovrebbe rivelarsi capace di affrontare seriamente i tempi nuovi dandosi una struttura, e prima di essa una dottrina, che le consentano di far fronte alle esigenze di sopravvivenza collettiva dei suoi membri nel mondo che verrà e che sarà ben diverso di quello più o meno bene globalizzato in cui ci eravamo abituati a vivere.
Nei suoi trenta anni e passa di quel “sonno della ragione” che come diceva Francisco Goya sempre “genera mostri”, una NATO impigrita non ha infatti mantenuto il passo neanche in questo campo.
Il suo “Concetto Strategico” più recente è ormai vecchio di dodici anni e per di più completamente inadeguato ad una epoca in cui la guerra, divenuta sostanzialmente “ibrida”, ha perso persino il suo nome, come dimostra ogni giorno il Presidente Putin che obbliga tutti i russi a parlare soltanto di una “operazione speciale” e non di un conflitto, contro l’Ucraina.
Di recente, a dire il vero, vi era stato il tentativo di iniziare una procedura di ringiovanimento dottrinale della Alleanza, tentativo che si era tradotto in un documento redatto da un comitato di dieci esperti internazionali in cui si indicava quale fosse la NATO auspicabile negli anni ’30 di questo secolo. Il risultato finale del lavoro, e non c’è da stupirsene, appariva però redatto più in funzione delle esigenze e delle idee statunitensi, con la Cina che veniva posta al centro sia delle preoccupazioni che della situazione e delle necessità della Organizzazione.
Occorre dunque ripartire da capo anche in questo settore e cercare di farlo con grande rapidità, considerato come tutte le lacune e vulnerabilità del nostro unico strumento di difesa possano un giorno tradursi in “finestre di opportunità ” per qualsiasi malintenzionato.
La Russia? In questo momento si ma purtroppo non è affatto detto che in un domani non lontano il numero delle potenze aggressive che si presentano alle nostre porte in atteggiamento ostile non possa crescere ulteriormente.
Foto NATO
Giuseppe CucchiVedi tutti gli articoli
Entrato alla Scuola Militare di Napoli nel 1955, il Generale Cucchi ha avuto una lunghissima carriera conclusa nel 2008 come Direttore Generale dell'Intelligence Nazionale. Dopo il definitivo pensionamento ha lavorato due anni per le Nazioni Unite come esperto nell'ambito della crisi del Mali/Sahel. Attualmente insegna management alla Università LUISS di Roma ed alla Business School della Università di Bologna.