La UE “a tutto gas” verso disastro economico e irrilevanza strategica

 

 

L’Unione Europea accelera nella corsa verso il disastro economico e l’irrilevanza politico-strategica rinunciando a ogni velleità da “grande potenza” che pure avrebbe potuto esercitare tentando di imbastire una gestione ponderata e autonoma dagli Stati Uniti della crisi determinata dal conflitto in Ucraina, delle sanzioni (specie quelle energetiche) alla Russia e del via libera a nuove candidature all’ingresso nell’Unione.

Tra le opzioni ragionevoli la Ue avrebbe potuto subordinare ogni decisione alla conclusione del conflitto, incentivando così un negoziato tra Kiev Mosca, sempre più urgente per scongiurare gravissimi danni all’intera Europa.

Utilizzando l’arma energetica la Ue, che da anni compra gas e petrolio da Mosca e finanzia Kiev per il transito lungo i gasdotti che la attraversano, avrebbe potuto e forse dovuto negli 8 anni di guerra nel Donbass imporsi come mediatore per “sollecitare”, forte del suo peso finanziario, i due rivali a trovare una soluzione diplomatica. Magari garantita da una forza d’interposizione europea in cui porre sul tavolo la normalizzazione dei rapporti con Mosca e l’accesso dell’Ucraina all’Unione.

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Nulla di tutto questo è stato fatto negli ultimi otto anni ma neppure oggi pare che la Ue intenda sfruttare queste potenzialità. Nessuna occasione è stata colta e, rispetto a Washington, la Ue sembra composta oggi da tante “Porto Rico” più che da nazioni che, tutte insieme, hanno espresso finora la maggiore potenza economica mondiale in termini di PIL.

Un primato che rischia di venire irrimediabilmente perduto, complici una politica energetica dominata da deliri “green” (che tramontano nella riapertura di centrali a carbone e nel ritorno delle stufe a legna nelle case) e la rinuncia a firmare contratti a lungo termine per il gas: elementi che già ben prima della guerra avevano portato a un brusco rialzo dei prezzi.

Mentre i vertici politici europei impostano razionamenti e austerity che determineranno una “decrescita” ben poco felice rischiando di far uscire dai mercati il “made in Europe” ingigantendo la disoccupazione e condannandoci all’impoverimento, centri studi e associazioni industriali ribadiscono in tutto il Vecchio Continente che non sarà possibile rimpiazzare in breve tempo le forniture di gas russo e che le acquisizioni da altri fornitori non saranno sufficienti in termini quantitativi e saranno molto più costose in termini finanziari.

Inoltre il nuovo corso energetico basato sullo sganciamento dalla dipendenza dalla Russia, ci renderà nuovamente dipendenti da aree geopolitiche instabili quali Medio Oriente e Africa stringendo accordi con nazioni che non ambiscono certo al podio nel ranking mondiale quanto a democrazia, diritti umani e trasparenza. Valori che del resto sembrano avere sempre meno rilievo per la Ue come dimostra l’attribuzione all’Ucraina dello status di candidato.

 

Il ranking ucraino

Certo, pare ci vorranno molti anni prima della reale adesione di Kiev ma il messaggio che lancia la Commissione non è certo edificante quanto a tutela dei principi su cui dovrebbe fondarsi l’Unione e rispetto delle candidature balcaniche.

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Secondo il Global Democracy Index 2020 redatto da The Economist, l’Ucraina era al 79° posto (l’Italia al 29°) e quest’anno resta sul podio dei paesi europei meno democratici superata solo da Russia, Bielorussia e Bosnia-Herzegovina.

La classifica sulla qualità della democrazia (Ranking of Countries by Quality of Democracy) stilata nel 2020 dall’Università di Wurzburg vedeva l’Ucraina del presidente Zelenski 92a dietro alla Birmania e davanti allo Sri Lanka (l’Italia era 22a).

Si tratta di classifiche realizzate da istituti di ricerca che non potrebbero certo venire inseriti nelle “liste di proscrizione” dei putiniani che tanto sono in voga in Italia.

Ma soprattutto si tratta di classifiche stilate prima dell’inizio dell’attacco russo e quindi prima che il governo ucraino ponesse fuori legge 11 partiti (incluso il secondo per consensi elettorali), reprimesse più duramente la stampa non allineata e punisse i reati di opinione, incluso quello di contraddire la narrazione ufficiale sulla guerra contro l’aggressione russa, che di fatto impedisce a chiunque di parlare del conflitto anche come di una guerra civile in atto da 8 anni e che vede parte della popolazione e dei combattenti ucraini schierati al fianco dei russi.

Non si può del resto ignorare il tema del nazionalismo ucraino in salsa nazista, che molti media occidentali e anche italiani hanno più volte evidenziato negli anni scorsi sottolineando le derive autoritarie e illiberali di Kiev, la glorificazione di Stepan Bandera (cui l’Ucraina di oggi dedica piazze, strade e monumenti), delle SS ucraine e del regime filo-nazista della seconda guerra mondiale.

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Analisi Difesa affrontò già nel 2014 la questione del fenomeno culturale e politico del nazismo nell’Ucraina post-Maidan, alimentato in funzione anti-russa e di come l’Europa lo stesse gestendo in modo superficiale con un editoriale che negli ultimi mesi in molti hanno riletto e  persino riproposto.

Pur collocando il fenomeno nella sua dimensione storica di contrapposizione a Stalin e all’Unione Sovietica, è difficile non notare che le stesse nazioni europee pronte a gridare all’allarme-fascismo a ogni affermazione elettorale di movimenti sovranisti pienamente democratici, oggi mitizzano i combattenti dei diversi reggimenti che si richiamano alle SS in modo inequivocabile, come dimostrano anche svastiche e frasi emblematiche tratte da Mein Kampf che decorano i corpi tatuati di diversi prigionieri catturati dai russi a Mariupol.

Anche il peso della corruzione e della criminalità organizzata in Ucraina rappresenta o dovrebbe rappresentare una valida limitazione per l’accesso alla candidatura all’Unione. Per primi, già l’11 marzo abbiamo posto interrogativi ed espresso dubbi circa il rischio che parte delle forniture belliche occidentali a Kiev finissero per alimentare traffici illeciti di armi verso paesi lontani e organizzazioni criminali e terroristiche.

Dubbi e perplessità poi presi in esame dal Washington Post in maggio,  poi dal New York Times in giugno e soprattutto dal direttore dell’Interpol ma che non sembrano aver fatto riflettere i leader politici sulle due sponde dell’Atlantico.

Eppure quanto sia strutturata e ramificata la malavita organizzata ucraina in traffici su vasta scala anche di armi è noto fin dalla dissoluzione dell’URSS, quando miliardi di dollari in armi sovietiche presenti in Ucraina vennero venduti sul mercato nero, così come è ben noto il livello di corruzione della politica e della pubblica amministrazione ucraina.

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Lo sancisce anche il Corruption Perceptions Index che nel 2021 attribuiva all’Ucraina il 122° posto su 180 nazioni prese in esame in una classifica in cui l’Italia era posizionata in un poco dignitoso 42° posto:

Lo Human Freedom Index pubblicato quest’anno congiuntamente dal Cato Institute, il Fraser Institute e il Friedrich Naumann Foundation for Freedom vede l’Ucraina al 98° posto, beh 72 posizioni più indietro rispetto all’Italia (26a).

Se ancora non bastasse per chiedersi che senso abbia per la Ue aprire le porte alla candidatura a un paese ancora così lontano dai fondamentali di democrazia, trasparenza, legalità e diritti umani, aggiungiamo le rilevazioni che appaiono nella classifica delle libertà economiche stilata dall’Economic Freedom Heritage Foundation.

Qui il risultato è ancora più imbarazzante: l’Ucraina occupa il 130° posto, dietro a paesi tra i più poveri del mondo come Niger, Mauritania e Burkina Faso mentre l’Italia è 57a.

Va un po’ meglio all’Ucraina (e un po’ peggio all’Italia) nella classifica della Libertà di Stampa redatta da Reporter Sans Frontiéres che vede quest’anno l’Ucraina 106a, dietro a Gabon e Ciad ma davanti al Burundi, mentre l’Italia relegata ad un umiliante (per una democrazia che si vorrebbe compiuta) ma indicativo dei tempi che viviamo 58° posto: dietro a Buthan, Sierra Leone e Guyana ma appena davanti a Niger e Ghana.

 

Reazioni balcaniche 

Di fronte a tutto questo è impossibile non comprendere le sarcastiche reazioni dei leader dei Balcani Occidentali, da tempo in attesa di vedere accettata la propria candidatura. A Belgrado il presidente Aleksander Vucic ha evitato di alzare i toni ma c’è chi evidenzia che la mancata adesione serba alle sanzioni contro la Russia potrebbero aver influito sul mancato riconoscimento dello status di candidato.

Più incisivo il ministro dell’interno serbo Aleksandar Vulin. “Se per la Serbia la condizione di avanzare più rapidamente verso la Ue è quella di stare in guerra con qualcuno, allora no grazie, non ne vale la pena” ha commentato con sarcasmo.

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“L’Ucraina ha ottenuto lo status di candidato pur senza rispettare gli standard che con tanta attenzione vengono applicati ai Paesi balcanici. Ha evitato alcuni decenni di pressioni, ricatti e burocrazia, nè ha dovuto penare nella lotta alla corruzione e nel rispetto dei criteri in fatto di giustizia e di riforme economiche, senza parlare della collaborazione con i tribunali che accertano i crimini di guerra”, ha detto il ministro Vulin.

“Spero che la Moldavia non abbia dovuto promettere di guerreggiare con qualcuno e che lo status di candidato lo abbiano concesso sulla parola d’onore”, ha osservato il ministro, secondo il quale se il criterio decisivo per lo status di Paese candidato o per l’avvio del negoziato è di essere in guerra, “allora la Serbia avrebbe potuto cominciare il negoziato di adesione già nel 1999, quando si trovava sotto i bombardamenti della NATO”, ha aggiunto.

“E invece sembra che tali regole non si applichino a quelli che sono stati bombardati dalla NATO, per avanzare rapidamente verso l’adesione all’Unione europea bisogna essere in guerra con la Russia”, ha concluso Vulin. Si può replicare al sarcasmo di Vulin evidenziando che la Serbia è tradizionalmente amica della Russia ma certo questo non si può affermare per altre nazioni balcaniche.

“Quello che sta accadendo ora è un problema serio e un duro colpo per la credibilità dell’Ue. Stiamo perdendo tempo prezioso che non abbiamo”, ha detto il premier macedone Dimitar Kovacevski esprimendo “il malcontento del governo e del popolo macedoni” bloccati dal veto della Bulgaria.

“Oggi sono in lutto per l’Unione europea, mi dispiace molto per loro. Abbiamo offerto l’aiuto di cui potrebbero aver bisogno”, ha dichiarato ironicamente il premier albanese, Edi Rama rinnovando l’intenzione di continuare su questa strada per entrare nell’Ue “magari il prossimo secolo”.

 

Conseguenze

La decisione di aprire alle candidature di Ucraina e Moldova, oltre a quella in prospettiva della Georgia, ha quindi obiettivi ben precisi che nulla hanno a che fare con l’ampliamento equilibrato, armonico e coerente della “casa comune europea”.

L’Ucraina viene premiata perché combatte la Russia e del resto può apparire comprensibile che in un’Europa i cui leader usano da quattro mesi toni bellicosi invocando “la sconfitta militare russa”, lasciando però che a combattere siano solo ed esclusivamente gli ucraini, qualcuno consideri quasi un dovere aprire le porte della Ue a Kiev.

Quanto meno per esprimere in modo concreto la riconoscenza dell’Europa verso una nazione che, a detta di molti premier e ministri delle nazioni europee (anche italiani) e di commissari Ue, combatte anche per noi frenando un’offensiva russa che non si fermerebbe e travolgerebbe tutto il Vecchio Continente, come si temeva nella prima Guerra Fredda, per nutrire gli appetiti imperiali di Putin.

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Se la percezione della minaccia da Mosca è davvero questa, di fronte a così alte motivazioni sarebbe molto più efficace sul piano militare e più credibile sul piano politico e morale se l’Unione inviasse truppe europee a combattere a Severdonetsk, Kharkiv, Mikolayv.

In trincea, “spalla a spalla” con le reclute ucraine, sostenendo con i fatti e i morti in battaglia l’aspirazione ribadita anche ieri dal presidente Zelensky di “riconquistare le città che sono cadute”.

La Ue non sembra però voler essere solidale fino a questo punto con Kiev, preferisce fare la guerra con la pelle dei “candidati” ucraini pur ringraziandoli perché combattono anche per noi.  Benchè in Europa nessuno sia pronto a “morire per Kiev”, le posizioni assunte rischiano di farci perdere comunque una guerra che non abbiamo neppure combattuto.

Con le nuove candidature l’Unione accelera infatti nella rotta di collisione con la Russia a cui non è sfuggito che alle ex sovietiche Moldova e Georgia verrà imposto di accettare la politica Ue di contrasto a Mosca basata sulle sanzioni. Iniziativa che, al pari dell’allargamento a Svezia e Finlandia della NATO, aumenterà a Mosca la percezione della minaccia posta dall’Occidente.

Non importa se troviamo o meno giustificate e comprensibili la valutazioni di Mosca, occorre invece chiedersi se una pesante, nuova Cortina di Ferro e una frattura con la Russia che potrebbe durare decenni coincidano con gli interessi delle nazioni e dei popoli europei.

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Di certo rientra perfettamente nella strategia messa a punto da Washington e Londra che ha determinato negli ultimi anni il confronto con la Russia in Ucraina: una linea che ha contraddistinto le amministrazioni statunitensi espresse dal Partito Democratico, prima con Barack Obama e ora con Joe Biden.

L’obiettivo dichiarato anglo-americano (il 25 giugno il premier Boris Johnson ha affermato che “non è il momento di mollare, l’Ucraina può vincere e vincerà la guerra”) è stato indicato nel prolungamento del conflitto per indebolire e logorare la Russia. O addirittura sconfiggerla, come ha sostenuto Ursula von der Leyen, che però non è pronta a schierare nelle trincee del Donbass un solo battlegroup europeo per conseguire questo nobile risultato.

Difficile dire oggi se si tratti di un obiettivo realmente perseguibile e con quali tempistiche ma di certo nel frattempo è molto probabile che l’Ucraina verrà totalmente devastata e l’Europa impoverita economicamente e annullata sul piano politico se non addirittura profondamente destabilizzata a causa delle gravi conseguenze sociali che ne deriveranno in tutto il continente.

L’aver aderito su tutta la linea alle posizioni anglo-americane, oltre a compromettere ogni ipotesi di vedere finalmente la Ue come protagonista geopolitico, rischia di rendere ancora più drammatica la crisi energetica poiché Mosca potrebbe decidere di rispondere alle iniziative della Ue (tra cui va inserita anche la provocatoria decisione della Lituania  di bloccare parte del traffico di merci su gomma e rotaia diretto all’énclave russa di Kaliningrad) con lo stop immediato alle forniture di gas.

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Forniture che dopo oltre quattro mesi di guerra continuano paradossalmente a giungere in Europa e persino in Ucraina lungo i gasdotti che l’attraversano, guarda caso tra le poche infrastrutture ucraine finora risparmiate dal conflitto.

Accogliere l’Ucraina nella Ue benché non soddisfi nessuno dei parametri richiesti, sposterà ancora di più l’asse politico dell’Unione su posizioni ostili alla Russia sostenute apertamente, anche per ragioni storiche, da Polonia e Repubbliche Baltiche con il crescente supporto di altre nazioni mitteleuropee e balcaniche incoraggiate dagli anglo-americani.

Un contesto che accentuerà le tensioni, non solo militari, con Mosca quando l’interesse dell’Europa è invece riposto nel ridare ordine e stabilità alle sue frontiere orientali e penalizzerà ulteriormente le nazioni europee meridionali che da anni chiedono una maggiore attenzione alle sfide strategiche poste sul “Fianco Sud” caratterizzato dagli scenari in atto in Nord Africa e Sahel.

In tema di salvaguardia degli interessi europei è impossibile non rilevare che tutte le decisioni assunte dalla Commissione guidata da Ursula von der Leyen dall’inizio dell’offensiva russa in Ucraina hanno determinato conseguenze gravissime per la stabilità delle nazioni europee senza peraltro generare per ora riscontri evidenti circa una diminuita determinazione russa a conseguire gli obiettivi militari annunciati all’inizio della “operazione speciale”.

@GianandreaGaian

Foto: EU Coimmission, Visegrad Insight, Ministero della Difesa Ucraino, RvVoenkor e EPA

 

 

Gianandrea GaianiVedi tutti gli articoli

Giornalista bolognese, laureato in Storia Contemporanea, dal 1988 si occupa di analisi storico-strategiche, studio dei conflitti e reportage dai teatri di guerra. Dal 1991 al 2014 ha seguito sul campo i conflitti nei Balcani, Somalia, Iraq, Afghanistan, Sahara Occidentale, Mozambico e Sahel. Dal febbraio 2000 dirige Analisi Difesa. Ha collaborato o collabora con quotidiani e settimanali, università e istituti di formazione militari ed è opinionista per reti TV e radiofoniche. Ha scritto diversi libri tra cui "Iraq Afghanistan, guerre di pace italiane", “Immigrazione, la grande farsa umanitaria” e "L'ultima guerra contro l’Europa". Presso il Ministero dell’Interno ha ricoperto dal 2018 l’incarico di Consigliere per le politiche di sicurezza di due ministri e un sottosegretario.

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