I retroscena del fallimento del colpo di mano russo a Kiev e dei negoziati in Turchia
Riprendiamo, ampliata, la parte iniziale del reportage di Gian Micalessin uscito su Analisi Difesa il 24 giugno perché riteniamo che i temi e le testimonianze riportate, quasi ignorate dai grandi media, abbiano un ampio rilievo nell’illustrare le vicende che hanno portato agli sviluppi attuali del conflitto in Ucraina.
Yalta (Crimea)
Per capire l’inizio di tutto bisogna partire da una villa aggrappata al crinale di una collina di Yalta. Fino all’anno scorso era un vecchio casolare di pietra circondata da vigneti e frutteti. Oggi è il “buen retiro” di Oleg Tsarov, l’ex deputato ucraino che, secondo l’intelligence americana, era stato scelto da Vladimir Putin per sostituire Volodymyr Zelensky, guidare un governo di transizione e riportare l’Ucraina nell’alveo della Russia.
Lui non lo ammette, ma neppure lo nega. “Quel 24 febbraio – racconta – ero sotto Kiev con i miei uomini. Avevamo armi, carri, munizioni, ma viveri per solo tre giorni. Doveva finire tutto in 72 ore, invece ho passato un mese intorno alla capitale, ho visto la guerra e molte cose che non auguro a nessuno”.
Oleg Tsarov (nella foto a lato) non vuole e non può raccontare tutto, ma fa capire che né lui, nè i russi si aspettavano di conquistare “manu militari” Kiev e il nord dell’Ucraina.
Quello che Tsarov non può raccontare lo ricostruiamo parlando con altri fuoriusciti del Partito delle Regioni, la formazione filo russa legata all’esecutivo del presidente Viktor Yanukovic destituito nel febbraio 2014 dopo gli scontri di Maidan.
“Il piano per riprendere il controllo dell’Ucraina – racconta una fonte vicina a Mikola Azarov, ultimo premier dell’Ucraina durante il mandato presidenziale di Viktor Yanukovyc – risaliva al 2014.
Lo preparammo e lo consegnammo al Cremlino dopo esser stati cacciati dal paese. In quel piano consigliavamo di conquistare tutto l’est e il sud del paese dopo aver destabilizzato il regime di Kiev usando i nostri contatti nell’esercito. Ma l’obbiettivo non era la presa della capitale bensì tutti i territori dove si concentrava la potenza industriale del paese e dove potevamo contare sull’appoggio della popolazione russa. Scendendo da Kharkhiv e avanzando dai territori di Lugansk e Donetsk bisognava arrivare a Dniepr. Al sud bisognava invece chiudere tutti gli accessi al mare da Odessa a Mariupol.
In questo modo avremmo avuto il pieno controllo dell’Ucraina più funzionale ai nostri interessi grazie alle sue strutture industriali ed energetiche e ai suoi sbocchi commerciali e marittimi. E avremmo potuto controllarla molto facilmente grazie alla presenza di una popolazione in larga parte russofona.
Alla Nato e all’Europa sarebbe rimasta un’Ucraina priva di risorse e incapace di reggersi sulle proprie gambe. Nel 2015 l’operazione sarebbe stata attuata molto facilmente visto che Kiev non aveva ancora ricevuto gli appoggi dell’Occidente. Ma il piano finì nel cassetto perché Vladimir Putin era convinto di poter risolvere la questione negoziando con l’Occidente. Quel dossier è tornato sulla scrivania del presidente nel 2021 quando Putin ha capito che l’amministrazione Biden non avrebbe mai permesso all’Europa di realizzare gli accordi di Minsk”.
Secondo le stesse fonti il via libera all’operazione militare è stato deciso solo pochi giorni prima del 24 febbraio dallo stesso Putin e da un circolo ristrettissimo di suoi consiglieri. Talmente ristretto che neppure Oleg Tsarov e gli altri leader scelti per far parte di un governo provvisorio conoscevano i piani nel dettaglio.
“Siamo arrivati alle porte di Kiev scortati da soldati di leva e dalla Rosgvardiyas, la Guardia Nazionale – racconta una delle nostre fonti – ma invece di venir accolti dai reparti dell’esercito ucraino pronti a deporre Zelensky ci siamo ritrovati attaccati da tutte le parti”.
Un ribaltamento di fronte che Oleg Tsarov imputa all’efficienza dell’intelligence inglese. “Sono stati molto più bravi di noi…. conoscevano tutti i nostri piani e li hanno fatti saltare uno dopo l’altro. Anche perchè qualcuno dei nostri ha tradito”.
Le ammissioni di Tsarov e di altri esponenti dell’ex Partito delle Regioni fanno capire i motivi della batosta subita da Mosca nel primo mese di operazioni.
In quel fatidico 24 febbraio i servizi segreti russi erano convinti che interi reparti delle forze armate ucraine sarebbero passate dalla loro parte giurando fedeltà al governo provvisorio affidato a Oleg Tsarov e ad altre personalità fedeli a Mosca.
“Quei comandanti garantivano di stare dalla nostra parte ma quando il piano è stato scoperto molti di loro sono stati arrestati e fatti confessare, altri si sono riallineati al governo” – spiega la nostra fonte. Una versione confermata dalla vicenda del banchiere-spia Denis Kireyev.
Inserito nella squadra ucraina che il 28 febbraio a Gomel, in Bielorussia, avvia le prime trattative con i russi, Kieryev viene brutalmente assassinato a Kiev, il 4 marzo, da un commando dei servizi segreti ucraini. Un assassinio che rientra nel giro di drastiche purghe con cui vengono eliminati tutti i sospetti complici dei piani russi. La mancata discesa in campo delle unità ucraine anti-Zelensky è dunque la vera causa del fallimento delle operazioni russe sul fronte di Kiev.
Anche perché una parte rilevante del contingente mandato a Kiev faceva capo alla Rosgvardiya, formazione paramilitare addestrata a garantire l’ordine e la sicurezza ma inadeguata ad affrontare operazioni di conquista territoriale o combattimenti in ambiente urbano. Il quel primo mese di guerra le unità ucraine possono contare, invece, su indiscutibili vantaggi strategici, tattici e ambientali. Le piccole squadre d’assalto addestrate dai consiglieri inglesi e statunitense sono in gran parte concentrate intorno a Kiev e possono avvalersi dei missili anticarro statunitensi Javelin e sugli Nlaw anglo- svedesi per colpire alle spalle e ai fianchi le colonne russe in movimento su un territorio sconosciuto.
La concentrazione dei combattimenti nell’area di Kiev permette inoltre all’intelligence americana e inglese di scegliere gli obbiettivi individuati da satelliti e droni e trasmetterne le coordinate alle unità tattiche ucraine. Un autentico inferno per le unità della Rosgvardiya, che vengono ritirate, ma lasciano sul campo centinaia di uomini. Non a caso il 6 giugno Vladimir Putin fa approvare un fondo speciale che garantisce risarcimenti da 5 milioni di rubli (circa 89mila euro) ai famigliari di ciascun caduto della Rosgvardya.
Ma, a detta di Oleg Tsarov il fallimento di Kiev poteva essere l’occasione per chiudere la guerra già a fine marzo. “Il ritiro russo da Kiev e da Sumy non è stata una decisione unilaterale. Dietro c’erano dei precisi accordi presi nel corso dei negoziati in Turchia con l’Ucraina e con gli stati chiamati a farsi garanti dell’intesa.
A fine marzo Vladimir Medinskij, il capo della delegazione russa incaricata dei negoziati anticipò che d’intesa con Putin era stato deciso il ritiro da Kiev e da Sumy. In cambio l’Ucraina s’impegnava ad accettare uno “status” di neutralità, a riconoscere le repubbliche di Donetsk e Lugansk e il passaggio della Crimea a Mosca. Ma solo pochi giorni dopo Washington e Londra hanno fatto saltare tutto”.
Se gli chiedi il come e il perché Oleg Tsarov sorride. “Pensi alle date. Il ritiro russo dal nord si è concluso il 31 marzo, tre giorni dopo è montato il caso di Bucha….
I servizi segreti inglesi sono i veri registi delle mosse di Kiev e sono stati bravissimi, anche in quel caso, a costringere Zelensky a rimangiarsi le intese. Purtroppo voi in Occidente non potete scriverlo perchè per voi è un tabù, ma io lo so. Tra i politici di Kiev ho ancora tantissimi amici e conoscenti e so che oggi nessuno di loro può decidere i propri destini. Le decisioni vengono prese altrove con il solo scopo di fare la guerra alla Russia. Questo non basterà a sconfiggerla, ma di certo costerà tantissime altre vite russe ed ucraine. E questo da ucraino è il mio grande dolore”.
Foto: Gian Micalessin, Ministero Difesa Russo e Ministero della Difesa Ucraino
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Nato a Trieste nel 1960, è uno dei più noti e apprezzati reporter di guerra italiani. Dal 1983 ha seguito sul campo decine di conflitti inclusi i più recenti in Afghanistan, Iraq, Libia, Siria e Ucraina. Reporter e opinionista per Il Giornale e il sito Gli Occhi della Guerra, nella sua carriera ha collaborato con Corriere della Sera, Repubblica, Panorama, Libération, Der Spiegel, El Mundo, L'Express e Far Eastern Economic Review oltre che con le emittenti televisive CBS, NBC, Channel 4, TF1, France 2, NDR, TSI, RaiNews24, RaiUno, Rai 2, Canale 5 e LA7. Per il suo lavoro di reporter di guerra ha ricevuto il Premio Antonio Russo (2003), il Premio giornalistico Cesco Tomaselli (2007) e il Premio Ilaria Alpi (2011).