Il ruolo della Bielorussia nella guerra in Ucraina

 

 

 

Il 15 dicembre del 1992 una delegazione proveniente da Budapest, guidata dal Generale Janos Kovacs, Comandante delle Forze Armate ungheresi, fece il suo ingresso nell’aula magna della Scuola di Guerra di Civitavecchia gremita di frequentatori del Corso di Stato Maggiore.

Non si trattava di una delle tante visite istituzionali inserite nel corso di studi poiché chi guidava la delegazione era stato fino a pochi mesi prima il responsabile delle operazioni che il Patto di Varsavia, per mezzo dell’Esercito ungherese, avrebbe dovuto condurre in Italia nel 1987 nel contesto più generale della vasta offensiva dell’Unione Sovietica contro l’Europa occidentale. Il titolo della conferenza era “La Pianificazione Strategica nell’era del Patto di Varsavia” e l’argomento veniva trattato nel momento in cui i frequentatori, tra i quali il sottoscritto, stavano approfondendo lo studio della dottrina e delle modalità operative dell’Esercito Sovietico.

Nel 1987, dunque, Mosca era pronta a scatenare la terza guerra mondiale e solo la lucidità e il pragmatismo di Gorbaciov salvarono l’Europa (e la Russia) da una catastrofe senza precedenti. Un anno prima, In un discorso al XXVII congresso del Partito Comunista Sovietico (PCUS) lo statista russo aveva fatto un’analisi impietosa del degrado politico, economico, tecnologico e morale del paese sottolineando l’urgenza di riformare radicalmente l’inefficiente sistema sovietico dal punto di vista politico ed economico.

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La Russia era arrivata al collasso economico per preparare l’invasione dell’Europa e sostenere il confronto con la NATO e nel 1987 solo il 24% della capacità produttiva russa era dedicata a beni e servizi di utilità sociale.

Il resto era tutto destinato al settore militare e al suo indotto. La Russia non avrebbe mai potuto sostenere, sul piano economico, il conflitto contro l’Occidente e questo era chiaramente incompatibile con le riforme da avviare sintetizzate da Gorbaciov con le celebri parole perestrojka (ristrutturazione) e glasnost (trasparenza).

Le pericolose ambizioni dei conservatori e dei falchi del Cremlino furono quindi definitivamente accantonate, ma mai sopite poiché il nuovo corso imposto dai riformatori alla Russia post-sovietica non fu mai accettato da chi considerava, e tutt’ora considera, l’Occidente come antagonista malevolo della Russia.

L’apertura degli archivi dei Paesi facenti parte del Patto di Varsavia avrebbe permesso agli storici di ricostruire le intenzioni sovietiche nei confronti del blocco occidentale confermando la prospettiva dell’invasione dell’Europa e di accedere, soprattutto, ai piani che Mosca aveva assegnato a ciascun membro del Patto.

L’Armata Rossa si sarebbe fatta carico dello sforzo offensivo principale contro la NATO dilagando con le proprie forze nella pianura tedesca con l’assistenza delle truppe cecoslovacche, mentre agli ungheresi era stato assegnato il compito di agire lungo la direttrice sussidiaria meridionale (quella italiana) a copertura del fianco sinistro del main effort. I dettagli del piano operativo contro l’Italia furono quindi condivisi in anteprima ben prima che qualunque studioso potesse analizzarne e diffonderne i contenuti. La bandiera rossa con la falce e il martello era stata ammainata dal pennone più alto del Cremlino il 25 dicembre del 1991, solo un anno prima della visita della delegazione magiara.

Ci sono due aspetti di quel piano (cervello russo e braccio ungherese) che fecero trasecolare la platea degli uditori e dei loro docenti. Innanzitutto, l’invasione dell’Italia non sarebbe avvenuta attraverso la soglia di Gorizia ad est, ma dalla direttrice settentrionale di Tarvisio.

Questo in quanto Mosca non riteneva la Jugoslavia un alleato affidabile per via delle distanze che il Maresciallo Tito aveva preso sin dagli anni Cinquanta dal sistema comunista sovietico, istituendo un modello politico ed economico socialista alternativo. Il Paese, tra l’altro, non aveva neanche aderito al Patto di Varsavia e le sue forze armate (l’Armata Popolare di Jugoslavia) erano state strutturate per assicurare una “difesa nazionale totale”.

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L’Armata popolare, ampiamente ispirata al vasto movimento partigiano sviluppatosi in Jugoslavia durante l’occupazione da parte delle potenze dell’Asse nella Seconda guerra mondiale, aveva il compito di rallentare l’avanzata di un possibile nemico il più possibile per dare il tempo alla popolazione civile di mobilitarsi in forze di difesa territoriale dotate di grande indipendenza operativa. Queste, sfruttando la conoscenza del terreno e le tattiche della guerriglia, si sarebbero trasformate in un monolitico esercito di resistenza che avrebbe condotto azioni militari, continuato la produzione bellica e mantenuto l’amministrazione dello Stato nelle zone occupate, proseguendo una guerra di logoramento contro l’invasore.

La peculiarità di questa organizzazione militare, e la sua resilienza, nelle mani di una leadership politica non allineata con il Cremlino, aveva convinto i pianificatori russi ad escludere a priori il coinvolgimento della Jugoslavia e del suo territorio dall’invasione dell’Europa occidentale.

Il rischio era quello di giocare la parte del nemico da rallentare e logorare nel caso Belgrado non avesse visto di buon occhio le operazioni russe. Tito (nella foto sopra)  era morto nel 1980, ma a sette anni dopo la sua morte, a fronte dei chiari segnali di sgretolamento della Federazione Jugoslava, l’inaffidabilità del complesso sistema sociale, politico e militare balcanico per i piani di Mosca fu confermata e Belgrado fu tenuta fuori dai piani dell’invasione.

Il secondo aspetto del piano riguardava le modalità con le quali i russi avrebbero raggiunto l’obiettivo di conquistare l’Italia settentrionale. La carta delle operazioni del fronte italiano con le scritte in cirillico era costellata, dal Friuli all’Emilia Romagna, di ovuli rossi.

Rappresentazione grafica efficace del fuoco nucleare tattico che avrebbe disarticolato le difese italiane e consentito alle forze corazzate e meccanizzate ungheresi di raggiungere Bologna (obiettivo operativo) in 48-72 ore. Non occorreva raggiungere Roma. Di fronte alla minaccia di proseguire con il fuoco nucleare sul resto dell’Italia settentrionale e oltre, l’Italia si sarebbe arresa (obiettivo strategico).

Dunque, l’intero dispositivo difensivo italiano, orientato a est, sarebbe stato aggirato e polverizzato nel giro di poche ore, con buona pace di tutte le pianificazioni e ipotesi d’impiego del nostro esercito basate sulla saga dell’eroica difesa della soglia di Gorizia. Tra l’altro, i sistemi d’arma e i mezzi italiani erano stati giudicati dagli analisti russi e ungheresi di qualità inferiore a quella degli altri paesi dell’Alleanza Atlantica. Compito facile quindi per Mosca che, fortunatamente, non ebbe la possibilità di verificare l’accuratezza del suo piano.

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Venendo ai nostri giorni e al conflitto in Ucraina, è chiaro che Lukashenko non è Tito (la caratura politica non è paragonabile) e la Bielorussia non è la Jugoslavia anche perché il territorio di quest’ultima, tutto sommato, non era così determinante per i piani di Mosca come quello bielorusso il cui confine meridionale dista da Kiev poco più di 150 chilometri. Curiosamente, la Russia di oggi, come quella di trentacinque anni fa, non ha potuto contare sul pieno supporto di una nazione che avrebbe potuto giocare un ruolo importante nel contesto di un’altra invasione, questa volta concretizzata, quella dell’Ucraina.

Molti si aspettavano l’entrata in campo di Minsk al fianco delle forze armate della Federazione Russa, ma l’idea di inviare truppe bielorusse a combattere in Ucraina è altamente impopolare a livello nazionale e potrebbe costare a Lukashenko il sostegno del suo esercito o rischiare un picco di disordini interni.

Un sondaggio condotto da Chatham House un mese prima dell’inizio della guerra indicava un 12% della popolazione bielorussa favorevole alla partecipazione diretta al conflitto ucraino. Dopo il primo mese di combattimenti, la percentuale era scesa al 3%.

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Solo nel 2021 l’Ucraina ha rilasciato 4.300 permessi di soggiorno ai bielorussi, molti dei quali sono fuggiti dal paese per evitare persecuzioni o per aiutare l’Ucraina a difendersi dall’aggressione russa. Inoltre, oltre 1.500 volontari bielorussi si sono uniti alle forze di Kiev e gli attivisti all’interno della Bielorussia hanno cercato di interrompere le reti ferroviarie nazionali per ostacolare il movimento delle truppe russe attraverso il paese. Insomma, lo scenario evitato in Jugoslavia i russi se lo sono ritrovato praticamente alle porte di casa.

Lukashenko alimenta l’immagine di un’Ucraina ostile e mantiene le forze armate (di tipo sovietico e con tecnologia obsoleta) in stato di allerta impegnandole in esercitazioni ai confini con l’Ucraina. Ciò costringe Kiev a mantenere delle forze orientate alla difesa dei suoi confini settentrionali. Inoltre, Minsk ha potuto assicurare a Mosca l’utilizzo del territorio bielorusso e del suo spazio aereo per facilitare lo sviluppo dell’operazione speciale, ma questo è tutto quello che Putin è riuscito a ottenere dal fidato alleato.

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Dal momento in cui le ostilità si sono spostate verso il sud e l’est dell’Ucraina, la probabilità che la Bielorussia entri in guerra è diminuita, sebbene non sia scomparsa completamente dall’agenda. Ma anche se Putin avesse bisogno di impegnare l’esercito bielorusso in battaglia ad un certo punto della guerra è quasi certo che Lukashenko resisterebbe.

Nonostante l’attuale pressoché totale dipendenza di Minsk da Mosca (la Russia ha fornito alla Bielorussia tre miliardi di dollari in prestiti, fornisce petrolio e gas senza dazi ed è il principale importatore di prodotti bielorussi), la priorità di Lukashenko è la propria sopravvivenza politica. Si piegherà alla volontà del Cremlino solo se crede che non farlo sarebbe più pericoloso per lui.

L’invio di truppe bielorusse sotto la pressione russa, contro la volontà di quasi tutta la popolazione, è chiaramente al di là della portata del rischio accettabile per Minsk. Qualora l’offensiva russa si i esaurisse nel Donbass, eventualità che sarebbe considerata una sconfitta a tutti gli effetti per Mosca, non sarebbe da escludere lo scenario nel quale Lukashenko rivendicherebbe la rinuncia alla piena partecipazione alla guerra. Ricordiamoci che a due mesi dall’inizio del conflitto, vista la mala parata delle truppe dell’invasore, si era lamentato di essere stato erroneamente designato come collaboratore dell’aggressore chiedendo che Minsk fosse invitata ai negoziati di pace come parte a sé stante.

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In futuro, Lukashenko potrebbe dichiarare che la Bielorussia è stata semplicemente usata senza il suo consenso, che non è stato possibile per Minsk resistere a migliaia di soldati russi schierati sul suolo patrio. Potrebbe obiettare che hanno fatto quello che potevano senza partecipare direttamente al conflitto.

Per l’Occidente, eventualmente intenzionato a inserire un cuneo tra Putin e Lukashenko, potrebbe costituire un motivo per revocare le sanzioni a Minsk, almeno parzialmente, in una nuova realtà postbellica. Nella partita dell’Ucraina la Bielorussia potrebbe giocare quindi in due campi risultando non del tutto affidabile per i piani di Mosca.

 

Foto: Presidenza, Ministero della Difesa Bielorusso, Wikipedia e www.associazionenazionalefantiarresto.it

 

 

 

Nato a Vicenza nel 1960, è stato il vice comandante dell'Allied Rapid Reaction Corps (ARRC) di Innsworth (Regno Unito), capo di stato maggiore del NATO Rapid Reaction Corps Italy (NRDC-ITA) di Solbiate Olona (Varese), nonché capo reparto pianificazione e politica militare dell'Allied Joint Force Command Lisbon (JFCLB) a Oeiras (Portogallo). Ha comandato la brigata Pozzuolo del Friuli, l'Italian Joint Force Headquarters in Roma, il Centro Simulazione e Validazione dell'Esercito a Civitavecchia e il Regg. Artiglieria a cavallo a Milano ed è stato capo ufficio addestramento dello Stato Maggiore dell'Esercito e vice capo reparto operazioni del Comando Operativo di Vertice Interforze a Roma. Giornalista pubblicista, è divulgatore di temi concernenti la politica di sicurezza e di difesa.

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