Le prime (amare) indicazioni dalla guerra in Ucraina
Il ritorno della guerra, quella “vera”, convenzionale, brutale e ad alta intensità sta determinando reazioni e riflessioni in Europa oltre a decisioni politiche e finanziarie di rilievo come l’adesione ormai diffusa presso molte nazioni (Italia inclusa) all’obiettivo di portare le spese militari al 2 per cento del PIL, addirittura al 3 per cento nel caso della Polonia che ha varato un massiccio riarmo, o come il fondo speciale per Difesa tedesco da 100 miliardi di euro.
“L’Europa si sente vulnerabile non solo per il fatto che i missili russi potrebbero colpirla ma anche perché, facendo un inventario delle capacità disponibili in termini di dotazioni i singoli Paesi si sono resi conto di non essere in grado di affrontare questo scenario”, ha affermato Emanuele Serafini, direttore per l’Europa Occidentale e Nato di Lockheed Martin nel corso del convegno “Industria della Difesa, scenari e prospettive nella crisi post Ucraina”, organizzato al palazzo dell’Esercito, a Roma l’8 giugno.
Una definizione che ben fotografa la drammatica realtà emersa dalle prime indicazioni fornite dal conflitto in Ucraina.
Difficile prevedere quando e con quali esiti potrà avere termine la guerra che prese il via nel 2014 nella regione orientale del Donbass ma ha subito una rapida escalation dal 24 febbraio scorso con l’intervento militare russo e il coinvolgimento indiretto degli stati membri della NATO quali fornitori di massicci aiuti militari e programmi di addestramento alle truppe di Kiev.
Dopo quasi 4 mesi di combattimenti ad alta intensità è forse presto per parlare di “lezioni” ma è certo possibile tracciare alcune indicazioni che questo conflitto fornisce all’Occidente e alle nazioni europee, determinate non solo dagli sviluppi bellici sul campo di battaglia ma anche dalla natura di questa guerra.
Tra guerra convenzionale….
Benché i russi la considerino “un’operazione speciale”, la campagna in atto può essere considerata la prima guerra convenzionale combattuta su vasta scala in Europa dalle ultime offensive alleate contro la Germania nazista nei primi mesi del 1945.
La penetrazione iniziale delle forze russe lungo tutto il confine orientale e settentrionale ucraino ha costituito in fronte di circa 1.500 chilometri, ridottosi poi a circa la metà dopo il ritiro russo dalle aree di Kiev, Cernihiv e Sumy e il concentramento delle forze nei settori del Donbass (sud-est), di Kherson/Mikolayv e Melitopol/Zaporizhzhia (sud).
Le forze in campo vedono schierati fino a 180 mila militari russi affiancati da circa 50 mila combattenti delle repubbliche popolari di Donetsk e Luhansk contrapposti ad almeno 250 mila ucraini tra forze regolari, Guardia nazionale e milizie popolari arruolate per difendere i centri urbani.
Un numero di forze in campo senza precedenti in Europa dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, anche per il numero di mezzi coinvolti nelle operazioni che comprendono migliaia di mezzi corazzati tra tank e cingolati da combattimento, altrettanti blindati ruotati, centinaia di pezzi d’artiglieria campale tra obici e lanciarazzi multipli oltre a mortai, missili balistici, da crociera, anticarro e antiaerei e centinaia di aerei, elicotteri e droni.
Nulla di paragonabile neppure alle lunghe guerre balcaniche che insanguinarono la ex Jugoslavia negli anni ‘90 e che furono per lo più conflitti a bassa intensità con alcune sporadiche battaglie più intense, se si escludono i 78 giorni di campagna aerea scatenata dalla NATO contro la Serbia nel 1999.
Nulla a che vedere soprattutto con le guerre che hanno coinvolto negli ultimi 20 anni le nazioni occidentali in Iraq e Afghanistan dove gli scontri sono stati per lo più asimmetrici (a parte i 40 giorni tra marzo e aprile 2003 in cui venne invaso l’Iraq dagli anglo-americani) caratterizzati da una logorante campagna anti-insurrezionale.
Se si escludono le due battaglie di Fallujah nel 2004 e alcune grandi operazioni a Ramadi e nel cosiddetto “Triangolo Sunnita”, che hanno impegnato forze statunitensi a livello divisionale, la quasi totalità degli scontri in Iraq e Afghanistan sono stati spesso combattuti a livello di compagnia (spesso di plotone) contro poche decine o al massimo poche centinaia di insorti. Scontri che si risolvevano solitamente in breve tempo con l’intervento del supporto aereo ravvicinato e il disimpegno dei miliziani.
In Ucraina invece manovrano e combattono intere brigate con azioni ad ampio respiro a livello di divisione se non di corpo d’armata come nel caso dell’offensiva russa in Donbass.
Non è un caso che delle migliaia di volontari stranieri accorsi a combattere sotto le bandiere ucraine (circa 7mila secondo dati russi) poco meno di 2mila sarebbero stati uccisi (inclusi 59 francesi, 378 polacchi, 120 georgiani, 162 canadesi e 214 statunitensi) e altri 1779 avrebbero abbandonato il fronte rientrando in patria dopo i primi scontri lamentando l’estrema intensità delle operazioni belliche e del fuoco di artiglieria.
Testimonianze apparse soprattutto sulla stampa britannica che ha intervistato veterani dei conflitti in Iraq e Afghanistan: non certo dei “novellini” ma combattenti addestrati ed esperti di conflitti asimmetrici, certo molto meno intensi della campagna nel Donbass.
….e guerra civile
Al tempo stesso questa guerra va considerata anche un conflitto civile poiché parte della popolazione e dei combattenti ucraini sono schierati dalla parte di Mosca: una ragione che spiega perché i russi nella prima fase del conflitto abbiamo puntato su un’azione militare ad ampio raggio ma che aveva l’obiettivo di ridurre al minimo le perdite, barattando il ritiro delle forze Mosca dai dintorni di Kiev con il ritiro delle truppe ucraine dal Donbass abitate da una popolazione che nell’ottica russa deve essere liberata.
Il fallimento dei colloqui russo-ucraini con la mediazione turca ha lasciato a Mosca la sola opzione militare per assumere il pieno controllo del Donbass e delle aree tra la Crimea e il fiume Dnepr.
Un aspetto rilevante e delicato quello della guerra civile, che non può essere ignorato se si vuole cercare possibili via d’uscita e soprattutto comprendere la natura del conflitto, incluse le violenze su prigionieri e civili e le rappresaglie tipiche di ogni guerra di questo tipo.
Non è un caso che l’uso del termine “guerra civile” come di altre terminologie che non rispettino rigidamente il diktat della propaganda di Kiev della guerra di aggressione russa sono puniti severamente dalle leggi di guerra ucraine che hanno portato allo scioglimento di ben 11 partiti, incluso il secondo per voti ottenuti nelle ultime elezioni. sulla base di queste norme tese a contrastare una narrazione “disfattista”.
Al tempo stesso a Mosca è bandita la parola “guerra” poiché si tratta di una “operazione speciale” tesa a liberare le popolazioni russe dell’Ucraina.
Comprensibile forse che l’Ucraina e la Russia affrontino la guerra con una rigida censura a idee e opinioni ma è altrettanto lecito attendersi che in Europa non ci si allinei alla “militanza”, mantenendo una capacità politica e militare di analisi e comprensione degli eventi necessaria a darci qualche possibilità di fermare un conflitto il cui prolungarsi è già, e sarà ancora di più domani, devastante per la sicurezza anche economica dell’Europa.
Più truppe
Alla luce degli sviluppi bellici il primo elemento che appare inevitabilmente da prendere in considerazione in Europa è l’entità numerica delle forze armate e in particolare degli eserciti oggi presenti nel Vecchio Continente.
Forze in molti casi ad alto contenuto tecnologico ma numericamente sempre più ridotte negli ultimi due decenni, forse nell’illusione che le sfide militari sarebbero state rappresentate da guerre asimmetriche in cui confrontarsi con guerriglieri e insorti da contrastare con piccole unità ad elevata mobilità.
I quattro maggiori eserciti del Vecchio Continente (britannici, italiani, francesi e tedeschi) hanno ormai forze terrestri al di sotto degli 80mila effettivi, peraltro non tutti ovviamente impiegabili in prima linea, mentre gli altri stati europei della NATO hanno eserciti ancora più contenuti, spesso di entità quasi “simbolica”.
Se immaginiamo un conflitto convenzionale in cui dover avvicendare ogni due settimane i battaglioni in prima linea e ogni mese le brigate per assicurare loro un periodo di riposo nelle retrovie è facile intuire che i più grandi eserciti europei non sarebbero in grado di impiegare in battaglia più di 10/15 mila militari contemporaneamente: una divisione su due o tre brigate.
“Le guerre si combattono ormai nelle cinque dimensioni operative, ma si decidono sempre nella dimensione terrestre” ha detto il 14 giugno il capo di Stato maggiore dell’Esercito, generale Pietro Serino, in audizione alla commissione Difesa del Senato sul disegno di legge n.2597 che rivede il modello delle Forze Armate.
“Il conflitto in Ucraina conferma ancora una volta l’importanza dell’Esercito per la difesa, per il presidio e per il controllo del territorio. Il Modello Di Paola barattava uomini per qualità: la realtà di oggi ci dice ad alta voce che abbiamo urgente bisogno di entrambi.
La programmata riduzione dell’Esercito a 89.000 posizioni organiche propria del Modello Di Paola – oggi l’Esercito consta di 100.000 posizioni tabellari e 93.000 uomini e donne in servizio – compromette irreparabilmente l’uno e l’altro, non potendo la Forza Armata sottrarsi, nel quadro legislativo vigente, a ulteriori dolorosissime chiusure di Enti/Reparti operativi e logistici, dolorosissime per l’Esercito e per le comunità locali che dovranno assorbirle” ha ribadito il generale. Inoltre oggi i volontari in servizio permanente dell’Esercito hanno un’età media di 39,8 anni e il 57% ne ha più di 40.
Recentemente il generale Mark Carleton-Smith, capo di stato maggiore dell’esercito britannico, in un’intervista rilasciata in maggio a “Soldier Magazine” ha ammesso che la preparazione è stata incentrata a fronteggiare una “guerra ibrida” mentre Vladimir Putin ha sorpreso tutti scatenando un conflitto “vecchio stile”. Per il generale la guerra in Ucraina “ha messo in evidenza il fatto che la massa e le dimensioni contano” confessando di non concordare con la decisione del governo di ridurre ulteriormente il British Army da 82 mila ad appena 73 mila militari.
Il 18 giugno, il successore di Carleton-Smith, il generale Patrick Sanders, ha affermato che il Regno Unito deve essere preparato a combattere in Europa ancora una volta, dopo le due guerre mondiali e lo schieramento in Germania dell’Armata Britannica del Reno, durante la Guerra Fredda.
“Siamo la generazione che deve essere pronta al fatto che l’esercito combatta di nuovo in Europa. E’ un imperativo bruciante creare un esercito capace di combattere al fianco dei nostri alleati e battere la Russia in battaglia” ha detto. “Sono il primo capo dello Stato maggiore dal 1941 che prende il comando dell’Esercito all’ombra di una guerra in Europa che coinvolge le potenze continentali”, ha aggiunto sottolineando che l’invasione russa dell’Ucraina sottolinea la chiave dei compiti dell’esercito, “proteggere il Regno Unito ed essere pronti a combattere e vincere la guerra”.
Al di là dei proclami e dei richiami storici di Sanders, eserciti con organici così limitati e privi di ampie riserve richiamabili e di strutture e armamenti in grado di ospitarli ed equipaggiarli possono risultare idonei a condurre campagne asimmetriche e a bassa intensità ma appaiono del tutto inadeguati rispetto alle esigenze che emergono dal conflitto in Ucraina che impone una seria riflessione anche sulla necessità di disporre di una consistente Riserva, da mantenere addestrata con frequenti richiami e da mobilitare per rimpolpare i ranghi dei reparti, ripianare le perdite o creare nuove unità in caso di necessità.
La complessità tecnologica degli strumenti militari, armi ed equipaggiamenti, rende difficile poter credere di riuscire a trasformare in poche settimane un civile in un combattente per di più specializzato come carristi o artiglieri. come stanno facendo gli ucraini.
L’esperienza dell’Esercito Italiano con i volontari in ferma breve (un anno) insegna che in 12 mesi si può addestrare un soldato ma solo per compiti limitati e non di “guerra”.
Questo significa che in caso di conflitto aperto occorrerà poter disporre di eserciti più numerosi di quelli attuali e con una riserva addestrata richiamabile e integrabile nei reparti esistenti o in nuove unità per operazioni militari dopo qualche settimana di amalgama e preparazione.
Più mezzi
Anche il numero di mezzi in dotazione alle forze armate delle nazioni europee appare del tutto inadeguato a un conflitto convenzionale. Soprattutto se mettiamo a confr8nmto i dati (da prendere con le molle) forniti dai belligeranti sulle perdite inflitte al nemico.
Al 9 giugno i russi vantavano la distruzione 336 sistemi missilistici antiaerei, 3.471 carri armati e veicoli corazzati da combattimento, 493 sistemi di lancio multiplo di razzi, 1.834 artiglierie da campo e mortai, 3.512 veicoli militari di vario tipo.
Il ministero della Difesa ucraino ha ammesso il 17 giugno perdite pari “a circa il 50 percento Si tratta di circa 1.300 veicoli da combattimento di fanteria, 400 carri armati e 700 sistemi di artiglieria”, ha detto il viceministro della Difesa Vladimir Karpenko.
Da almeno due mesi però le richieste ucraine alla NATO includono ogni tipo di armi ed equipaggiamenti inclusi molti veicoli ruotati, corazzati e artiglierie che inducono a ritenere le perdite sofferte da Kiev ben più altre del 50 per cento.
Il 18 giugno lo stato maggiore di Kiev ha annunciato che dal 24 febbraio sono stati distrutti 1.486 tank, 3.577 mezzi corazzati da combattimento, 745 pezzi di artiglieria, 235 lanciarazzi campali multipli, 98 sistemi di difesa aerea e 2.523 veicoli.
Pur considerandoli esagerati nel nome della propaganda bellica, perdite elevate sono state certamente riscontrate su ambo i lati del fronte imponendo serie riflessioni all’Europa.
Le flotte di carri armati schierate da ognuno dei quattro principali eserciti europei citati sono comprese tra i 200 e i 330 tank (peraltro non tutti operativi) contro i 1.300/5.000 in servizio durante la Guerra Fredda. Numeri di poco superiori sono riscontrabili per i veicoli da combattimento o per le artiglierie campali.
Andando a rileggere il Military Balance 1989-90, si rileva che l’Italia schierava 1.750 tank tra Leopard 1, M-60 e M-47 con 800 pezzi d’artiglieria da 105 e 155 mm: la Germania quasi 5.000 carri Leopard 1, Leopard 2 e M-48A5 con e 1.300 pezzi d’artiglieria da 105, 155 e 203 mm; la Francia disponeva di 1.500 carri AMX-30 e AMX-13 e 850 obici da 105 e 155 mm mentre la Gran Bretagna poteva mettere in campo 1320 tank Challenger e Chieftain e 550 artiglierie tra 105 e 203 mm di calibro.
Da un lato sarebbe impossibile oggi ristrutturare le forze armate europee sui modelli del periodo della Guerra Fredda, quando esisteva quasi ovunque la leva militare e le forze armate erano organizzate per gestire ampie mobilitazioni.
Dall’altro è evidente che con le attuali forze la capacità operativa dei maggiori eserciti europei sarebbe limitata a poche settimane in un conflitto simile a quello attuale con unità corazzate e meccanizzate che, con i ritmi di perdite e usura riscontrati, cesserebbero probabilmente di esistere in non più di due settimane.
I 150 carri armati Ariete e i circa 200 cingolati da combattimento Dardo dell’Esercito Italiano avrebbero ben poche speranze di sopravvivenza nel tipo di battaglie che si combattono nel Donbass.
Anche gli altri eserciti dei maggiori paesi europei sul piano numerico risulterebbero comunque così limitati da non poter sostenere perdite e usura per molto tempo pur tenendo conto che i mezzi corazzati occidentali sono più pesanti e meglio protetti degli omologhi impiegati dai russi, che hanno messo in campo in Ucraina soprattutto carri e veicoli da combattimento, datati ma in grandi quantità.
Il conflitto ucraino ha inoltre costituito un contesto in cui il massiccio impiego di moderne armi anticarro come Javelin, NLAW e munizioni circuitanti (droni-suicidi) ha evidenziato l’estrema vulnerabilità dei mezzi corazzati nonostante le corazzature reattive adottate.
La capacità delle armi anticarro occidentali più moderne di colpire con cariche in tandem tese a neutralizzare prima le corazzature reattive e poi a perforare lo scafo del carro e a colpire dall’alto la più vulnerabile torretta, ha determinato una parte non irrilevante delle perdite sofferte dai russi che peraltro hanno messo in campo soprattutto i carri più vecchi, T-72 e T-80 pur se nelle versioni aggiornate.
Anche l’impiego di “gabbie metalliche” poste a protezione delle torrette per far esplodere le armi anticarro prima dell’impatto sullo scafo non ha avuto un grande successo e alcuni carristi russi hanno raccontato di averle dovute smontare per consentire i movimenti all’esterno dei mezzi e l’impiego della mitragliatrice pesante in torretta.
In un campo di battaglia dominato da armi anticarro così efficaci occorreranno forze corazzate non solo numericamente consistenti ma composte da mezzi altamente protetti da corazzature passive e reattive di ultima generazione, idonee a fronteggiare armi con testata esplosiva in tandem ma anche da sistemi automatizzati in grado di neutralizzare molteplici tipologie di proiettili in arrivo come l’israeliano Rafael Trophy utilizzato dai corazzati israeliani e statunitensi o il russo Afganit di cui sono equipaggiati il nuovo carro T-14 Armata e il veicolo da combattimento T-15.
Le stesse valutazioni possono essere estese anche all’artiglieria, presente ormai negli eserciti europei in numeri troppo limitati di obici trainati, semoventi e lanciarazzi campali multipli, per sostenere un conflitto convenzionale anche solo per qualche mese, tenuto anche conto che le munizioni disponibili potrebbero esaurirsi in realtà in pochi giorni con i consumi rilevati nel conflitto ucraino e le scorte disponibili press le forze armate europee.
A conferma di questa situazione è sufficiente rilevare il dibattito accesosi in diversi stati europei in cui i comandi militari hanno opposto resistenze alla volontà politica di cedere armi e munizioni agli ucraini attingendoli dai reparti operativi.
Più velivoli
Sul piano aeronautico la situazione è ugualmente preoccupante anche se molti aspetti restano da chiarire sul ruolo e i limiti del potere aereo espresso in questo conflitto in particolare dai russi.
Kiev ha affermato il 19 giugno di avere abbattuto 216 aerei, 180 elicotteri e 594 droni mentre il bilancio di Mosca delle perdite inflitte agli ucraini registrava la distruzione al 9 giugno di 193 aerei, 130 elicotteri e ben 1.163 velivoli senza pilota.
Pur considerando esagerate le perdite fornite dai bollettini russi e ucraini non è improbabile che in quattro mesi di guerra oltre un centinaio di aerei ed elicotteri russi e ucraini siano stati abbattuti (diversi altri danneggiati) insieme a un numero ancor maggiore di UAV/droni. Quanti paesi europei potrebbero sostenere un simile tasso di perdite prima di esaurire l’intera disponibilità di velivoli o di pezzi di ricambio o semplicemente di missili e munizioni per le armi imbarcate?
Teniamo conto che negli ultimi anni l’adozione di velivoli molto costosi e sofisticati come gli F-35 a permesso di rimpiazzare aerei più vecchi e “spendibili” in un rapporto di circa 1 a 3.
Dopo i primi due mesi di guerra l’Aeronautica Ucraina ha potuto contare sulle scorte di pezzi di ricambio (e forse armi) per i caccia Mig 29 fornite da Slovacchia e Polonia che a fine maggio risultavano però quasi esaurite.
L’impiego di aerei da combattimento in ambienti a forte presenza di sistemi di difesa aerea attivi a tutte le quote (inclusi S-300 e S-400 a lungo raggio) e di elicotteri da attacco impiegati in volo a bassa quota su campi di battaglia a forte presenza di sistemi antiaerei missilistici e d’artiglieria hanno comportato perdite considerevoli e un alto tasso di usura.
Discorso forse ancor più valido per i droni, rivelatisi utilissimi nei diversi compiti loro assegnati (sorveglianza, intelligence, ricognizione, lancio di armi e come munizioni circuitanti) ma anche molto vulnerabili ai sistemi di difesa aerea e anti-drone. Velivoli di cui è quindi necessario disporre in quantità rilevanti per sostenere un conflitto convenzionale prolungato.
Perdite sostenibili?
Le perdite in questo conflitto sono elevate con migliaia di uomini uccisi, feriti e dispersi, anche tra gli ufficiali impegnati a rifosso della prima linea fino al livello di comandanti di reggimento e di brigata. Perdite alte anche per i mezzi e i velivoli, distrutti, danneggiati o usurati dall’impiego e dalle condizioni ambientali come il fango che ha a lungo ostacolato le fasi iniziali dell’offensiva russa.
Meglio prendere con le molle i dati diffusi da Mosca e Kiev che riferiscono le perdite del nemico, con ogni evidenza gonfiate dalla propaganda, ma in ogni caso il numero di militari uccisi e feriti è di molte migliaia così come centinaia di carri armati, mezzi corazzati, blindati, veicoli e pezzi d’artiglieria sono andati perduti nei primi tre mesi di guerra.
I russi non forniscono da tre mesi dati sulle proprie perdite né su quelle inflitte agli ucraini. Kiev riferisce che al 18 giugno sono stati uccisi 33.600 militari russi.
I servizi d’intelligence britannici hanno reso noto a fine maggio perdite russe superiori in tre mesi a quelle registrate in 9 anni di guerra in Afghanistan, guerra asimmetrica in cui le perdite dell’Armata Rossa vennero stimate in circa 14 mila militari. Probabile che la stima di Londra sia esagerata pur combaciando con quella del Pentagono che valutava in circa 15mila i caduti russi, la metà di quanto sostenuto da Kiev.
Numeri che in ogni caso possono apparire esagerati tenuto conto che in un conflitto di tale intensità a ogni caduto corrispondono in media 4 o 5 feriti: difficile per Mosca poter continuare a combattere dopo aver perso 150/180 mila uomini (30 mila morti e 120/150 mila feriti) o anche solo 75/90 mila (15 morti e 60/75 mila feriti) anche per le drammatiche ricadute sanitarie, sociali e politiche che sarebbero inevitabilmente legate a tali perdite.
Se i caduti russi fossero la metà di quanto annunciato dagli anglo-americani, cioè “solo” 8.000 con circa 32/40 mila feriti occorre chiedersi se vi siano nazioni europee in grado di reggere sul piano politico e sociale perdite simili in appena tre mesi di guerra.
Il presidente Volodymyr Zelenski ha ammesso recentemente che nella battaglia in atto nel Donbass le sue truppe registrano in media 100 caduti e 500 feriti al giorno: una media quindi di 3mila caduti e 15 mila feriti al mese. Se il vertice politico ucraino ammette simili perdite con l’obiettivo di incentivare l’afflusso di aiuti militari da USA ed Europa, è lecito ritenere che le perdite reali sofferte dagli ucraini siano ancora più elevate.
Il bilancio delle perdite è salito addirittura a mille al giorno tra morti e feriti secondo David Arakhamia, uno tra i principali consiglieri di Zelensky, ma potrebbe trattarsi di numeri gonfiati per indurre gli alleati della NATO a fornire maggiori aiuti.
del resto la stessa Defence intelligence Agency statunitense stima che le perdite umane tra russi e ucraini possano essere circa equivalenti ma ammette di non ricevere informazioni dettagliate da Kiev circa il numero di morti e feriti in battaglia.
Pur facendo la tara a tutte e le cifre diffuse circa le perdite reali di russi e ucraini si tratta in ogni caso di molte migliaia di caduti e un numero ben maggiore di feriti. Europei a parte, siamo certi che anche la super potenza statunitense sia in grado di sopportare perdite analoghe in così pochi giorni?
Non dimentichiamoci che la NATO ha lasciato l’Afghanistan dopo aver subito circa 3.600 caduti in 20 anni (incluse le vittime di incidenti e suicidi) di cui 2.450 circa statunitensi. Secondo fonti militari russe nella battaglia di Severodonetsk alcuni reparti ucraini avrebbero sofferto perdite pari al 90 per cento degli effettivi.
Da quanto risulta da appelli e video postati sui social media. battaglioni e brigate ucraine lamentano di essere stati lasciati in prima linea senza armi d’appoggio, senza ordini e con poche munizioni. Un segnale di come un conflitto convenzionale possa mettere a dura prova, usurandole, anche le catene logistiche e di comando e controllo come confermerebbero anche le elevate perdite tra gli ufficiali.
Più munizioni
A metà maggio il rapporto della Commissione Difesa del Parlamento francese fece emerge chiaramente che le riserve di armi e munizioni sono del tutto inadeguate a far fronte a un conflitto come quello in atto in Ucraina.
Il senatore Christian Cambon, presidente della commissione ha valutato che il numero di munizioni impiegate dall’esercito russo in un solo giorno di guerra in Ucraina equivale alle munizioni impiegate in un anno dall’Armèe de Terre.
Le scorte presenti consentirebbero all’esercito francese di sostenere per tre o quattro giorni un conflitto come quello in Ucraina e ricostituire gli arsenali di munizioni, razzi e missili richiederebbe non meno di tre o quattro anni e una spesa di 6/7 miliardi di euro.
Meglio ricordare inoltre che le forze armate francesi sono forse quelle meglio equipaggiate e rifornite d’Europa, quindi è lecito ipotizzare che per le altre “potenze” europee la situazione sia ancora più grave come hanno evidenziato ad esempio negli ultimi anni rapporti parlamentari relativi alle forze armate tedesche.
Il ministro della Difesa tedesco, Christine Lambrecht (SPD), ha stimato che aumentare le riserve di munizioni per renderle adeguate a un contesto bellico convenzionale costerà circa 20 miliardi di euro richiedendo qualche anno.
Fonti giornalistiche “embedded” con le forze russe e filo-russe riferiscono che nel Donbass vengono esplosi dagli obici e dai lanciarazzi campali multipli russi circa 8mila proiettili d’artiglieria al giorno.
Il vice capo dell’intelligence militare ucraino, Vadym Skibitsky, in un’intervista pubblicata dal quotidiano britannico “The Guardian”. Ha riferito di grosse carenze di artiglieria e munizioni lamentando una inferiorità rispetto ai russi di 15 a 1 ma affermando che l’artiglieria ucraina impiega 5/6mila proiettili al giorno.
Proporzione probabilmente eccessive e numero di proiettili forse esagerato ma in ogni caso i report dal fronte anche a questo proposito impongono di chiedersi quanti eserciti europei dispongano di simili riserve di munizioni per far fronte a un confronto del genere.
Occorre però anche riflettere sulla necessità di addestrare le truppe europee a reggere lo stress di un fuoco infernale, prolungato e preciso sulle loro postazioni. Un tipo di addestramento che richiederebbe peraltro poligoni e aree addestrative di dimensioni estese ormai rari da trovare in Europa.
Carenze già note
La guerra in Ucraina ha quindi messo in luce carenze nelle forze armate europee che non sono però certo nuove in termini di organici e dotazioni.
Già nel 2011 le operazioni aree contro le forze libiche fedeli a Muammar Gheddafi videro dopo poche settimane il ritiro della componente statunitense che lasciò agli alleati europei il compito di completare l’opera. La NATO impiegò ben sette mesi (da marzo a ottobre) per avere ragione delle ben poco consistenti forze libiche ma soprattutto già nella tarda primavera gli europei dovettero chiedere aiuto agli USA per fornire bombe d’aereo perché i magazzini si erano rapidamente svuotati pur se in un conflitto a intensità certo bassa dove ogni aeronautica metteva in campo non più di 6/12 aerei da combattimento.
Una situazione imbarazzante che determinò reazioni sbalordite al Pentagono dove in molti si chiesero quale tipo di guerra si preparassero a combattere gli europei.
Nel novembre 2020 l’allora capo di stato maggiore della Difesa italiano, generale Enzo Vecciarelli, evidenziò in un’audizione alle commissioni e Difesa parlamentari l’inadeguatezza dei mezzi e dei sistemi a disposizione e dell’organizzazione già nel caso di scenari militari a bassa intensità mentre con l’aumento di intensità si concretizzerebbero immediatamente limiti strutturali incluso il fatto che i nostri sistemi d’arma potrebbero sostenere la richiesta solo per pochi giorni citando inoltre l’assenza di dispositivi adeguati per rispondere alla minaccia di missili balistici e ipersonici, le prime impiegate su vasta scala nel conflitto ucraino che ha visto il battesimo del fuoco delle seconde.
I primi due tipi impiegati su vasta scala nel conflitto ucraino che ha visto il battesimo del fuoco dei missili ipersonici russi Kinzhal.
All’epoca la relazione del generale Vecciarelli evidenziò come le nostre Forze Armate (e con esse molte di quelle europee) non sarebbero state in grado di affrontare con efficacia un conflitto come quello tra azeri e armeni nel Nagorno-Karabakh nel secondo semestre del 2020: guerra caratterizzata da un elevato impiego di missili balistici, munizioni circuitanti e droni armati.
Da mesi in Europa si dibatte intorno alle carenze emerse nell’apparato militare russo ma va tenuto conto che un conflitto convenzionale nessuno in Europa lo aveva combattuto negli ultimi 77 anni e nessuna forza armata europea e forse occidentale sembrerebbe oggi in grado di poterlo sostenere sul piano militare ma anche su quello politico e sociale.
La guerra in Ucraina ci impone quindi di correre ai ripari e soprattutto di farlo in fretta.
Foto: Ministero Difesa Russo, Ministero Difesa Ucraino, Repubblica Popolare Donetsk, Telegram e Fausto Biloslavo
Gianandrea GaianiVedi tutti gli articoli
Giornalista bolognese, laureato in Storia Contemporanea, dal 1988 si occupa di analisi storico-strategiche, studio dei conflitti e reportage dai teatri di guerra. Dal 1991 al 2014 ha seguito sul campo i conflitti nei Balcani, Somalia, Iraq, Afghanistan, Sahara Occidentale, Mozambico e Sahel. Dal febbraio 2000 dirige Analisi Difesa. Ha collaborato o collabora con quotidiani e settimanali, università e istituti di formazione militari ed è opinionista per reti TV e radiofoniche. Ha scritto diversi libri tra cui "Iraq Afghanistan, guerre di pace italiane", “Immigrazione, la grande farsa umanitaria” e "L'ultima guerra contro l’Europa". Presso il Ministero dell’Interno ha ricoperto dal 2018 l’incarico di Consigliere per le politiche di sicurezza di due ministri e un sottosegretario.