Le ipocrisie europee nella guerra in Ucraina
È finalmente arrivato il 9 maggio e il tanto atteso discorso di Putin. Chi si fosse aspettato che, con un colpo di bacchetta magica, l’incubo sarebbe finito e si fosse potuto girare pagina, non per tornare allo stato quo ante ma almeno per iniziare la lunga opera di ricostruzione culturale, economica e sociale che attende l’Europa sarà rimasto deluso. In fondo era prevedibile.
Solo se ci si rende conto che la conflittualità che ci attende sarà verosimilmente lunga, si potrà anche tentare di liberarci delle ipocrisie che hanno finora caratterizzato il nostro modo di relazionarci con questo complesso conflitto.
In primis, noi non possiamo considerarci semplici spettatori di un film di guerra. Spettatori che a proiezione terminata se ne torneranno a casa, parlando di altro. Noi siamo, di fatto, parte belligerante. Indipendentemente da quanto qualche sofista cultore del diritto internazionale possa sostenere in base a teoriche interpretazioni legali, di fatto siamo parte attiva del conflitto e, ciò che è più rilevante, siamo considerati a tutti gli effetti “belligeranti” dal nostro “nemico”, la Russia.
Ci siamo dichiarati “belligeranti” con l’applicazione delle sanzioni economiche e con l’invio di armi all’Ucraina, ma soprattutto con il nostro volitivo ed esplicito dichiarare tale nostro incondizionato supporto a Kiev (normalmente nelle guerre per procura classiche si negava anche di fronte all’evidenza il supporto fornito ai belligeranti, ma in questo caso sembra più importante dichiarare che si inviano armi che non la valenza del supporto militare effettivamente fornito).
Insomma, non possiamo essere considerati “alleati fedeli” da parte di USA e Ucraina (entrambi in guerra, sia pure con differenti modalità e diversa accettazione dei rischi) e nel contempo stupirci che la Russia ci tratti da “nemici”.
Potrebbe, pertanto, essere opportuno prendere atto sotto tutti i punti di vista della perdita della nostra verginità “neutralistica” e trarne tutte le necessarie conseguenze, anche in termini di possibili ritorsioni russe nei nostri confronti. Ritorsioni di natura economica, certamente più probabili, ma che poterebbero anche assumere la forma di attacchi cyber, di artificiose migrazioni di massa incontrollate da regioni del Nord Africa sotto influenza russa.
O, al limite, anche di azioni militari contro obiettivi nazionali o alleati sul nostro territorio (in particolare le installazioni che sono connesse con il supporto che noi o gli USA forniamo alle forze armate ucraine). Ipotesi quest’ultima che per il momento potrebbe essere ritenuta poco probabile, ma che è comunque opportuno tenere nella giusta considerazione.
Poco coerenti paiono anche le discussioni relative alla consegna di armi all’Ucraina e alla tipologia (difensiva /offensiva, letale/non letale) degli armamenti forniti. Forniamo tali armi perché, come già detto, ci siamo dichiarati “alleati” di una delle due parti in conflitto.
Scelta forse discutibile, ma certamente non assunta a “nostra insaputa” né a insaputa del Parlamento. Scelta, pertanto, di cui può essere messa in discussione l’opportunità, ma non certo la legittimità.
Tutti i sistemi d’arma servono a combattere. Che poi il combattimento sia offensivo o difensivo non dipende certo dai sistemi d’arma utilizzati. Anche ritenendo che la decisione di inviare armi sia stata assunta più per compiacere gli USA che per aiutare l’Ucraina (ipotesi non del tutto peregrina), non si può certo pensare che con gli armamenti che riceve Zelensky potrà lanciare un attacco su Mosca. Pertanto, può essere il caso di non soffermarsi sulla gittata degli obici o sul calibro del munizionamento che forniamo a Kiev, ma casomai soffermarci sul “perché” sia stato deciso di fornirli.
Occorre anche mettere in chiaro che non si tratta di una scelta di natura “etica”, bensì di una decisione squisitamente politica.
Infatti, se si trattasse di una scelta di natura esclusivamente “etica”, come il ritornello “c’è un aggressore e c’è un aggredito” vorrebbe far pensare, avremmo dovuto mettere da parte qualsiasi considerazione utilitaristica di natura economica o politica. Coerentemente con tale imperativo etico, i nostri soldati starebbero già marciando nelle steppe ucraine spalla a spalla con i militari di Zelensky.
Così non è e non avrebbe potuto essere, perchè la priorità (giustamente, direi) sembrerebbe essere stata quella di cercare un difficile punto di equilibrio tra il massimizzare i benefici del nostro allineamento con le politiche di USA ed UE e, nel contempo, minimizzare i danni economici e politici conseguenti al deterioramento dei nostri rapporti con Mosca (il futuro non tarderà a farci capire se si sia individuato il miglior punto di equilibrio).
È anche chiaro che la vera differenza sul campo di battaglia non sarà fatta dagli armamenti che forse un po’ tardivamente e in maniera disorganica alcuni paesi europei stanno fornendo a Kiev Gli USA da anni forniscono istruttori e armamenti all’Ucraina.
È almeno dal 2004 che, a livello bilaterale, gli USA supportano la riorganizzazione delle forze armate ucraine. Anche la NATO sin dal 2009 ha lanciato il Programma Nazionale Annuale (ANP) per l’Ucraina con l’obiettivo, tra gli altri, di sostenerne la riforma globale nel settore della sicurezza e della difesa e per rafforzarne la capacità militari.
Dopo il Vertice della NATO di Varsavia del 2016, il sostegno pratico dell’Alleanza all’Ucraina si è concretato in un pacchetto di assistenza globale (PAC) sicuramente consistente. Nel 2021, in risposta alle esercitazioni russe in prossimità del confine ucraino, la NATO ha ulteriormente rafforzato il proprio sostegno allo sviluppo delle capacità militari ucraine.
Insomma, anche senza l’intervento di “tutti” gli Alleati, gli USA probabilmente avrebbero potuto supportare anche da soli in maniera consistente le Forze Armate ucraine in termini di intelligence, armamenti e consiglieri militari.
Ma qui entra in ballo anche l’esigenza sia della NATO sia della UE di mostrare la propria coesione in relazione ad una grave crisi politico-militare nel cuore del continente europeo. Crisi che lambisce i confini geografici di entrambe le organizzazioni sovranazionali. In una situazione del genere, qualunque fosse stata la decisione (interventismo o neutralismo o via di mezzo), i paesi UE e NATO hanno ritenuto di avere il dovere di mostrarsi coesi, pena la totale perdita di credibilità delle due organizzazioni.
L’obiettivo principale del “fronte occidentale” non è che gli alleati contribuiscano generosamente, ciascuno inviando “qualcosa”, come se si fosse a una raccolta di beneficienza e fornendo armamenti tra loro diversi che, al limite, potrebbero comportare per l’utente finale problemi di interoperabilità dei sistemi, di complicazione dell’addestramento degli operatori e di appesantimento della catena di sostegno logistico.
L’obiettivo prioritario del “fronte occidentale” è di natura squisitamente politica, ovvero dimostrare alla Russia (e forse soprattutto alla Cina, con un occhio all’Indo-Pacifico) la ritrovata “coesione” dell’Alleanza Atlantica, dopo la debacle afghana e obbligare tutti gli alleati a schierarsi apertamente.
È chiaro che in quest’ottica si intenda anche impedire che singoli paesi membri (per salvaguardare i propri legittimi interessi economici e/o energetici) continuino a mantenere relazioni commerciali e un dialogo aperto con Mosca. Obiettivo che gli USA stanno decisamente conseguendo sia in ambito NATO, con la sola eccezione della Turchia, sia in ambito UE, nonostante alcuni distinguo e difficoltà economiche non di poco conto da parte di alcuni paesi.
Inoltre, lasciano anche perplesse le domande poste a rappresentanti di Ucraina e Russia circa le concessioni che Kiev potrebbe offrire e che Mosca potrebbe accogliere.
È noto che in nessun negoziato nel corso di una crisi internazionale le parti esplicitano pubblicamente e in anticipo le proprie “linee rosse” e i punti che per loro sono negoziabili, figuriamoci poi se tali indicazioni possano essere comunicate ai media.
È anche ovvio che il negoziato di pace in questo caso dovrebbe essere condotto non tra due sole parti, ma almeno tra tre: Russia, USA e Ucraina. In tale contesto, l’Ucraina sarebbe l’attore con minor autonomia decisionale e del resto ove USA e Russia trovassero un punto d’incontro tra di loro, Kiev difficilmente potrebbe continuare a combattere senza il supporto americano.
Per il momento, non pare che alcuno dei tre principali attori intenda negoziare. Sia la Russia sia l’Ucraina sembrano convinte (a torto o a ragione) di aver la possibilità di migliorare la propria posizione sul campo di battaglia e che, pertanto, il tempo giochi a loro favore.
La Russia sembra convinta di riuscire ad acquisire il controllo di importanti aree sia nell’est e nel sud dell’Ucraina. Aree di elevato valore economico e strategico la cui acquisizione consentirebbero di realizzare una fascia di contenimento che vada dalla Transnistria al Donbass intorno all’Ucraina continentale.
L’Ucraina confida nel supporto sempre più consistente di USA e paesi europei e verosimilmente ritiene, probabilmente a ragione, che se le cose sul campo di battaglia si dovessero mettere male USA e NATO interverrebbero militarmente nel conflitto almeno fornendo supporto aereo alle sue operazioni terresti.
Gli USA, da parte loro, hanno ripetutamente dichiarato di voler ridimensionare le aspirazioni di super potenza della Russia putiniana e di volerla ridurre in condizioni di non poter più porre pericoli per altre nazioni.
Ciò comporta un “regime change” e ovviamente tempi molto lunghi. Poco probabile un cambio di strategia prima del cambio d’inquilino alla Casa Bianca. Difficile dire quanto ottimistiche possano essere le speranze delle tre parti, ma sicuramente non fanno sperare in un conflitto di breve durata.
Tra l’altro, si tende spesso a considerare la guerra in Ucraina come un conflitto dettato da motivazioni puramente “ideologiche” (democrazia, autoritarismo, europeismo, nazionalismo) o territoriali. Motivazioni che ci sono e sono evidenti. Però si tralasciano del tutto altre motivazioni di natura geopolitica che caratterizzano in maniera permanente i rapporti tra Stati Uniti, Russia ed Europa e i rispettivi interessi conflittuali. Motivazioni, queste ultime, che la Storia dimostra possano trascendere dalle ideologie politiche del momento.
L’Europa rischia di diventare il teatro di un conflitto duraturo che obbligherà gli europei a interrogarsi seriamente in merito alla loro politica di sicurezza, la struttura e costo dei propri strumenti militari, la politica migratoria (in relazione a prevedibili massicce pressioni migratorie sia da est sia da sud) e al futuro stesso di qualsiasi organizzazione sovranazionale europea incluse UE e NATO.
In conclusione, questo è un conflitto che è destinato a modificare seriamente l’Europa che abbiamo conosciuto negli ultimi trent’anni e gli Europei non possono continuare a seguirne l’evoluzione in maniera passiva, lasciando che tutte le decisioni siano assunte altrove.
Foto: TASS, Ministero della Difesa Russo e Ministero della Difesa Ucraino
Antonio Li GobbiVedi tutti gli articoli
Nato nel '54 a Milano da una famiglia di tradizioni militari, entra nel '69 alla "Nunziatella" a Napoli. Ufficiale del genio guastatori ha partecipato a missioni ONU in Siria e Israele e NATO in Bosnia, Kosovo e Afghanistan, in veste di sottocapo di Stato Maggiore Operativo di ISAF a Kabul. E' stato Capo Reparto Operazioni del Comando Operativo di Vertice Interforze (COI) e, in ambito NATO, Capo J3 (operazioni interforze) del Centro Operativo di SHAPE e Direttore delle Operazioni presso lo Stato Maggiore Internazionale della NATO a Bruxelles. Ha frequentato il Royal Military College of Science britannico e si è laureato con lode in Scienze Internazionali e Diplomatiche a Trieste.